Giacomo Amadori, Libero 7/2/2015, 7 febbraio 2015
BENI CONFISCATI ALLA MAFIA SPRECO DA TRENTA MILIARDI
C’è una villa fiabesca a Miasino in provincia di Novara. Nel 2009 è stata confiscata definitivamente al boss della camorra Pasquale Galasso, ma per un periodo i famigliari del capoclan hanno continuato a gestirla per l’organizzazione di matrimoni. Ora è tornata sotto il controllo dello Stato ed è stata affidata all’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc). Peccato che non la voglia nessuno. «In Piemonte il castello di Miasino non è ancora consegnato perché non c’è un ente, tra Regione, Comune e Provincia che se lo voglia prendere» si lamenta con Libero il direttore dell’Anbsc, il prefetto Umberto Postiglione. Ma non è il solo caso. A scoraggiare gli enti pubblici sono i costi di gestione delle strutture sequestrate alla malavita e, frequentemente, le associazioni accettano di prenderle in consegna solo in cambio di lauti finanziamenti pubblici. La conseguenza è che la principesca dimora piemontese è la punta dell’iceberg del tesoro sottratto alle organizzazioni criminali che langue e non produce ricchezza. Un patrimonio di cui Libero pubblica in anteprima l’attuale consistenza: a oggi i beni confiscati alle mafie sono 18.832 mila e più della metà (10.204) sono ancora da destinare. IL GIALLO DEL VALORE Nel novembre del 2013 l’allora direttore dell’Anbsc Giuseppe Caruso provò a stimarli: «Ammonta a 10 miliardi di euro il valore nominale dei beni confiscati alle mafie». In una relazione dell’Antimafia della primavera precedente un parlamentare era andato oltre ipotizzando un valore tra i 18 e i 34 miliardi di euro, pari all’1,7 per cento del pil. Ma Postiglione quando sente certi numeri scuote la testa: «Un conto è il valore nominale e un altro quello reale, visto che spesso questi beni sono senza mercato». Probabilmente certe statistiche sono buone solo per ingrassare i comunicati stampa di governi, forze dell’ordine e tribunali. Sul sito “Confiscatibene” si legge che dal 2008 al 2012 il valore medio dei singoli beni assegnati a comuni e demanio è sceso da 200 mila euro a meno di 40 mila. Tra le cause di questo trend la difficoltà di vendere le case dei malavitosi: «Secondo lei un siciliano può comprarsi la villa di un mafioso e starsene tranquillo là dentro? Non scherziamo! La verità è che per quei beni dobbiamo trovare usi pubblici che non consentono guadagni» avverte Postiglione. L’armamentario retorico delle associazioni antimafia esalta la “funzione educativa” del riutilizzo di quei beni, ma non mette in evidenza il fatto che i costi di quei progetti dalle meritorie finalità sociali gravano, come sottolineato dal direttore, nella maggior parte dei casi, sui bilanci degli enti pubblici. I quali, viste le finanze dissestate, sempre più spesso, come nel casi del castello di Miasino, evitano di farsi assegnare gli immobili. I problemi non sono finiti: quando i beni vengono consegnati, magari ai più prosperi comuni del Nord, mancano le risorse per effettuare i controlli necessari sull’uso delle strutture da parte dei concessionari. Per legge dovrebbe essere un compito dell’agenzia, che, però, non ha forze sufficienti. Infatti i dipendenti (“in prestito” da altre strutture) sono 90. Trenta si occupano delle questioni amministrative gli altri 60, dislocati in cinque sedi, dovrebbero monitorare oltre 18 mila beni. «È un’impresa impossibile» si lamenta Postiglione. Il risultato è che nessuno controlla niente e che i beni confiscati finiscono quasi sempre ai soliti noti a costo zero: coop e associazioni che piacciono alla gente che piace. Per il direttore della Anbsc la legge sui beni confiscati del 1996 ha uno spirito idealista e pionieristico poco radicato con la realtà: «L’esaltazione del bene acquisito dallo Stato come mero simbolo non fa i conti con i problemi concreti che crea». L’amara verità «è che quando si investe nella cultura della legalità per vedere i frutti occorre aspettare qualche decennio». Per il direttore esistono soluzioni più veloci e meno intrise di retorica per offrire un sostegno immediato ai bisognosi, evitando che finiscano con l’ingrossare le fila dei delinquenti. La ricetta è quella di vendere al fondo immobiliare della Cassa depositi e prestiti del ministero dell’Economia e delle finanze gli immobili di pregio, già messi a reddito perché affittati, e reinvestire i soldi incassati nell’emergenza abitativa. Due le possibili strade: fornire “buoni casa” o ristrutturare gli alloggi confiscati più modesti per trasformarli in case popolari. Un’idea che eviterebbe nuove cementificazioni o quartieri ghetto come Scampia o lo Zen di Palermo. Però questa soluzione non sembra avere molti sostenitori: «Sono sei mesi che ne parlo - spiega Postiglione - ma mi rispondono che questa soluzione favorirebbe solo alcune aree del Paese. Io credo che restituire qualcosa a quei territori martoriati non sia un peccato mortale». Purtroppo quella del riutilizzo dei beni è una bandiera che certi professionisti dell’antimafia non intendono ammainare, considerando la rivendita «un errore politico e culturale». In provincia di Siena si trova il più grande bene confiscato alle cosche in centro Italia: è la tenuta di Suvignano, 700 ettari, con una villa e 13 case coloniche. Nei mesi scorsi l’agenzia aveva proposto la messa all’asta al prezzo di 22 milioni di euro, un’ipotesi contro la quale Regione e associazioni, guidate da Libera, hanno fatto le barricate. MORTALITÀ AZIENDALE Nella fabbrica delle confische non funzionano pure altri ingranaggi: a luglio la Corte dei conti ha denunciato le pastoie burocratiche, criticando anche la mancata “rendicontazione” di molti amministratori giudiziari e la scarsa trasparenza nel trasferimento dei sequestri in denaro nel Fondo unico per la giustizia. Un’altra questione riguarda la mortalità delle aziende sequestrate ai mafiosi. Ufficialmente sono circa 1500 e arrivano al sequestro definitivo dopo un lungo iter giudiziario a cui difficilmente sopravvivono. Emblematico è il caso dell’Ati group di Palermo e dei suoi 120 operai che hanno visto sparire lentamente i loro posti di lavoro durante gli undici anni di processi. Tuttavia i numeri non raccontano la vera storia della imprenditoria criminale. Nell’elenco dell’Anbsc sono comprese molte ditte unipersonali, che chiudono con l’arresto del titolare, mentre altre sono meri strumenti criminali per fatturazioni fittizie e altre operazioni illecite. Ci sono poi quelle che sono competitive unicamente perché agiscono al di fuori delle regole e quando devono rispettarle non riescono più a far quadrare i conti. «Per esempio in Sicilia un’azienda onesta non può competere con quelle mafiose che producono e vendono con la minaccia, usano materiali scadenti, sfruttano il lavoro nero». A salvarsi sono soprattutto gli alberghi e i centri commerciali. Il direttore dell’agenzia ha proposto l’istituzione di un nucleo qualificato di professionisti, docenti di gestione aziendale, soggetti pubblici come l’agenzia per lo sviluppo delle imprese Invitalia per avere una diagnosi precoce sulla salute e sulla reale aspettativa di vita di «quelle cose chiamate aziende». Ma anche su questo punto da governo e Parlamento al momento non sono giunte risposte concrete. Postiglione fa appello al pragmatismo: «Bisogna inaugurare una nuova stagione dei beni confiscati che oltre ai contenuti ideali vada alla ricerca di soluzioni concrete perché a volte un piccolo interesse soddisfatto, come una casa in affitto, è il messaggio più forte che si possa lanciare contro le mafie».