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 2015  febbraio 07 Sabato calendario

SETTE ANNI DI ANARCHIA IN SICILIA

La Sicilia è «terra incognita» per il resto d’Italia. Considerata un altrove, e come tale fucina di miti letterari, vista come esotico enigma, come inestricabile labirinto di miseria e nobiltà, di sangue e fascinazione, ci accade spesso di perderla di vista, di rinunciare magari non ad amarla, ma a capirla. La vocazione nazionale all’oblio ha fatto il resto. Il risultato è che il libro di Alfio Caruso su fatti accaduti nella più vasta regione d’Italia appena due generazioni fa si legge oggi come una trama misteriosa e sbalorditiva, dipanatasi in epoche oscure e in terre su cui nelle mappe mentali è scritto: «Hic sunt leones».
Va detto che lo sbalordimento non è solo effetto del nostro oblio, ma anche della grande bravura dell’autore. Caruso in questi anni ha raccontato ai suoi lettori pagine drammatiche della storia italiana ed europea, in particolare della Seconda guerra mondiale, restituendo l’onore ai combattenti dimenticati di El Alamein, di Cefalonia, di Nikolajevka, senza concedere nulla al revanscismo nostalgico, anzi documentando gli errori e gli orrori del regime.
Ora con Quando la Sicilia fece guerra all’Italia (Longanesi) torna a occuparsi di quel periodo, in particolare dei sette anni che vanno dallo sbarco del luglio 1943 alla morte di Salvatore Giuliano (5 luglio 1950). E approfondisce la storia della sua terra (Caruso è esponente della grande scuola giornalistica catanese, che ha dato al «Corriere» tra gli altri Nino Milazzo, Francesco Merlo, Maria Grazia Cutuli, Paolo Valentino con incursioni di Giampiero Mughini e Pietrangelo Buttafuoco).
È impossibile restituire in poche righe un intreccio fitto di personaggi, episodi, dettagli; scoperte che fanno luce su misteri antichi, enigmi destinati a rimanere insoluti. È possibile tentare una sintesi. E descrivere almeno la scena su cui si apre il sipario.
Siamo nel 1942. La guerra è ancora in bilico. Ma Andrea Finocchiaro Aprile, notabile della Sicilia prefascista, in contatto con la massoneria e i servizi segreti britannici, spiega ai suoi interlocutori le ragioni per cui gli Alleati la vinceranno. E comincia a preparare il terreno per lo sbarco angloamericano. Finocchiaro Aprile non è un oppositore del regime. Ha tentato di ingraziarsi il Duce con una lettera ignobile in cui si candidava a prendere il posto di Giuseppe Dell’Oro, direttore generale del Banco di Sicilia, «per il caso che il governo fascista, in attuazione delle provvide norme sulla difesa della razza, credesse di doverlo dispensare dal servizio». Mussolini non ha neppure risposto. Ora Finocchiaro Aprile si candida a capeggiare di fatto quello che Caruso chiama il Pus, Partito unico siciliano. E vagheggia di separare l’isola dall’Italia, magari per farne l’avamposto europeo degli Stati Uniti.
Del partito unico fanno parte innanzitutto i latifondisti, disposti a tutto pur di non perdere i privilegi che neppure il fascismo — visto come «un movimento del Nord» — ha intaccato, limitandosi a espropriare gli eredi di Nelson, eroe della nemica Inghilterra. Poi ci sono imprenditori, politici, massoni, qualche magistrato. Ma soprattutto ci sono i mafiosi. C’è, insomma, l’establishment siciliano, che tenta di reggere il ritmo accelerato della storia e magari di anticiparlo, vagheggia di offrire il trono di Sicilia ai Savoia spodestati, arruola volontari per l’indipendenza, si avvale di Salvatore Giuliano come capo dei bravi, arma la mano che a Portella della Ginestra fa strage di braccianti (memorabile la telefonata di rivendicazione del bandito ai carabinieri di Partinico: «Poiché ci siamo assunti il compito di combattere i comunisti, preghiamo i carabinieri reali di cercare di non combatterci perché a noi dispiacerebbe molto usare le nostre armi contro le forze devote al nostro re…». È il 2 giugno 1947, primo anniversario della Repubblica italiana).
Negli anni in cui la Sicilia si ribella allo Stato si combatte una sorta di guerra civile a intensità neppure troppo bassa, che costa duemila morti e si conclude con la grande normalizzazione democristiana. Decisiva è la lunga battaglia (ricostruita dall’autore nei dettagli) di Giuliano contro lo Stato, rappresentato da un altro siciliano: Mario Scelba. Sullo sfondo, emergono altri personaggi da romanzo: come Maria Lamby Karintelka, svedese, spia per conto degli americani, che avvicina il bandito come giornalista e passa giorni interi con lui, fino a guadagnarsi il soprannome di «Pompadour di Montelepre». Ci sono Tommaso Besozzi che rivelerà la vera fine di Giuliano, lo studente catanese (di origine irpina) Antonio Pallante che spara a Togliatti, e gli otto carabinieri caduti a Feudo Nobile, altra strage rimasta impunita. E c’è un palermitano, Antonio Canepa: antifascista, attenta alla vita di Mussolini, progetta di impossessarsi della stazione radio di San Marino per lanciare appelli contro il regime, sfugge all’Ovra, si ricrea una verginità politica ottenendo all’università di Catania la cattedra di cultura e dottrina del fascismo, diventa un agente inglese, scrive un pamphlet indipendentista, si iscrive al Pci e viene ucciso in un agguato rimasto misterioso. Tutto pare accaduto in un’altra epoca su un altro pianeta. Invece è la nostra storia.