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 2015  febbraio 07 Sabato calendario

KAYLA, IL SOGNO DI AIUTARE L’OSTAGGIO «SEGRETO» DA SEI MILIONI DI DOLLARI

WASHINGTON Quella di Kayla Mueller è una vita per gli altri. Un’esistenza risucchiata in quel pozzo di violenza che è la Siria, dove l’hanno sequestrata nel 2013. Da allora la ragazza di Prescott, Arizona, è diventata la prigioniera «segreta», della quale non si parlava nella speranza di riportarla a casa. Un impegno rinnovato, pochi giorni fa, dal presidente Obama, pur consapevole che i margini erano angusti.
La parabola di Kayla, 26 anni, ricorda quella di altri ostaggi, andati ad aiutare il prossimo e finiti nelle mani dei sequestratori. Una giovane generosa che voleva «fare di più» e lo ha dimostrato sul campo, dal Medio Oriente all’Asia.
La ragazza per tre anni ha partecipato ad una campagna di «Save Darfur Coalition», iniziativa in favore della regione teatro di una lunga lotta. Poi viaggi nei territori palestinesi, in India e Nepal. Nel 2011 è tornata in Arizona per lavorare come volontaria in un centro che accoglieva donne in difficoltà e assistente di malati di Aids. Una parentesi locale prima di un altro salto lontano. Ha studiato il francese in vista di una missione in un Paese africano, ma il destino l’ha portata altrove.
I profughi che hanno trovato un riparo precario in Turchia sono diventati, nel 2012, la nuova causa. Lei stessa, con un video su YouTube, lo ha ribadito: «Sono solidale con il popolo siriano, rifiuto la brutalità e gli omicidi che le autorità siriane stanno commettendo... il silenzio significa esserne complici».
In una testimonianza pubblicata da un giornale di Prescott, Kayla ha raccontato la sofferenza dei civili: «Quando loro mi chiedono dove è il mondo (che non ci aiuta, ndr), io piango e rispondo che non lo so». E in lei è cresciuta la rabbia «perché non poteva fare abbastanza» verso la popolazione così provata. Difficoltà alle quali ha sempre risposto nel suo stile. «Finché avrò vita — è stata la sua promessa — non permetterò che questa sofferenza diventi qualcosa di normale, qualcosa che accettiamo e basta. È importante fermarsi e capire quanto siamo privilegiati».
E’ probabile che Kayla non abbia guardato l’altra faccia della crisi, quella truce dei militanti. Ai loro occhi era la preda perfetta, da usare come arma di pressione. Queste le tappe: nel 2012 la giovane è arrivata in Turchia; nell’estate dell’anno dopo si è spostata ad Aleppo, dove il 4 agosto, è stata sequestrata; la prima prova di vita alla famiglia è giunta con un video nel maggio 2014 dove c’è un appello a salvarla. In questi mesi i terroristi avrebbero chiesto 6 milioni di dollari di riscatto e forse anche uno scambio con Aafia Siddiqui, una qaedista detenuta negli Stati Uniti. Un negoziato che però non poteva avere successo in quanto la Casa Bianca ha detto no al baratto.
La storia dunque è rimasta avvolta nel riserbo da parte delle autorità (e dei mass media) ma anche dell’Isis che forse ha pensato di utilizzare Kayla diversamente. L’occasione si è aperta quando la Giordania ha lanciato i nuovi raid. Non osando ucciderla in pubblico, i militanti hanno giocato la notizia dello scudo umano per dividere le opinioni pubbliche, addossare ogni colpa al nemico, mettere in imbarazzo Amman agli occhi degli americani, dimostrare che l’opzione militare è quanto mai rischiosa. Modus operandi che ricorda quello di Saddam.
Il Califfo ha fatto questa scelta dopo il contraccolpo avuto con il martirio del pilota giordano Muath. E Kayla è diventata la mossa per andare oltre anche in chiave propagandistica. Nelle mani dell’Isis, oltre ai prigionieri locali, sono rimasti l’inglese John Cantlie — impiegato come testimonial — e tre dipendenti della Croce Rossa ma dei quali non si conosce la nazionalità. Tra loro c’è qualche pedina da scambiare?