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 2015  febbraio 09 Lunedì calendario

L’eccesso di orgoglio fa male alla grecia Caro direttore, per quanto mi sia difficile dirlo — per via di tutto ciò che anche personalmente mi lega alla Grecia — temo che la soluzione della crisi greca sia meno lineare di quanto non potrebbe apparire da quanto scrive Lucrezia Reichlin («Non ripetiamo altri gravi errori

L’eccesso di orgoglio fa male alla grecia Caro direttore, per quanto mi sia difficile dirlo — per via di tutto ciò che anche personalmente mi lega alla Grecia — temo che la soluzione della crisi greca sia meno lineare di quanto non potrebbe apparire da quanto scrive Lucrezia Reichlin («Non ripetiamo altri gravi errori. Adesso conviene salvare la Grecia», 7 febbraio 2015). E non solo per tutto ciò — ed è tanto — che potrebbe derivare da un pericoloso intrecciarsi della crisi ucraina con la crisi greca. Sgombriamo il campo dalle questioni marginali. È vero: l’Unione europea poteva affrontare la crisi greca del 2010 meglio di quanto non abbia effettivamente fatto (e sarebbe stato certamente meglio chiamare la ristrutturazione del 2012 con il suo nome — un default — cominciando a stabilire alcune regole generali in casi del genere). In questo senso, non è affatto casuale la disponibilità ad aiutare la Grecia espressa dai leader dei Paesi dell’Unione prima e dopo le elezioni greche. Ma pensare di contrapporre una partita morale a una partita finanziaria (e, soprattutto, politica) significherebbe ripetere l’errore e, com’è noto, due errori non fanno una cosa giusta. Il punto di fondo è un altro. Da oltre un triennio a questa parte, l’Unione europea si muove — spesso implicitamente — su un sottilissimo crinale riassumibile in una semplice e difficilmente controvertibile affermazione: «Una maggiore solidarietà fra i Paesi membri è possibile, se accompagnata da una progressiva cessione di sovranità». È così che abbiamo affrontato l’emergenza di questi anni, senza perdere di vista l’obbiettivo strategico. Ed è esattamente questa affermazione che il nuovo governo greco non intende sottoscrivere. Il rifiuto del monitoraggio da parte della cosiddetta troika esprime questa posizione con chiarezza. Ma non meno illuminanti, da questo punto di vista, sono alcuni punti del programma elettorale che ha portato Syriza alla vittoria e la natura delle stesse alleanze parlamentari che sorreggono il governo Tsipras. Cedere su questo punto — accettare il principio per cui una maggiore solidarietà è possibile anche in assenza di una progressiva cessione di sovranità, come sembra ipotizzare fra le righe Lucrezia Reichlin — significa avallare una improponibile disparità di trattamento fra i suoi Paesi membri e porre le basi per una dissoluzione non solo e non tanto dell’area dell’euro quanto del percorso ideale che ci ha condotti all’Unione stessa. È arrivato il momento che i greci ricordino che in due casi su tre i membri della troika sono espressione — indiretta, certo, ma pur sempre espressione — dell’Europa e dei suoi cittadini. Di noi tutti. Anche degli stessi greci. La sensazione netta è, invece, che il nuovo governo greco stia rifacendo un percorso già visto nella storia della Grecia moderna: quello di un orgoglio nazionale anche ostentato associato a una sostanziale subalternità agli interessi di questa o quella grande potenza (le cui bandiere si intravedono, sullo sfondo, anche nella vicenda di queste settimane). Un percorso cui non sono estranee le vicende della storia economica greca: una storia segnata da ripetuti default e da ricorrenti ristrutturazioni del debito, dalla riluttanza a comprendere che non c’è autonomia senza rispetto della parola data, e non c’è indipendenza senza finanze pubbliche in ordine. La Grecia, in altre parole, sembra essersi fermata proprio quando avrebbe dovuto fare un ultimo e decisivo passo avanti per lasciarsi alle spalle gli aspetti meno gloriosi del suo passato. La strada del negoziato va battuta, da parte di tutti i Paesi dell’eurozona, con determinazione, in fretta e senza riserve mentali. Ma è una strada che ha limiti precisi e che va percorsa nella consapevolezza che il punto di arrivo del negoziato deve essere un passo in avanti nella costruzione europea e non un definitivo passo indietro. Università di Roma Tor Vergata