Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 8/2/2015, 8 febbraio 2015
CIBO ITALIANO, LA GUERRA (PERSA) DELL’ETICHETTA
Mentre a Milano si celebra il made in Italy con i primi eventi ufficiali dell’Expo, dalle etichette alimentari italiane scompare l’obbligo, vigente dal 1992, di indicare lo stabilimento di produzione del cibo. Per averlo, 23 anni fa l’Italia si era battuta a lungo con l’Unione Europea. Oggi, con la ridefinizione delle regole europee in tema di trasparenza per il consumatore (entrate in vigore a dicembre) le aziende che hanno sede legale in Italia non hanno più l’obbligo di specificare dove producono. Di fronte al regolamento, la legge italiana è stata scavalcata e il governo non ha notificato al Bruxelles la volontà di mantenere la disciplina precedente. Poteva farlo con una semplice richiesta. Invece no.
Sulla questione, nei mesi scorsi, è più volte intervenuto il Movimento 5 Stelle. Due giorni fa l’ultima interpellanza al ministro dello Sviluppo Federica Guidi e a quello delle Politiche agricole Maurizio Martina. “L’Ue dà gli indirizzi in materia, ma lascia anche libertà sulla base delle esigenze nazionali – spiega al Fatto la deputata Cinque Stelle Silvia Benedetto – E il governo perde tempo, nonostante il regolamento europeo sia stato licenziato nel 2011”. Neanche i ministeri sembrano essere concordi. Prima di Natale, con una lettera, il ministro Martina aveva sollecitato la Guidi a operare per la reintroduzione della norma. A gennaio, la Guidi aveva replicato con l’annuncio di tavoli di lavoro per una “equilibrata e unitaria posizione del governo” da esprimere a livello europeo. “Mi sembra un po’ tardi – spiega ancora la Benedetto – Quanto ci vuole a inviare una lettera? La verità è che l’eliminazione della norma è importante per il comparto industriale: forse la Guidi non vuole scontentare le aziende che si fregiano del Made in Italy, ma non lo producono? ”. Rimuovere l’obbligo di indicare il luogo di produzione, infatti, permette di delocalizzare la lavorazione, di spostare all’estero fabbriche e operai e intanto continuare a godere dello status di marchio italiano. A spiegarlo al Fatto è Vito Gulli, presidente dell’azienda Asdomar (il tonno a filetti) che, nel 2014, ha fatturato 190 milioni di euro e ha acquisito Manzotin e De Rica. Gulli ha due stabilimenti, uno in Italia per la produzione del tonno e uno in Portogallo per le altre varietà di pesce. “Per me sarebbe facile non indicare più il luogo di produzione – spiega il paradosso – Potrei produrre tutto in Portogallo e far credere agli italiani che invece sono ancora qui. E mi crederebbero, forte di tutte le campagne per la tutela del made in Italy che ho sostenuto fino ad oggi”. L’eliminazione di questa norma incentiva quindi le multinazionali che vogliono i benefici del mate in Italy senza pagarne il giusto costo: comprano un marchio, lasciano in Italia la sede legale e poi spostano la produzione dove è più conveniente. “È l’Italian Sounding fatto in Italia. Si spaccia come italiano un prodotto che di italiano non ha proprio più nulla: nè le materie prime, nè il valore aggiunto”.
A confermare la tesi di Gulli, ci sono gli ultimi dati della Coldiretti: il 33 per cento delle materie prime del settore alimentare italiano viene dall’estero. Due prosciutti su tre sono prodotti con maiali allevati in altri Paesi, tre cartoni di latte a lunga conservazione su quattro sono stranieri e oltre un terzo della pasta è ottenuto con grano non coltivato in Italia. Delle mozzarelle, la metà è prodotta con latte e cagliate straniere. “Non siamo un paese produttore di materie prime e non abbiamo l’obbligo di indicarne la provenienza, se non per alcuni tipi di prodotti come la carne – spiega Vito Gulli – Ci rimangono solo la manifattura, la tecnica e la produzione. Se tutti se ne vanno, e le regole europee e italiane lo permettono, non ci resta nulla. Un paese senza operai e senza contadini è destinato a morire”.
A Portici, in Campania, c’è Istituto Zooprofilattico del Mezzogiorno. È un ente sanitari di diritto pubblico per il controllo della sanità animale e la qualità degli alimenti. Di fronte alle frequenti inchieste che coinvolgono la mozzarella di bufala campana e dopo l’emergenza della “Terra dei fuochi”, l’istituto ha elaborato un sistema regionale di tracciabilità degli operatori della filiera casearia bufalina che permette di risalire a tutti i produttori e quindi alla loro provenienza. “Indicare il luogo di produzione – spiega il commissario dell’istituto Antonio Limone – è fondamentale nei casi di emergenze sanitarie, ma anche nel controllo preventivo delle produzioni in zone di rischio”. L’obbligo di mantenere il numero del lotto di produzione non basta. “Con l’eliminazione della norma si cammina bendati: controllare diventa più difficile e c’è spreco di tempo, risorse e soldi. E il consumatore è ingannato”.
Proprio un consumatore, nel 2013, ha fondato un blog per spiegare agli utenti come risparmiare acquistando prodotti non di marca che provenivano però dagli stessi stabilimenti produttivi. “Quando mi sono accorto che il regolamento europeo minacciava la norma italiana – racconta Raffaele Brogna, bolognese e papà di due bambini – ho lanciato l’iniziativa Io leggo l’etichetta. Ha raccolto più di 20 mila firme, è stato sostenuto da deputati Pd e 5 Stelle e ha chiesto ai marchi della grande distribuzione l’impegno di indicare ancora in etichetta il luogo di produzione. Alla chiamata, via Pec, hanno risposto, tra gli altri, Conad, Selex, Coop, Simply, Auchan, Eurospin, Todis, Amica Chips e Conserve Italia (produttrice di Valfrutta e Cirio). Ma sono più di settanta le aziende e i distributori che mancano. Tra tutti, Esselunga, Carrefour, Lidl, Sisa, Sigma, Crai, Mutti, Divella, Alce Nero, De Cecco, Paluani, Sammontana, Galbusera, Bauli, Orogel, Rana e Grissin Bon. Il governo sembra pensare più agli interessi di quelle del secondo gruppo.
Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 8/2/2015