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 2015  febbraio 07 Sabato calendario

“QUANDO FACEVO IL LEGIONARIO E ANDAVO AL POLO IN AUTOSTOP”

[Intervista Corrado Augias] –
Ne Il tempo ritrovato, Proust ammonisce: l’eternità non è promessa ai libri più che agli uomini. In queste stanze piene di saggi e romanzi, affacciate sul verde dei Parioli, si sono appena festeggiati gli ottant’anni dell’indaffarato padrone di casa, Corrado Augias. Che in autunno ha pubblicato l’ultimo libro per l’editore - Einaudi - che aveva pubblicato il primo, nel ‘72: tout se tient. E dunque si è festeggiato con una cena organizzata dalla casa editrice. A Roma, naturalmente, dove tutto inizia nel 1935: “Mio padre che era originario di Ravenna, era venuto a Roma perché era ufficiale dell’aeronautica. Faceva parte della Banda Montezemolo, dal nome del colonnello - zio di Luca - che venne trucidato alle Fosse Ardeatine. Sorte a cui papà scampò perché arrivò in ritardo alla riunione. Mia madre invece è nata a Roma. La nonna materna era ebrea, dopo il matrimonio diventò cattolica e molto osservante: la sua stanza era una specie di cripta, piena di immagini sacre e lumini”.
Che ricordi ha della guerra?
Durante l’occupazione mio padre non c’era mai: mi misero in un collegio, al Santa Maria di Viale Manzoni, che confina con il carcere di via Tasso, il carcere della Gestapo. Un giorno stavamo nel cortile della ricreazione e vidi un gran tramestio di sorveglianti, si chiamavano “prefetti”, un mucchio di gente che correva. Seppi molto dopo che stavano aiutando un detenuto di via Tasso a scappare: aveva scavalcato il muro e loro lo avevano fatto passare. Le notti prima del 4 giugno ‘44 erano state terribili, perché i tedeschi, come sempre facevano , avevano fatto sparire tutte le tracce delle sale di tortura: ricordo le urla, i rumori. Ho continuato a studiare al Santa Maria, fino alla maturità.
Classica?
Già: allora i figli della borghesia andavano al Classico. Adesso pare di meno, tanto che i licei classici chiudono per il calo d’iscrizioni.
Il ministro Giannini ha annunciato di voler inserire un’ora di economia in terza e quarta superiore. Favorevole?
Sì, perché le nozioni di economia che si leggono sui giornali una volta erano riservate agli specialisti: può essere utile.
Serve più l’economia del greco?
Insegnare le lingue morte come s’insegnano ora serve a poco. Imparare le declinazioni e la sintassi latina o greca non porta granché lontano. Dall’altra parte le lingue classiche ritengo siano indispensabili. Le insegnerei in un altro modo, con il traduttore. Toglierei agli alunni la penosa funzione di andare a cercare parola per parola il significato di una frase. Una buona traduzione italiana, snella, moderna, insegna bene. Se devi fare il tecnico informatico probabilmente non serve. Ma se devi fare una professione che necessiti di un solido retroterra culturale, serve eccome. Voglio dire: se fai il medico, un’infarinatura di greco e di latino è più che utile. Non per nozionismo, ma per la visione umanistica della medicina. Anche se oggi c’è il medico della mano destra e quello della mano sinistra...
Un problema di tutti i saperi specialistici, in generale, è che si parlano poco.
La mia è una visione desueta, lo so. Ma all’alba degli ottanta, insisto a dire che la prospettiva umanistica - non solo nella medicina, ma in tante altre professioni, compreso il giornalismo -aiuta a capire meglio. Per visione umanistica intendo, su un piano ideale, Leonardo: un genio capace di disegnare, dipingere, scolpire, progettare macchine belliche, scrivere sonetti. Scendendo alla nostra altezza, credo che dell’uomo si debba capire la totatalità. L’umanesimo è quello che ti spinge a cercare di capire cosa c’è nell’altro.
In queste chiacchierate si è parlato molto del livello dell’attuale classe dirigente, in rapporto alla scuola.
Non è un buon livello. È successo che nel ‘68 si decise di aprire l’università a tutti, credendo di fare un’operazione democratica. Non si capì invece che dovendo rendere più facili gli studi, nel senso corrivo del termine, si rendeva a tutti un pessimo servizio. In un’università di necessità degradata, il figlio della persona che ha mezzi comunque si salva, il figlio della persona che non ha mezzi non si salva perché avrà un titolo di studio che non vale nulla. Da questo deriva che la classe dirigente italiana è scaduta di livello. Basta vedere le interviste che le Iene fanno ai rappresentanti del popolo: nemmeno sanno chi era Cristoforo Colombo. Il rimedio è quel fenomeno spaventoso rappresentato dai ragazzi che vanno a studiare all’estero.
A proposito: la sua Università?
Dopo il liceo mi sono iscritto a Giurisprudenza. Che ho fatto molto malvolentieri: ma c’era l’idea che aprisse molte strade. In realtà ho scoperto presto che non me ne importava nulla. Non sono stato abbastanza intraprendente da cambiare e volevo finire presto.
Il giovane Corrado si divertiva?
Lavoravo come comparsa nei film, ho fatto molte volte il legionario nelle produzioni americane. Una volta ho fatto anche lo schiavo nubiano: ci dipinsero di nero con la pompa. Ricordo che il capogruppo delle comparse un giorno ci disse: “State boni che adesso comincia Ben Hur e c’è lavoro per tutti”. Una volta ho visto Elizabeth Taylor, ma è stato un caso: noi comparse facevamo una vita a parte, lontano dalle star, sul set ci muovevano in branco. Però pagavano benissimo: a fine giornata si passava a un banchetto dove c’era un signore che pagava la giornata in contanti. Con quei soldi lì - negli anni Cinquanta - ho cominciato a viaggiare per l’Europa.
Dov’è stato?
Una volta sono arrivato al Circolo polare artico, sempre in autostop. Dormivo negli ostelli della gioventù, allora erano tanti. La prima tappa d’obbligo era la Lerici di Mario Soldati: c’era un bellissimo ostello, era l’inizio delle vacanze e della libertà. Sono stato anche a Parigi: ricordo la folgorazione appena arrivato, un innamoramento istantaneo. Era una città tutta nera, piena di puttane, nella metro c’era il vagoncino della prima classe: il treno era tutto verde e in mezzo c’era una carrozza rossa, di prima classe. Gli autobus avevano la piattaforma posteriore aperta, con il balconcino. I poliziotti indossavano la pellegrina. Vidi Parigi e pensai subito “Vorrei vivere qui”: ci sono riuscito molti anni dopo.
Ci torna ancora?
Appena posso, ho una casa nel VII arrondissement. Mi capita spesso di portare gli amici italiani a vedere la tomba di Gobetti al Père Lachaise: una tomba povera, umile, con una lastra di pietra per terra. Ho chiesto al Console italiano se possono mandare qualcuno ogni tanto a pulirla a mettere due fiori. Spero lo facciano.
Come ha deciso di fare il giornalista?
Dopo la laurea, feci tre concorsi: alla Banca commerciale, alla Olivetti e alla Rai. Entrai alla Banca commerciale, ma solo per sei mesi perché nel frattempo avevo vinto anche il concorso in Rai. E così andai a lavorare in televisione: visto che parlavo il francese e un po’ l’inglese andai alla direzione programmi per l’estero, mi mandarono negli Stati Uniti. Sono tornato in Italia, al telegiornale di Fabiano Fabiani, che finalmente mi fece fare l’esame di stato per diventare giornalista: allora era difficilissimo. Oggi è una cosa da ridere, mi dicono: ma a quei tempi era un traguardo a lungo sospirato e solo alcuni passavano. Era il 1968. Scrivevo sui giornali, ma ero pubblicista. Collaboravo con l’Espresso, dove mi volevano assumere. C’era Gianni Corbi direttore, appena dopo Scalfari.
Ecco: com’era Scalfari?
Su di lui voglio dire una cosa: ha contribuito potentemente alla mia formazione. Mentre facevo l’università scoprii i Convegni degli amici del Mondo. Li facevano al Teatro Eliseo in via Nazionale. Mi hanno fatto incontrare quelle culture politiche a cui sono rimasto legato per tutta la vita e che s’incarnano in Piero Gobetti. Quando dicevano “Prende la parola Eugenio Scalfari”, io tra me e me pensavo: “Ora ci divertiamo”. La sua oratoria - con qualche sussiego, quello l’ha sempre avuto fin da ragazzo - era al tempo stesso molto forbita e molto seduttiva. E la stessa sensazione che ho provato quando è nata Repubblica, alle prime riunioni, altrimenti dette “la messa cantata” perché duravano tre ore. Scalfari raccontava aneddoti, quello che aveva fatto la sera prima, chi aveva incontrato. A volte metteva l’interfono. Era un metodo di governo, il suo: attraverso quelle narrazioni - anche distensive - smussava gli attriti. Ricompattava la redazione. Un posto dove scoccano molte scintille, di solito: gelosie, malumori, rivalità. Con questi racconti pontificali, Scalfari sedava tutti. Era un seduttore, di donne e di uomini. Poteva parlare con Italo Calvino, Umberto Eco o primedonne del giornalismo come Bocca, Arbasino, Citati: li faceva suoi.
È stato assunto subito a Repubblica?
Sì. Dovevo fare il capo servizio degli spettacoli. Solo che con Furio Colombo, che doveva fare il corrispondente da New York, non fu raggiunto un accordo. Scalfari sapeva che ero stato in America, mi convocò e mi disse: “Corrado ti devo chiedere un sacrificio: devi andare a New York, per il periodo che serve”. Andai e dopo due anni io, che mi sentivo sempre come il capo provvisorio dello Stato, gli dissi: “O prendo casa e mi fermo a New York o torno”. Mi fece scegliere e tornai, ma il giornale ormai era a organico completo. Ci volle molto tempo prima che trovassi una sistemazione: passavo delle giornate senza far niente, una cosa penosissima. Finché non si decise di fare il supplemento culturale Mercurio, bellissimo e infelice, diretto da Nello Ajello: durò poco perché non andava bene. Prima però Scalfari mi chiese di occuparmi dell’inserto Weekend, che parlava di gite in campagna e ristoranti. Io gli dissi: “Ma Eugenio, ma ti rendi conto? Vengo da New York”... E lui mi rispose: “Lo so, è un grande sacrificio. Ma se non lo chiedo a un amico a chi lo posso chiedere?”. Aveva gli occhi inumiditi e la voce suadente: il giorno dopo io facevo Weekend.
Come sono questi primi anni di Repubblica?
Repubblica è rimasta per un po’ un giornale in bilico e lì apprezzai la tenuta di Scalfari. Arrivava la mattina in riunione e diceva: “Ieri a Milano 18 mila copie”. Non era vero. Con Enzo Golino chiedevamo al capo della distribuzione che di nascosto ci dava i numeri veri: erano meno della metà! Faceva bene, Scalfari: il comandante deve dare fiducia. Repubblica aveva sfondato nei quadri politici, sindacali, editoriali, intellettuali, non era un giornale popolare. Poi nel marzo del ’78 le Br rapiscono Aldo Moro ed esce quella famosa fotografia di lui con la Repubblica: da lì il giornale ha preso il volo.
Che pensa della crisi dei giornali?
Non sappiamo dove la rivoluzione digitale ci porterà. Non vediamo i confini di un processo di cui siamo protagonisti e vittime. Ormai nessuno può fare a meno di uno smartphone o un tablet. I giornali sono nati alla fine del Settecento: i nostri nipoti ignoreranno del tutto la carta. Siamo in una fase di passaggio. Poi è inutile parlare di questo, alla mia età.
Incontri: il più straordinario?
Karl Popper, senza dubbio. Nella mia testa il liberalismo sociale di Popper completa l’immagine di Gobetti. Ho passato con lui una giornata intera, per un’intervista, nella sua casa di Londra. A un certo punto si era stancato di parlare e mi chiese di uscire a fare una passeggiata. Fuori si appoggiò al mio braccio, una cosa molto emozionante. Il tono diventò di necessità più confidenziale: gli dissi di essermi sorpreso perché leggendo i suoi libri avevo capito tutto. Lui si fermò e mi disse una frase che non mi sono mai dimenticato: “Essere chiaro è parte della mia etica”.
Frequenta salotti?
Ho amici, come tutti. Direi che sono moderatamente mondano. Claudio ed Elena Cerasi ricevono volentieri, andiamo qualche volta da Sandra e Giovanni Verusio. Mi vedo spesso con Paolo Mauri e Valerio Magrelli, quando andiamo in Umbria: abbiamo una casa dentro un bosco di querce. Durante le vacanze anche con Carla e Stefano Rodotà.
Parliamo di politica: Berlusconi ha fatto un altro show con Rosy Bindi.
Prima del male che ha fatto a questo Paese è la sua volgarità a essere riprovevole. Un uomo con la sua esperienza non può non sapere fino a dove ci si può spingere. Finché certi comportamenti li tiene con Emilio Fede è una cosa, se lo fa a Bruxelles imbarazza sessanta milioni di persone.
A proposito: lei è stato parlamentare europeo.
Ero passato dalla Rai a Telemontecarlo, perché volevo continuare a fare Babele, un programma di libri. Angelo Guglielmi mi disse che la trasmissione sarebbe stata spostata dalle 11 a mezzanotte: mi raccolse Telemontecarlo. Ci furono le elezioni politiche, Veltroni mi chiese di candidarmi. Ma non mi piaceva come mi avevano messo, lasciai perdere. L’anno dopo, nel 94, c’erano le Europee e Walter me lo chiese di nuovo: dissi di sì e fui eletto.
Come si è trovato a Bruxelles?
Era la legislatura dell’euro e anche se io stavo nella commissione cultura era tutto molto interessante. Vissi il momento in cui Ciampi e Prodi tornarono da un giro in Spagna con i capelli dritti in testa perché si erano resi conto che la Spagna entrava e noi no. Si misero a correre come matti e riacchiappammo l’euro per la coda. Assistetti una plenaria in cui un deputato olandase disse che se entravano gli italiani sarebbero usciti loro. Fu una cosa drammatica. Fino a quel giorno, in cui scoprirono il tabellone. E si vide che il cambio era fissato a1936,27 lire.
Renzi?
Non mi piace, ma ci serve a uscire dalla palude. Siamo rimasti fossili, immobili, pietrificati per vent’anni. Anche se era evidente che la situazione stava degradando progressivamente, non hanno fatto niente, tanto meno la sinistra. Quella sinistra, governata da persone come D’Alema per esempio. Non hanno fatto nulla per rimediare alla scandalosa situazione delle televisioni con Berlusconi.
Bè, non solo non hanno fatto nulla. Violante alla Camera disse che Berlusconi, già nel ‘94, aveva avuto la garanzia che non sarebbero state toccate le televisioni.
Stiamo dicendo la stessa cosa. Tornando a Renzi: un uomo di sfondamento, un po’ bulletto. Ma mi dia retta, ci serve. Le mie preferenze vanno di gran lunga a uno come Enrico Letta. Vivendo all’estero per una parte dell’anno, qualche schiaffo come italiano capita di prenderlo. Però mi è capitato di sentire alla Sorbona una conferenza di Letta, due o tre anni fa: a braccio, in un francese perfetto, interrotto da cinque o sei applausi. Quando è uscito gli ho detto, forse ingenuamente: “Mi sono sentito orgoglioso di essere italiano”. Per dire che Letta mi piace, ma non va bene in questo momento.
In autunno è uscito con Einaudi il suo ultimo libro, un romanzo. Aveva lasciato Mondadori in polemica con Marina Berlusconi. Perché è tornato indietro?
È vero che Einaudi fa capo a Segrate. Ma la forza del marchio dello Struzzo vince sull’appartenenza al gruppo Berlusconi. Il mio primo libro fu pubblicato dall’Einaudi di Giulio: Il teatro del Grand Guignol. Nella tempistica dello scrittore di Arbasino - brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro - ero una brillante promessa...
...ora si sente venerato maestro?
No, no: più la seconda. Comunque Ernesto Franco è venuto a Parigi per chiedermi se volevo passare all’Einaudi: gli ho detto chiaramente che non volevo limitazioni di sorta. Del resto non le ho avute nemmeno alla Mondadori. Ne I segreti di Roma ho dedicato quattro pagine - con tutte le cifre, i dettagli, le date - su come Berlusconi ha comprato Villa Casati stampa ad Arcore: volevo vedere se toccavano una virgola, ma uscì tutto così come l’avevo scritto. So benissimo che non è accaduto per generosità, ma perché un libro, anche se vende molto, è abbastanza innocuo. E poi se avessero toccato una virgola, sarebbe uscita una pagina su Repubblica “Mondadori censura”. Non era conveniente. Ho litigato pubblicamente con Marina Berlusconi, poco più di un anno fa. Ma Ernesto Franco mi ha detto: nei limiti del codice penale puoi scrivere quello che vuoi. Il lato oscuro del cuore è un’edizione, curata, perfetta, senza un refuso: elegantissima.
Un po’ un paradosso. Prima ha detto: detesto in Berlusconi la volgarità.
Lui in Mondadori non mette becco.
Ora pare si vogliano comprare anche la Rizzoli.
Va bene. L’editoria italiana deve competere sul piano europeo: per farlo bisogna avere una certa dimensione.
Così la famiglia Berlusconi avrebbe quasi il 40 per cento del mercato.
L’editoria la fanno gli autori, non gli editori. Non è come i giornali. L’editore può comandare a un direttore un titolo. Ma un editore di libri al massimo può suggerire un amico autore. Può chiedere favori, non può dare l’indirizzo.
Altro paradosso: com’è possibile che sia la politica a sorvegliare l’informazione - con la Commissione di vigilanza Rai - e non il contrario?
Sono entrato alla Rai nel 1960: con Bernabei mutande fino alle caviglie, ma programmi meravigliosi. Fabiano Fabiani contrattò la sua cacciata dal telegiornale con la creazione di una direzione centrale dei programmi culturali. Lo seguimmo in tanti. Feci dieci puntate, a colori - e allora era un investimento!- sui grandi direttori d’orchestra: la Rai ha venduto la serie in tutto il mondo. Ho visto quest’azienda sbranata dai partiti: cominciarono i socialisti, con il primo centrosinistra.
Anche il Pci.
C’è una differenza: con i socialisti arrivarono dei poveri uomini che con gli stipendi decorosi della Rai si comprarono qualche giacca. Qualcuno cominciò anche a fumare la pipa. Quando Angelo Guglielmi viene scelto da Veltroni per dirigere RaiTre, certo che è scelto dal partito! Ma è anche Angelo Guglielmi, un uomo capace d’inventarsi un modo nuovo di fare televisione. Non va bene quando metti a dirigere un telegiornale un servo.
Quello è successo con inquietante frequenza.
Certo. Quell’azienda è andata in rovina per colpa dei partiti. Quando entrai, mi fecero fare un corso a Torino, lì c’era la direzione amministrativa. Tra le altre cose ci portarono all’ufficio bilancio dove un signore - che il bilancio lo faceva - ci proiettò sulla parete il consuntivo della Rai. “Vedete, qui sotto c’è quella voce in fondo, utile netto: è il mio orgoglio”. Oggi com’è? Spolpata.
E poi succede la strage di Charlie Hebdo e nemmeno si fa una trasmissione di approfondimento in prima serata.
Vero, ma accade anche il contrario: succede una cosa e vanno tre troupe. Io sono favorevole alla riforma Gubitosi. Perché non si può fare un’unica grande redazione per la fornitura dei servizi? Poi i direttori dei telegiornali avranno modo di dettare la linea del loro tg comunque.
Non è che ora si vedano molte interviste controversiali ai politici.
Ha perfettamente ragione. Infatti Mentana ha scoperto l’acqua calda: cioè che si può fare un telegiornale non di parte, ma che profili le notizie. Il che è legittimissimo anche nel servizio pubblico, tanto più quando ci sono tre telegiornali.
@silviatruzzi1
Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano 7/2/2015