Paolo Berizzi, la Repubblica 7/2/2015, 7 febbraio 2015
PREZZI FERMI DA VENT’ANNI E IMPORTAZIONI SELVAGGE “COSÌ FINIAMO NEL BARATRO”
MILANO.
Il latte italiano sta morendo. Di chi è la colpa? E che cosa si può fare per salvarlo? Per capirci qualcosa di più, e provare a andare oltre i luoghi comuni, pure tristemente realisti, della vecchia fattoria che non c’è più, delle vacche magre che magre non sono perché il problema è un altro, basta fare i conti in tasca all’allevatore. Partiamo da un dato. Per semplificare. A metà anni Novanta a chi lo produceva un litro di latte veniva pagato meno di 700 (vecchie) lire. Vent’anni dopo, cioè oggi, lo stesso litro di latte è “ritirato” in stalla a 35 centesimi (elaborazioni Coldiretti su dati Ismea). Stesso prezzo di allora. Identico. Possibile? Possibile. Quello che è aumentato, ed è qui il punto, è il “ricarico”. La gonfiatura del prezzo dall’allevamento allo scaffale. Perché quello stesso litro di latte fresco che nel ’95 al supermercato ci costava in media 90 centesimi al litro (1.700 lire), oggi ci costa 1,5 euro. Significa quattro volte il prezzo del latte alla stalla. Prezzo che in vent’anni, caso quasi unico per i prodotti dell’agroalimentare, è rimasto invariato. Dice Daniele Colognesi, allevatore romano: «Non riusciamo più a far quadrare i conti. Il rapporto tra costo di produzione e costo di vendita per l’allevatore è devastante. Il nostro latte ci viene pagato meno di 40 centesimi al litro, 35, in media. Ma produrlo costa sempre di più. Non ci stai dentro, non riesci a coprire i costi».
Eccola la crisi di quello che un tempo, nella pianura padana, era chiamato “oro bianco”. Una crisi che mano a mano sta assumendo l’immagine poco bucolica di un baratro. Vediamolo. Metti che il latte è dunque l’unico prodotto che costa (alla stalla) uguale a due decenni fa. Ma che lungo la filiera che lo porta sullo scaffale quadruplica il suo valore. Aggiungi che, tra bestiame, mangimi, energia elettrica, manodopera, le spese per l’allevatore sottopagato diventano una ghigliottina. Bisogna considerare, oltre a questi, altri due fattori. Spietati. Primo: le importazioni. Tre cartoni di latte a lunga conservazione su quattro venduti in Italia arrivano dall’estero (costano meno perché costa meno produrli: e il consumatore di questi tempi bada più al portafoglio che alla qualità). La metà delle nostre mozzarelle sono fatte con latte o cagliate straniere (molto Est Europa). Un sottobosco che possiamo ormai chiamare mare grande, se è vero, come documenta Coldiretti, che nel 2014 l’Italia ha importato qualcosa come 86 milioni di latte “equivalente” (cagliate, polveri di caseina, semilavorati). A fronte dei 110 milioni di quintali usciti dalle 36mila stalle sopravvissute alla morìa (ne chiudono quattro al giorno).
Come va “letto” il fiume di import? Secondo l’organizzazione agricola c’è un rapporto che “parla”: per ogni milione di quintale di latte importato, l’allevamento-Italia celebra il funerale di 17mila mucche e 1.200 addetti. Una specie di mungitura al contrario: latte che entra (dai confini nazionali) e latte che muore. Non solo. C’è, oltre al danno economico, anche un problema di sicurezza alimentare. Le cagliate che arrivano dalla Romania, dall’Ungheria, oggi persino dalla Bolivia, si trasformano, in molti casi, in mozzarelle e formaggi di bassa qualità. “Tracciare” la filiera, controllarne la “genuinità” è impossibile. Per un motivo: non è obbligatorio riportare in etichetta la provenienza della materia prima.
Veniamo al secondo fattore di cui va tenuto conto per capire la sofferenza del latte. Anche in prospettiva. Le quote. Le famigerate quote latte. Riassumiamo: le quote sono il “regime” introdotto 30 anni fa con l’assegnazione a ogni Stato dell’Unione europea di una soglia nazionale di produzione. All’Italia, e cioè a un settore che, al netto della crisi, con le sue 36 mila imprese, 11 milioni di tonnellate di latte prodotte ogni anno per un valore di 28 miliardi di euro, 180 mila occupati, resta la prima voce del nostro agrolimentare, fu assegnata una quota molto inferiore al consumo interno di latte. Di qui, lo splafonamento. Un salasso di multe per molti allevatori. Alla fine, dopo proteste, truffe, inchieste, a quasi tutti è stato consentito di mettersi in regola. Il 31 marzo 2015 finisce il regime delle quote latte. Ora il rischio, sostiene Coldiretti, è che, in linea con il trend, la produzione aumenti almeno del 5%. Il che si ripercuoterebbe negativamente, e di nuovo, sui prezzi del latte alla stalla. Un incubo, specie per gli allevamenti delle regioni più depresse. Sempre alla stalla si torna. Alle vacche grasse che però non rendono più.
Paolo Berizzi, la Repubblica 7/2/2015