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 2015  febbraio 07 Sabato calendario

CHI ARROCCA MUORE

La fine del mondo che conosciamo. Gli analisti finanziari amano accompagnare i report con frasi a effetto per spezzare la monotonia di numeri e indici. Quella utilizzata da Exane Bnp Paribas in due analisi pubblicate recentemente non è però un caso di facile sensazionalismo. La rivoluzione in corso nel mondo delle banche popolari italiane è davvero una delle svolte più significative nella storia della finanza tricolore, gravida di conseguenze non soltanto per i titoli coinvolti a Piazza Affari ma anche per l’economia nazionale nel suo complesso. Dopo il blitz del consiglio dei ministri per avviare la riforma che prevede la trasformazione in spa delle maggiori banche popolari nazionali, martedì 10 febbraio inizierà il confronto parlamentare (prima alla Camera, poi al Senato), nel corso del quale i due opposti schieramenti cercheranno faticosamente una mediazione. La strada del compromesso è piena di ostacoli, come dimostra la risolutezza del presidente del Consiglio Matteo Renzi e del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan («Le banche prendano atto che il mondo è cambiato», ha tagliato corto venerdì 6 il numero uno del Tesoro). Di certo oggi nessuno si illude di conservare lo status quo e la rinuncia al voto capitario viene vista da molti come un sacrificio inevitabile. Ecco perché sia in sedi istituzionali come Assopopolari sia ai vertici delle singole banche si comincia a ragionare su strategie alternative al puro e semplice arrocco contro la riforma Renzi-Padoan.
Le dieci popolari interessate dal decreto legge (che in borsa valgono 20 miliardi di euro mal contati) rischiano di diventare preda di takeover ostili da parte di istituti di credito italiani o, più probabilmente, esteri. A favore di una previsione di questo genere gioca non soltanto l’eliminazione del voto capitario, ma anche il fatto che la maggior parte delle popolari (con l’eccezione di Ubi Banca) quota oggi a forte sconto rispetto al patrimonio. Exane stima per esempio un price to tangible book value medio per il 2015 intorno allo 0,5-0,7%. Le popolari quotate sono dunque sottostimate dal mercato, ma non dagli analisti. «L’Asset quality review ha tracciato una linea sul problema della copertura dei non performing loan», spiega il report di Exane. «Con l’eccezione del Monte dei Paschi di Siena, i coefficienti patrimoniali di tutte le banche italiane che copriamo sono a nostro parere adeguati». Sotto questo aspetto il varo di una bad bank di Stato, su cui si starebbe ragionando in queste settimane, potrebbe migliorare ulteriormente la qualità degli attivi. Se a tutto ciò si aggiunge che, dopo la riforma, le popolari potrebbero ritrovarsi senza azionisti di riferimento e sguarnite di patti di sindacato, la prospettiva di un arrembaggio a prezzi da saldo appare concreta. Unica alternativa possibile è quella che gli analisti amano chiamare un merger-of-equal ossia, per dirla da profani, un matrimonio tra consanguinei. «Gli interessi locali si sono tradizionalmente opposti alle fusioni, ma, alla luce dei cambiamenti in corso, oggi potrebbero favorirle; in fondo è meglio il diavolo che si conosce», sdrammatizza il report di Exane. Un banchiere del settore, che ha preferito mantenere l’anonimato, conferma: «I tavoli aperti sono molti, anche se per il momento nessuna soluzione viene esclusa a priori. Il progetto favorito resta comunque la nascita di una super-popolare che riesca reggere la concorrenze nazionale ed estera». Nella ridda di ipotesi circolate in questi giorni sono stati abbozzati gli scenari più disparati: da un’integrazione tra Ubi Banca e Banco Popolare (ipotesi delineata dagli analisti di Banca Akros) a un ritorno di fiamma tra la Banca Popolare dell’Emilia-Romagna e la Banca Popolare di Milano (Equita). Anziché rilanciare il solito toto-nomi, però, gli analisti Exane hanno preferito calcolare i possibili vantaggi di operazioni di questo genere. «Nel caso delle fusioni domestiche le sinergie di costo sono meccaniche», spiega il report. «Nelle integrazioni compiute negli anni scorsi era stato posto un obiettivo di sinergie pari all’11% della base costi, con la maggior parte dei risparmi derivante dalla riduzione delle spese non legate al personale (per esempio, information technology, attività di back office, funzione acquisti, marketing eccetera). Negli anni il calo dei costi operativi è stato comunque assai più elevato rispetto ai target. Tra il 2007 e il 2014, per esempio, Intesa Sanpaolo ha dato una sforbiciata del 15,8%, Ubi Banca del 16,2% e il Banco Popolare del 10,5%, benché parte della contrazione sia semplicemente dovuta ai minori ricavi in conseguenza della crisi finanziaria». Anche se i calcoli sulle sinergie variano da caso a caso, Exane stima che, in uno scenario di merger-of-equal, i costi per una banca potrebbero essere tagliati del 10%. Considerando un utile per azione aggiuntivo del 10%, gli analisti prevedono inoltre un apprezzamento dei titoli azionari nell’ordine del 20-35% che andrebbe a remunerare lautamente i soci.
Sulla stessa lunghezza d’onda si muove Equita, ritenendo che «il consolidamento fra le banche popolari italiane è la soluzione più razionale in chiave difensiva anche se la riforma della governance non venisse introdotta». Secondo gli esperti della sim milanese, i matrimoni tra consanguinei dovrebbero portare alla nascita di due poli: uno tutto lombardo incentrato su Ubi e Popolare di Milano, l’altro più sbilanciato verso il Nord Est con il Banco Popolare a svolgere il ruolo di forza aggregante. In questo modo il consolidamento delle quote di mercato (circa 60% in capo a quattro player contro i nove attuali) dovrebbe favorire un miglioramento strutturale della redditività del settore. Per Equita inoltre operazioni di maggiori dimensioni danno maggiori opportunità di sinergie: si stimano infatti risparmi del 13% nella base costi (887 milioni di euro) con un impatto positivo sul rote (da 6,7% all’8,8% nel 2017) e un aumento del 34% sugli utili.
Se insomma la strada dell’unione tra uguali appare la strategia più efficace per contrastare il rischio di scalate ostili, non si possono escludere altre opzioni. Ai vertici di Assopopolari e in Parlamento si starebbe per esempio ragionando sull’emissione di azioni a voto plurimo (le cosiddette loyalty share) per premiare gli azionisti piccoli e stabili delle ex popolari, una volta trasformate in società per azioni. Si sa che questi nuovi titoli azionari sono oggi al centro di un acceso dibattito, ma non c’è dubbio che, dal punto di vista delle banche popolari, possano rappresentare uno strumento utile per disinnescare due pericoli concreti: la scalata da parte di soggetti non graditi e la scomparsa di quello zoccolo duro di piccoli soci che ha finora governato le assemblee. Equita ad esempio si spinge a ipotizzare un largo utilizzo di loyalty share nel caso della Banca Popolare di Milano. Secondo gli analisti della sim, infatti, l’istituto di Piazza Meda potrebbe introdurre il voto multiplo per i soci di lungo periodo. In questo modo il veicolo Time&Life di Raffaele Mincione (titolare del 5% del capitale della banca meneghina), la Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria (1%) e i dipendenti (5%) arriverebbero a controllare il 22% dell’istituto milanese, creando una maggioranza relativa in grado di condizionare la governance. Al momento però si tratta soltanto di suggestioni, come lo sono quasi tutti gli scenari abbozzati nei report finanziari di questi giorni. Di certo c’è che oggi alle banche popolari italiane conviene giocare d’anticipo, perché lasciare l’iniziativa al regolatore e agli investitori potrebbe rivelarsi un grosso rischio.
Luca Gualtieri, MilanoFinanza 7/2/2015