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 2015  febbraio 07 Sabato calendario

LA LIBERTÀ DI UN DIRETTORE USCENTE

[Intervista a Ferruccio De Bortoli]
Entrando nella stanza del direttore del Corriere della Sera, nell’angolo opposto alla porta, fra le varie cose appese, fa bella mostra una cornice con dentro una copertina originale de La Lettura, il supplemento culturale dei primi del Novecento il cui nome è stato ripreso qualche anno fa proprio da Ferruccio de Bortoli per dare slancio al nuovo inserto domenicale. «Sono molto contento della Lettura, dal punto di vista dei contenuti e delle copie che ci fa vendere in più la domenica», conversa il direttore ancora in posa per i ritratti fotografici, «certo, un supplemento culturale non attrae moltissima pubblicità. Finiremo per fare dei grandi speciali domenicali sugli orologi». Sorriso largo e tono marcatamente ironico. Inciso per i non addetti ai lavori: nella corsa di editori e manager a creare prodotti adatti a raccogliere pubblicità (quegli stessi editori e quegli stessi manager con cui de Bortoli ha un rapporto ormai molto deteriorato), le aziende di orologi ricoprono un ruolo primario: molte campagne pubblicitarie e per un target molto alto, un posto speciale nel cuore delle persone di marketing, un soggetto con cui fare i conti per redazioni e direttori.
Incluso quello del Corriere della Sera, il più autorevole quotidiano italiano, da sempre l’espressione delle classi dirigenti più o meno illuminate, un totale di 411 mila copie diffuse fra carta e digitale secondo i dati Audipress dell’agosto 2014. Congedato il fotografo, iniziamo a chiacchierare attorno a una questione, la definizione odierna di un giornale tradizionale come il Corriere, tenendo conto di un fattore: de Bortoli, stando all’ufficialità, lascerà la direzione nell’aprile del 2015. Il tono, involontario ma non sappiamo fino a che punto, è spesso quello di un bilancio. «Il nostro è un giornale moderato di impronta liberale e democratica, con le proprie idee ma rispettoso di quelle degli altri, che non polemizza coi fatti se i fatti smentiscono le proprie opinioni, che non si erge a partito perché non vuole minimamente svolgere questo ruolo. Nello stesso tempo quello che abbiamo voluto far crescere è un sentimento di coesione nazionale, che renda possibile il dialogo fra parti diverse. Il nostro sottotitolo è la libertà delle idee. Ecco, visto che sono in uscita dal Corriere, vorrei che questa stagione fosse contraddistinta da un grande impegno civile, per le regole, per la moralità e per il senso di responsabilità. Tutto ciò in una fase nella quale questo giornale, pur essendo espressione della borghesia produttiva del nord Italia, non ha mancato anche di polemizzare coi suoi stessi azionisti. In maniera aperta e ovviamente anche con qualche conseguenza visibile».
Altro sorriso largo, ma molta meno ironia. De Bortoli si riferisce ovviamente allo scontro aperto con una parte della multi-proprietà del giornale per divergenze nella gestione, sfociato nella decisione di interrompere il rapporto. Gli chiedo se col senno di poi non è pentito di quella polemica. «No, ero e resto molto critico, è noto. Detto questo, nonostante tutti i problemi, sono convinto che i grandi giornali italiani non abbiano nulla da invidiare alle più prestigiose testate internazionali e che in qualche modo interpretino ancora la grande necessità di questo paese di avere un’identità e un destino, di avere un’ambizione, di essere ancora comunità, di salvaguardare e di mantenere dei legami sociali, di coltivare e promuovere e far esprimere, non solo sulle nostre pagine, il grande capitale sociale di cui siamo ricchi».
Il direttore si anima nel ricordare quali sono gli ideali che hanno sempre mosso il giornale che dirige, e rivendica una linea in continuità con questa grande tradizione. Il problema però, faccio notare a de Bortoli, è convincere le nuove generazioni, che hanno ormai altri punti di riferimento, che il Corriere della Sera è ancora il Corriere della Sera. Concorda: «Questo è sicuramente un problema. I giovani leggono meno quotidiani ma non è che leggano di meno in assoluto, anzi credo leggano di più. Dobbiamo riuscire a farli innamorare in qualche modo dello spirito critico che il giornale per sua natura promuove. Vede, i giornali sono importanti perché l’opinione pubblica è l’architrave della democrazia. Allora, se l’opinione pubblica è informata bene riceve, come diceva Einaudi, degli ingredienti corretti per poter deliberare. Altrimenti ci sono delle curve di tifosi contrapposte, altrimenti c’è un pubblico indistinto che va alla ricerca di quello che corrobora i propri bisogni o di quello che può essere utile a coltivare i propri sospetti o i propri odi».
E però il giornale inteso come curva di tifosi spesso ha funzionato, no? «Certo. Come c’è una cattiva politica che accarezza gli istinti peggiori degli italiani, così c’è anche un cattivo giornalismo che ne sfrutta debolezze e paure. Ed è proprio in questo scenario che noi siamo diventati un passaporto di civiltà per una comunità di lettori. Comunità che per altro si è allargata anche grazie ai giovani che discutono sui social quello che i quotidiani italiani hanno pubblicato, magari purtroppo spesso senza neanche averlo letto per intero. Però l’agenda della discussione pubblica la dettano ancora i giornali. E non è un caso che i maggiori fornitori di news sul web siano i quotidiani. Non sono nei broadcaster, né gli aggregatori, né gli over the top come succede altrove. Questo è un particolare da non sottovalutare. È vero che i quotidiani vivono una crisi come quella di cui stiamo discutendo, ma è anche vero che forse non sono mai stati così letti, non sono mai stati così centrali rispetto alle grandi questioni pubbliche. Proprio per questo il nostro compito è quello di essere più credibili, più rispettosi della sete di conoscenza delle persone».
De Bortoli, in sostanza, sostiene che la crisi è più di sostenibilità dei giornali che del giornalismo in senso stretto, e sostiene che è vero che i giornali spesso inseguono scorciatoie, ma che non è sempre così perché «se dovessimo essere guidati dai click ci occuperemmo solo di cose sciocche, irrilevanti e molte volte false, invece i giornali continuano anche a parlare di esteri, ad avere uno sguardo aperto in un paese molto provinciale, hanno le loro antenne in giro per il mondo, coltivano la biodiversità culturale». Possono farcela insomma. A patto, sostiene il direttore, che tornino a non guardare in faccia a nessuno, a fare inchieste. E qui cita MediaPart, il giornale online francese tutto a pagamento, interamente sostenuto dai suoi oltre centomila abbonati. Difficile replicare quel modello in Italia, forse, visto che «non abbiamo una grande cultura dell’abbonamento. La grande sfida per noi però resta il passaggio dalle news gratuite online ai contenuti a pagamento». Che il Corriere attuerà? «Che il Corriere assolutamente attuerà. Non lo farò io ma il mio successore, perché i tempi ormai sono stretti, ma sarà necessario. La sfida è ridare valore all’informazione».
Eppure le nuove generazioni, e mi scuso per la brutta generalizzazione, non hanno mai concepito l’informazione come un servizio per cui si debba pagare e non si capisce perché dovrebbero iniziare proprio ora. «È la nostra grande sfida: dimostrare che vale la pena pagare qualcosa per essere correttamente informati ed essere dei cittadini migliori. È una falsa democrazia informativa quella che dà a tutti un’informazione di bassa qualità, una commodity del tutto inconsistente. Anche perché abitua il lettore a non fare nessuna fatica nel ritenersi informato, ad essere un surfista della realtà, a divenire un soggetto passivo che crede però di essere testimone diretto degli avvenimenti, cosa che in realtà non è. C’è quest’idea che tutto possa essere semplificato, che tutto abbia soluzioni semplici e comprensibili. Ma i problemi sono molto più complessi, vivere è sempre stato molto più complesso. Le sfumature sono infinite, i mezzi toni e i toni che non si vedono sono evidentemente una parte della realtà. E la stessa realtà vista da un punto di vista diverso appare con un significato a volte addirittura ribaltato. Uno dei nostri punti di forza è quello di dire: guardate, noi cerchiamo di fornirvi tutte le prospettive possibili, vi daremo la nostra opinione, certo, poi voi sarete nella libertà di farvi la vostra. Quindi sì, siamo probabilmente in crisi, ma siamo paradossalmente ancora più centrali di prima. Bisogna ripartire da questo».
Tutto questo, però, implica uno sforzo maggiore da parte di chi fa il giornalista di prendere atto che il mondo è cambiato. De Bortoli quattro anni fa scrisse una lettera dura nei confronti della sua redazione ricordando proprio questo: o si cambia oppure è finita. Mi chiedevo a che punto siamo qualche anno dopo… «Mi presi due giorni di sciopero per quella lettera fra l’altro. Le regole del Corriere, da allora, sono state tutte cambiate. L’integrazione è stata resa possibile, così come l’intercambiabilità dei giornalisti. Ovviamente molto c’è ancora da fare. Purtroppo a quattro anni da quella lettera noi appariamo ancora come una corporazione chiusa che subisce l’innovazione e che troppe volte ha un atteggiamento snob e salottiero nei confronti di un’informazione che invece è cambiata e che, grazie soprattutto ai social network, riporta i giornalisti all’origine della professione, che è quella di stare sulla strada, guardare in faccia le persone, fare loro delle domande. Domenico Quirico ha detto una cosa che mi ha molto colpito: un buon giornalista non scriverà mai un buon articolo se non si metterà nelle condizioni delle persone che descrive. Ecco, mi piacerebbe finire questa mia carriera con l’entusiasmo del cronista che non conosce orario, che non si ferma di fronte a una verità ufficiale».
De Bortoli, a domande molto concrete e terra terra del cronista, concede risposte intrise di ideali nei toni e nei contenuti. Credo sia sintomatico di una passione che, nonostante tutto, ancora cova sincera sotto le problematiche quotidiane cui è sottoposto il direttore di questo crogiolo di anomalie industriali e poteri sfaldati che è diventato agli occhi di molti il Corriere della Sera. E in qualche modo trovo apprezzabile il tentativo di affrontare la crisi dei media partendo dalle cose alte da metterci dentro più che dalle basse, sterili e oltremodo noiose discussioni sui modelli. Però è un fatto, se di innovazione stiamo parlando, che qui alcuni processi che hanno scosso l’editoria altrove non sono stati messi in atto se non in dimensioni ai limiti della rilevanza. Spesso per la mancanza di spirito di iniziativa e di rischio di impresa dei giornalisti stessi, i quali restano aggrappati a navi di cui loro stessi narrano in pubblico e in privato e con dovizia di particolari l’affondamento, ma che non si sognano lontanamente di lasciare per fondare imprese editoriali nuove.
«Secondo me questo è un fenomeno che non abbiamo ancora visto – dice a proposito il direttore – ma fra poco assisteremo a un’ondata di iniziative imprenditoriali sul web e sulla carta, da parte di giornalisti che torneranno a concentrarsi sulla qualità dei contenuti e sul racconto della realtà. Questo mentre i grandi gruppi, secondo me sbagliando, vagheggiano di branded content (i celebri contenuti sponsorizzati dalla aziende che in questo momento sono considerati come una possibile fonte di reddito da molti media, ndr). E sa perché? Perché hanno in mente il tarlo del fatturato e pensano che tutto dipenda dagli investitori pubblicitari, perdendo di vista che il grande tesoro è il rapporto con il lettore. In quale altro settore trovi un consumatore che ti sceglie ogni giorno? È un legame straordinario che ha qualcosa di sentimentale e rappresenta un valore irripetibile che gli editori dovrebbero saper cogliere. Ma purtroppo questo è un paese senza editori, o peggio, con editori di risulta, editori per necessità o per calcolo ma mai per passione». Sempre lateralmente editori. «Sì. Gli editori puri sono scomparsi e anche quelli che si dicono tali non lo sono per niente. Per questo mi auguro che sempre più giornalisti possano diventare editori di loro stessi».
A questo proposito, chiedo a de Bortoli di aiutarmi a capire se questa mancanza di editori nuovi è dovuta solo al crollo drastico del livello culturale della cosiddetta classe dirigente o se invece, di contro, non sono forse i giornali che non riescono più a essere sexy abbastanza per attrarre investimenti attorno a progetti vecchi e nuovi.
Il direttore ha pochi dubbi: «Guardi, io il capitalismo italiano lo conosco molto bene, a tal punto che molti mi tacciano di essere un portavoce dei cosiddetti poteri forti, che in questo paese non esistono per altro. I poteri forti di una volta, quando c’erano, erano anche colti. Leggevano molto di più, amavano le lettere, erano dei mecenati, si facevano spesso interpreti di una voglia di essere in qualche modo protagonista di un certo mondo della cultura. Oggi assistiamo a un degrado non solo culturale ma anche morale delle classi dirigenti. La grande borghesia produttiva si è sfaldata, molti sono andati all’estero, non esiste più il capitalismo delle grandi famiglie, quelle poche che sono rimaste fanno i conti con la propria crisi. Prima l’essere editori era una via per emanciparsi, quasi anche per senso di responsabilità nazionale. Poi è arrivata la fase in cui il capitalismo ha visto i giornali come forme di scudi o di armi improprie a seconda delle circostanze. O come il modo per crearsi una sorta di polizza assicurativa. Ci sarebbe invece bisogno di persone che capiscano la realtà, che sappiano vedere ciò che sta accadendo al di sotto della linea di superficie, che individuino le tendenze, che scoprano nuovi talenti, che puntino sui giovani, sugli outsider. Non puoi entrare nel mondo della cultura e dei giornali e comportarti da mero prosecutore di comunicazioni di impresa o di rapporti poco limpidi con la pubblicità. Perché è chiaro che evidentemente stai facendo un altro mestiere, non certo l’editore. Io trovo che la nostra borghesia produttiva sia decaduta insieme con quel nostro capitalismo privato che ha spinto tanto per le privatizzazioni, salvo poi sostituire monopoli pubblici con monopoli privati e imbastire un rapporto obliquo quando non osceno con il potere politico. Credo che questa sia stata una delle ragioni principali del declino di questi ultimi anni. Al quale abbiamo resistito: il Corriere della Sera non è stato mai stato strumento di nessuno di questi soggetti. Forse per la fortuna di averne avuti tanti sopra di sé e spesso in lite fra loro».
Le stoccate alla proprietà del Corriere e a ciò che rappresentano: forse il sassolino che più volentieri de Bortoli si sta togliendo in questo strano e prolungato periodo da direttore uscente di un giornale del cui futuro l’attuale reggente parla comunque volentieri. Ne approfittiamo per chiudere proprio su questo, il Corsera da aprile in poi: «Il futuro del Corriere sarà secondo me radioso perché qui c’è una grande redazione. Per questo credo e mi auguro che ci possa essere una successione interna per la direzione. Il giornale ha superato momenti molto più difficili di questo e soprattutto ha una storia molto più prestigiosa e di lunga durata di tutti gli azionisti più o meno validi che ha in questo momento. Quindi credo che le cose andranno bene, soprattutto se qualche gruppo deciderà di puntare forte sul Corriere della Sera. Il quale, nonostante tutte le cose che abbiamo detto, continua fra l’altro ad essere un’impresa redditizia».