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 2015  febbraio 06 Venerdì calendario

IN FRANCIA C’È UN VILLAGGIO DOVE ”FIORISCONO” I JIHADISTI

Fatte le debite proporzioni, è come se da Roma fossero partiti volontari per la Siria o per l’Iraq, in meno di un anno, più di 2.200 cittadini. E ne fossero rimasti uccisi oltre 650 sul campo di battaglia. Fatte le debite proporzioni, è come se da Milano ne fossero partiti 1.750. E ne fossero morti più di 500, in tre mesi, tra ottobre e fine dicembre.
Lunel, nell’Hérault, è 54 volte più piccola di Roma, 50 volte meno popolata di Milano ed è a 750 chilometri da Parigi, che — ancor prima di essere traumatizzata dalla strage di Charlie Hebdo e dal suo corollario di assalti e sparatorie, tra il 7 e il 9 gennaio scorsi — guardava a questa pittoresca cittadina della Camargue, a metà strada tra Nîmes e Montpellier, con malcelata inquietudine: come è possibile che un solare paesone di nemmeno 26 mila abitanti ne abbia forniti alla jihad già una ventina? Ragazzi e ragazze, tra i 18 e i 30 anni. Tutti di religione musulmana, per origine famigliare o per conversione. Tutti — comunque tutti — di nazionalità francese, poiché nati e cresciuti qui, in (almeno) apparente armonia con il piccolo mondo agricolo che fino a non molti anni fa dava dignitosamente da vivere sia ai lunellois sia agli immigrati, sempre più numerosi, in arrivo soprattutto dall’Algeria e dal Marocco.
Dunque che succede a Lunel se il 10%, ovvero sei dei 60 francesi (il bilancio è salito ora a 73) morti l’anno scorso combattendo una guerra altrui in terra altrui sono partiti da questo placido angolo provenzale per la loro “guerra santa”? E come mai, in questo fazzoletto di 24 chilometri quadrati, nessuno si era accorto dei preparativi di spedizioni al fronte che, probabilmente, non si sono ancora esaurite?
Se lo sono chiesti, per primi, i servizi segreti di Parigi, impegnati a ricostruire il percorso di un migliaio e forse più cittadini francesi arruolati dalle milizie in Iraq e in Siria, tra l’ottobre del 2013 e l’estate del 2014. In 380 hanno preferito aggregarsi ai gruppi terroristi anziché all’esercito libero siriano. Due francesi erano stati riconosciuti fra i tagliagole dell’Isis impegnati a girare il loro film preferito: come sgozzare i prigionieri, in coreografico allineamento alle spalle di una fila di diciotto soldati siriani inginocchiati ai loro piedi. Altri si rivolgevano in francese ai connazionali nei video di propaganda prodotti dai cineasti del califfato, senza nascondere il volto né l’accento di provenienza. È stata sospettata la presenza e l’influenza di attivisti di Tablighi Jamaat, organizzazione islamica con radici indiane e appendici fondamentaliste, tesa a diffondere un’interpretazione letterale e rigorosa del Corano.

“Pescalune” e fanatici. Alle 6 del mattino del 27 gennaio decine di uomini in passamontagna nero hanno invaso i vicoli di Lunel, sfondato porte, perquisito appartamenti alla ricerca di conferme ai sospetti degli investigatori. La retata antiterrorismo dei reparti speciali francesi, Raid e Gign, si è conclusa con cinque arresti, anche se le responsabilità dei fermati sono tutte da verificare. Se davvero colpevoli, formavano una cellula piccola ma in grado di infiltrare e devastare la quiete multietnica di Lunel. Il cui nome era fin qui associato soltanto a un vino dolce, il Muscat de Lunel, e alla poetica leggenda secondo la quale i suoi abitanti cercavano di catturare la luna riflessa di notte sull’acqua del fiume con un paniere bucato. Lunel e i suoi Pescalune sono fieri della loro storia e delle loro tradizioni, del loro passato in prima linea (sì, era già capitato) durante le guerre di religione fra cattolici e protestanti, nella prima metà del 1600. E dei sapienti ebrei che vi nacquero e prosperarono, facendone un centro di studi filosofici, di medicina e di astronomia, già nel Medioevo, prima di esserne cacciati nel XIII secolo.
La storia ha lasciato ricordi del passaggio di Filippo il Bello e dei Templari. All’inizio del ‘900 la costruzione di un imponente mercato, Les Halles, tuttora in funzione, e di alcuni sontuosi edifici privati, come il Palazzo Notarile, racconta di un’epoca florida. Ma adesso, in centro, la rue Sadi-Carnot offre una lunga sequenza di saracinesche abbassate. La libreria esoterica non ha avuto fortuna e i suoi 75 metri quadri sono in attesa di acquirente a 65 mila euro. Ristoranti vietnamiti si mescolano a rivendite di kebab, fast-food cinesi, trattorie maghrebine, sale da tè e negozi alimentari dai nomi evocativi: “Le mille e una notte”, “Paradiso orientale”, “Marwan tè”. Mamme velate spingono le loro carrozzine senza degnare di uno sguardo le poche boutique aperte.
La crisi ha colpito duro qui: un quarto (ma c’è chi dice un terzo) della popolazione è musulmana, contro il 7,5% della media francese. Una manovalanza preziosa ai tempi dell’abbondanza, quando parevano non bastare mai le braccia importate dal nord Africa per coltivare i campi della regione. Ma ora un abitante su cinque è disoccupato e quattro giovani su dieci non trovano lavoro. Per figli e nipoti di quella generazione sembra non esserci più spazio: «Sono giovani alla deriva», è l’analisi di Pascal Gomez, attore e organizzatore di incontri quasi settimanali in piazza per favorire il dibattito e la coesione fra gli abitanti. «Sono nati in Francia, ma hanno origini maghrebine, partono per trovare una patria che li accolga».
Dev’esserci dell’altro se, da due anni e mezzo, Lunel è stata inserita tra le quindici Zone di sicurezza prioritarie (Zsp), assieme ai quartieri nord di Marsiglia, alla Caienna (nella Guyana francese) e a Saint-Denis. Zone turbolente dove Hollande aveva promesso, in campagna elettorale, il rafforzamento della sicurezza per contrastare la delinquenza.
«Qualche esagitato c’è», ammettono informalmente negli uffici della polizia municipale. «Ci sono alcuni attaccabrighe che provocano, strumentalizzano la religione, ma non sono poi loro a partire per la Siria. Quelli che sono andati a combattere non ci avevano mai creato problemi. Li abbiamo visti crescere, studiare, e trovarsi anche un lavoro o mettere su famiglia. Hanno sempre mantenuto un profilo basso». Senza cenni di fanatismo. Tra i sei caduti, almeno tre parevano ben integrati a Lunel: un muratore, uno studente d’informatica, il gestore di un bar. «È che qui la moschea si sta radicalizzando», soffia uno dei vigili.

Il ruolo della moschea. Occhi puntati dunque sulla maestosa Moschea Al-Baraka, costruita tra il 2007 e il 2010, al posto di un capannone agricolo e in grado di ospitare circa 800 fedeli durante il Ramadan, alla periferia est della città, sulla strada per Nîmes, dove inizia la campagna e pascolano i famosi cavalli bianchi della Piccola Camargue. Uno dei jihadisti di Lunel morti in guerra era il figlio di uno degli ex presidenti della locale Unione dei musulmani, che amministra il centro di culto. L’imam, la guida religiosa, non parla francese e questo è un altro motivo di cruccio per il sindaco, Claude Arnaud, che avrebbe voluto sentire un intervento forte e chiaro, ma soprattutto francofono, della rappresentanza musulmana. Anzi, un’esplicita e dura condanna dell’esodo jihadista dalla città.
«La moschea non c’entra», aveva finito per rompere il silenzio dell’autorità religiosa, Lahoucine Goumri, presidente dell’Unione dei musulmani di Lunel fino all’11 gennaio scorso. «Queste partenze sono iniziative individuali. L’imam o la moschea non sono mai stati consultati da questi giovani al momento di prendere la loro decisione. Non siamo responsabili di ciò che accade a seimila chilometri da qui».

Famiglie in lutto. Alla richiesta di condannarne la scelta, però, Goumri svicolò: «Soltanto Dio può giudicarli», aggiunse, scatenando l’ira delle autorità cittadine e regionali, in particolare quando attribuì a François Hollande la prima spinta ai giovani verso la jihad. «Visto che è stato proprio il presidente, nel 2011, a definire Bashar al-Assad un macellaio e un criminale, perché condannare quelli che sono partiti a causa delle ingiustizie commesse in Siria e non quei francesi che sono andati a uccidere dei bambini palestinesi con l’esercito israeliano l’estate scorsa?». Il Consiglio francese del culto musulmano aveva subito censurato le sue affermazioni e il 6 gennaio, alla vigilia degli attacchi di Parigi, il prefetto del dipartimento dell’Hérault, Pierre de Bousquet, ha giudicato la Moschea di Lunel «preoccupante».
Cinque giorni prima era stata data in moschea notizia del sesto decesso nei ranghi dei jihadisti provenienti da Lunel. E il 9 gennaio, il primo venerdì dopo lo sterminio della redazione di Charlie Hebdo, l’imam e il presidente dell’Unione dei musulmani della città hanno finalmente esternato tutta la loro riprovazione per gli attentati di Parigi.
Prima di cedere il suo posto al nuovo presidente, Rashid Belhaj, Lahoucine Goumri ha preferito smorzare i toni e ha assicurato a Sette che tra le 1.200 famiglie musulmane della città non spira alcuna brezza di orgoglio per i guerrieri espatriati, ma piuttosto aria di lutto: «Sanno che di quei ragazzi non tornerà nessuno», dice. «Sono giovani francesi che moriranno, tutti, in guerra».
Prendono un treno per Parigi, un volo per la Spagna o la Germania, poi un aereo per la Turchia. Un itinerario complicato per evitare di essere intercettati in tempo, magari convinti dalle famiglie a desistere. Una volta partiti, «contattarli è difficilissimo, se non sono loro a farlo. Non sappiamo dove siano né cosa stiano facendo». E, comunque, il loro eventuale ritorno è visto dalle autorità e dalla stragrande maggioranza dei francesi come un’immensa minaccia, più che come il miracoloso ravvedimento del figliol prodigo di fronte all’orrore.

Il contagio del virus. Fra loro ci sono anche alcune ragazze. «Sì, quattro. Sono partite per seguire i loro mariti», conferma Gourmi. E c’è qualche convertito, come il ventiduenne Raphael Amar, figlio di un benestante ingegnere informatico ebreo e di una psicologa, nata cattolica. A luglio, quattro anni dopo la sua conversione, anziché tornare a casa dopo un colloquio di lavoro a Parigi, Raphael è proseguito per la Siria, avvisando qualche giorno dopo la famiglia per tranquillizzarla: non intendeva combattere, ma portare aiuto umanitario. In novembre è arrivata la notizia della sua morte, il mese precedente, nella battaglia tra i sunniti dell’Isis e le truppe siriane per il controllo della base aerea di Deir al-Zour. La stessa battaglia in cui sono stati uccisi anche due suoi ex compagni di scuola.
Avvengono molte conversioni a Lunel? «Non più che altrove», risponde Goumri. «È Dio che guida le anime, per le conversioni. Noi non abbiamo la bacchetta magica».
Rimasta vedova in Siria qualche mese fa, e con due bambini a carico, Maeva, una delle giovani donne convertite di Lunel, si era rifatta viva chiedendo aiuto per tornare in Francia, salvo poi rinunciare e sparire di nuovo: «Non ha più famiglia qui», è stata la spiegazione raccolta in moschea da Caroline Froelig, giornalista del quotidiano Midi Libre. «I suoi genitori l’hanno ripudiata dopo la sua conversione. In Siria riceverà soldi come vedova di combattente. Perché dovrebbe rientrare?».
Nella piccola redazione locale, sul boulevard de la Fayette, Caroline Froelig, che segue fin dall’inizio l’epidemia di vocazioni jihadiste in città, non è convinta dalle analisi ufficiali: «Ormai siamo alla terza generazione di figli di immigrati», osserva. «La piaga più grave è l’abbandono scolastico, la mancanza di una formazione, soprattutto ora che l’agricoltura non assorbe più come prima i lavoratori non qualificati. A Lunel l’integrazione con i musulmani, che non sono più del 20%, è buona. Ai più giovani però manca uno scopo nella vita, si attaccano a internet e trovano chi riesce a montare loro la testa, a convincerli di essere qualcuno e di avere una missione importante da compiere. Partono senza avvisare nessuno, perché sanno che le loro famiglie cercherebbero sicuramente di impedirglielo».
Fragilità sociale uguale radicalizzazione, è la diagnosi del municipio di Lunel, il cui sindaco non sa più come liberare la sua città dallo stigma di covo jihadista: «Più che un fenomeno religioso è un fenomeno settario», sostiene il capo di gabinetto, Norbert Euvé. «La religione è un pretesto. In fondo da Lunel sono partiti 15 o 20 giovani sugli oltre mille del resto della Francia. I nostri si conoscevano, sono coetanei, frequentavano la stessa moschea, vengono dallo stesso quartiere». Il virus del fanatismo, insomma, si sarebbe trasmesso per contagio da uno all’altro in una compagnia di amici. «Sono ben cosciente delle difficoltà economiche e sociali del nostro comune e delle sfide connesse», ha comunicato il sindaco Arnaud nel suo messaggio di inizio 2015 alla cittadinanza. «Ma rifiuto che la gioventù di Lunel sia giudicata per la follia di pochi individui». Morti o morituri, comunque già cancellati da ogni rimpianto dei Pescalune.