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 2015  febbraio 06 Venerdì calendario

JOE SACCO, IL PADRE DEL GRAPHIC REPORTAGE «IL PRIMO FU GOYA…»


Joe Sacco non ama il termine graphic novels, preferisce chiamarli comics, fumetti. Come quando erano considerati arte
per bambini, o al massimo per adolescenti, molto prima che i piccoli focolai di cultura sotterranea disseminati nel mondo si accendessero nella rete come tante lampadine, facendoci rendere conto che un po’ underground lo eravamo tutti.
Sacco, 54 anni, in fatto di stile deve moltissimo al mitologico Robert Crumb. Nato a Malta, cresciuto in Australia e poi negli Stati Uniti, ha lasciato perdere avventure erotiche e psichedeliche, dedicandosi invece al reportage dalle zone di guerra: «L’idea è venuta per caso. Dopo la laurea in giornalismo non riuscivo a trovare un lavoro interessante in una redazione. Così ho cominciato a disegnare fumetti», ci ha raccontato dalla sua casa di Portland, Oregon. «Volevo però occuparmi di quello che accadeva nel mondo, in particolare in Medio Oriente, così sono partito. Una volta lì, mi sono accorto di lavorare come un giornalista, intervistando le persone e raccogliendo dati. Stavo facendo qualcosa di diverso dal semplice resoconto delle mie esperienze. Non c’è stato nulla che abbia deciso a tavolino, la mia spinta a creare reportage a fumetti si è sviluppata in modo organico, sul campo».
Il risultato dei primi viaggi di Joe Sacco, tra il 1991 e nel 1992, è raccolto in due volumi usciti in Italia nel 2006 con il titolo Palestina. Una nazione occupata (Mondadori). È stata poi la volta della guerra in Bosnia, con quello che forse è il suo capolavoro, ormai purtroppo introvabile, Gorazde. Area protetta (Mondadori, 2006). E poi ci sono i reportage brevi, come quelli dall’India, in cui Sacco racconta la vita segnata dalla superstizione degli appartenenti alle caste più basse, o dall’Iraq.
Nei suoi disegni ci sono guerra, povertà e dolore, temi non usuali per il fumetto: «In realtà sono argomenti che molti hanno trattato prima di me» spiega Joe Sacco. «Mi viene in mente subito Art Spiegelman, che in Maus ha raccontato la storia di suo padre deportato e sopravvissuto ad Auschwitz. Un’altra cosa a cui non si pensa è che i disegni hanno avuto per secoli valore di reperti storici, come nel caso di Goya con la serie I Disastri della guerra. È solo che a un certo punto sono stati soppiantati dalla fotografia».
C’è molto testo nei lavori di Sacco, ma c’è qualcosa che il disegno può raccontare meglio delle parole? «I disegni sono in grado di ricreare l’atmosfera di un posto, la sensazione di esserci. Se uno scrittore sottolinea troppe volte che un luogo è coperto di fango finisce per essere pedante. Ma se nei disegni il fango è sempre lì, come sfondo di ogni vignetta, ecco che il lettore ha esattamente il senso del luogo che sto cercando di raccontare. Inoltre il disegno parla una lingua comprensibile da tutti: spesso ho usato i miei primi libri per conquistare la fiducia di gente che volevo intervistare. Se mi fossi presentato con un articolo di giornale non sarebbe servito a molto».
Ci è voluto coraggio. I fumetti non erano ancora così di moda, e per molto tempo nessuno, tra giornali e case editrici, è stato disposto a investire nei viaggi di Sacco. Lui dormiva a casa dei protagonisti delle sue storie, nelle baracche dei campi profughi, andava a bere con i colleghi inviati dei grandi giornali nei bar degli alberghi, raccoglieva voci e immagini e scriveva tutto, a mano, con la grafia fitta e minuta, su un grande quaderno dalla copertina nera. Nelle sue storie lui c’è sempre. Si disegna con le labbra sporgenti, il cappellino e gli occhi nascosti dietro lenti da vista bianche: «Quando ho iniziato a fare fumetti disegnavo storie autobiografiche, come quasi tutti i giovani cartoonist. E così quando mi sono messo a lavorare al libro sui palestinesi l’ho pensato nello stesso modo, come la cronaca dei miei viaggi e del mio incontro con delle persone. Solo più tardi mi sono reso conto che il mio personaggio serviva a chiarire al lettore che la storia che stava leggendo era narrata attraverso il mio sguardo. Non ho mai avuto la pretesa di essere onniscente, né di essere oggettivo. Mi interessa di più mostrare che dietro il mio lavoro c’è un essere umano, e come questo approccio mi abbia permesso di conoscere intimamente le persone che mi hanno raccontato le loro vite. Il narratore in prima persona mi sembra onesto, ti ricorda sempre che il giornalismo non può usare altro che lenti soggettive e imperfette per descrivere il mondo».
Gli argomenti scelti da Sacco non sono facili da affrontare e una qualche forma di censura deve averla subita. Il suo primo libro, Palestine, ha vinto nel 1996 l’American Book Award, eppure sembrano esserci pochissime recensioni dell’epoca negli archivi della rete. In ogni caso Joe Sacco negli ultimi anni ha rivolto lo sguardo su problemi geograficamente più prossimi, come nel libro firmato col giornalista premio Pulitzer Chris Hedges sulla povertà negli Stati Uniti, Days of Destruction, Days of Revolt (2012).
E su altri più lontani nel tempo, come nel suo ultimo lavoro, La grande guerra (Rizzoli Lizard, 2014): un libro che è un’unica tavola lunga sette metri e mezzo, un’opera panoramica muta che ricostruisce minuziosamente la battaglia della Somme del 1 luglio 1916, che è diventata il simbolo del potere di distruzione, universale, di tutte le guerre: «Mi sento vicino alle persone di cui leggo nei libri di storia», ha scritto Sacco parlando di questo libro. «Sto lavorando a un fumetto sulla Mesopotamia, sono stato a lungo ossessionato dal Medio Evo e dal mondo antico. Per me si tratta sempre di persone viventi, ma che semplicemente non sono più con noi». Forse due talenti sono troppi da portare avanti per sempre, e Sacco sembra aver fatto una scelta: «È stato un sollievo non dover pensare alle parole. Ho passato moltissimo tempo facendo giornalismo, e mi interessa tutt’ora, ma credo che il lato artistico voglia prevalere». Presto dovrebbe arrivare anche un libro sui Rolling Stones, annunciato, ma non ancora realizzato. E finalmente non ci sarà più bisogno di specificare che si tratta solo di fumetti, da riporre nel lato B della storia.
Valentina Della Seta