Alberto Negri, Limes: Dopo Parigi che guerra fa 1/2015, 6 febbraio 2015
IL PETROLIO ECONOMICO RISCHIA DI COSTARCI CARO
1. EUROPA MARCIAVA PER CHARUE HEBDO e il petrolio scendeva ai minimi da sei anni. Ma crollavano anche i prezzi di altre materie prime: il rame, il caffè, persino il succo d’arancia. Neppure le vitamine d’inverno attirano più. Dobbiamo essere contenti oppure anche questa è una storia sbagliata?
È scattata un’altra trappola per un’Europa debole che fa il pieno all’auto allegramente, piangendo lacrime di coccodrillo sulla libertà di espressione colpita a morte a Parigi, in attesa che le vere superpotenze mondiali, in primo luogo gli Stati Uniti, raccolgano i pezzi dell’Unione Europea e che una firma sul trattato di partnership transatlantica (Ttip) segni il de profundis del mercato comune europeo.
Tutto è partito con la decisione dell’Arabia Saudita di non diminuire la produzione in seno all’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio. Il cartello è ormai un segnale arrugginito e pericolante piantato in mezzo alla confluenza tra i mercati e gli interessi geopolitici. L’Opec è stata minata dall’escalation delle tensioni tra il fronte dei produttori arabi sunniti del Golfo guidati da Riyad e il tandem sciita Iran-Iraq. Una vittoria per la linea promossa dall’Arabia Saudita e dai suoi alleati nel Golfo (Emirati Arabi Uniti e Kuwait). Gli altri paesi membri si sono dovuti allineare, schiacciati tra la nuova concorrenza dello shale nordamericano e le migliori condizioni competitive dei sauditi.
Anche gli iraniani hanno mangiato la foglia. Questo calo del greggio è il prezzo da mettere in bilancio - un po’ alto, ma forse tutto sommato conveniente - per un’altra firma, quella dell’accordo nucleare che Barack Obama dovrà vendere a un Congresso ostile. Obama però può giocarsi la carta del calo del greggio: mette in difficoltà i produttori Usa più marginali, ma è un colossale sconto sui consumi di benzina dei cittadini americani.
I sauditi lo hanno detto chiaro e tondo da un anno ai russi, agli iraniani e soprattutto agli americani: la monarchia wahhabita può accettare che la Repubblica Islamica rientri nel consesso internazionale solo se indebolita, almeno economicamente, il che significa pure rendere più difficili gli aiuti militari ed economici di Teheran al regime di Bassar al-Asad e al governo sciita di Baghdad. Gli iraniani sono in guerra, un conflitto che in Siria è per procura attraverso gli hiz-bullah libanesi al fianco di al-Asad, ma che in Iraq è diretto: lo testimonia l’uccisione di un generale iraniano a Samarra’, il primo alto ufficiale a cadere in battaglia dai tempi della guerra Iran-Iraq degli anni Ottanta.
Anche la Russia ovviamente paga il prezzo, con miliardi di perdite, il rublo in caduta e l’economia in piena crisi. Questo gioco piace, oltre che ai sauditi, ai tedeschi, agli americani e agli alleati europei satelliti di Washington, come i baltici e la Polonia.
La Germania di Angela Merkel ha accettato già da qualche mese il ricatto americano: punire la Russia per l’Ucraina e firmare il patto commerciale transatlantico che apre l’Ue alle merci made in Usa, in cambio di un’accresciuta presenza delle aziende tedesche sul mercato statunitense. La Crimea vale meno del Texas, è evidente. Nonostante la crisi sullo spionaggio, o forse proprio per questo, si sta profilando un asse Berlino-Washington che non sostituisce quello tra Washington e Londra, ma lo sostiene.
Per rendere chiaro il messaggio all’Europa gli americani si sono persino sfilati dalla marcia contro il terrorismo a Parigi, mandando soltanto l’ambasciatore: un livello di rappresentanza solitamente riservato al Terzo Mondo. Non è andato neppure il ministro della Giustizia Eric U. Holder, che pure un’ora prima aveva partecipato al vertice parigino antiterrorismo. Motivi di sicurezza? Suvvia, se l’ambasciatore può presentarsi, può farlo anche un ministro. In realtà l’agenda americana non prevede una seconda guerra al terrorismo in nome dell’Europa.
2. Il prezzo di questi attentati, che derivano dalla compiacenza con cui la Francia e gli europei hanno lasciato andare la manovalanza jihadista a combattere in Siria, era già stato pagato dai sauditi con un megasconto sul petrolio. Cosa vogliono di più gli europei? Ma il diavolo fa le pentole, non i coperchi, come ci insegnavano nella nostra lontana infanzia.
Quella di Parigi è una storia sbagliata, una storia di periferia con tre giovani che hanno ucciso e si sono fatti uccidere con un biglietto di andata e ritorno dalle banlieues ai campi di addestramento mediorientali del jihad. È la storia di un’ipocrisia francese e occidentale con la complicità degli stessi alleati musulmani che fanno finta di risentirsi per quanto accaduto e imputano all’islamofobia europea la responsabilità degli attacchi. Come fa il presidente turco Erdogan, sostenitore - al pari di Hollande e di Sarkozy, di Obama e di Cameron - della guerra in Siria, dei bombardamenti in Libia, di un gioco pericoloso sfuggito di mano. Esattamente come sfuggirono di mano negli anni Ottanta i mujahidin afghani, lanciati a combattere l’Armata Rossa e poi diventati taliban e qaidisti.
Sarebbero bastati pochi mesi, raccontavano, per far fuori l’allampanato figlio di Hafiz, alleato di Mosca e di Teheran: ma le storie sbagliate nascono anche da calcoli sbagliati. Perché c’è un jihad buono, che serve i nostri interessi, e uno cattivo, che fa di testa sua e obbedisce soltanto in parte ai suoi sponsor arabi, il cui obiettivo è tenere lontano gli islamisti da casa loro e mantenere in piedi monarchie assolute, gestite in genere da una sola famiglia e da élite ristrette che si fanno scudo dell’islam con la stretta applicazione delle leggi coraniche, punendo sistematicamente ogni parvenza di opposizione e di libero pensiero. Il jihad buono ha imbastito una guerra per procura in Siria - nata dai devastanti errori del regime di al-Asad - con l’illusione di manovrare gruppi come Gabhat al-Nusra o il Fronte islamico, sponsorizzati da al-Qa‘ida, dal Qatar, dai sauditi e dai turchi, che hanno lasciato aperti i loro confini ai miliziani.
In realtà Europa e Usa appoggiano iniziative di Stati di stampo medioevale il cui vero merito è acquistare i nostri debiti sui mercati finanziari internazionali. Questa è anche la storia di una guerra sbagliata, quella in Iraq nel 2003, lanciata contro Saddam sulla base di una clamorosa menzogna (che il regime baatista possedesse armi di distruzione di massa). Con il risultato che da dodici anni la Mesopotamia è un campo di battaglia, una sorta di lager dove vengono confinati come ostaggi milioni di arabi, vittime di una violenza inaudita e di una propaganda criminale che sta allevando giovani generazioni perdute, private di un futuro e di qualunque speranza.
Qual è l’obiettivo di questo disastro geopolitico e umanitario? Costituire, nel crollo delle frontiere degli Stati mediorientali, uno Stato sunnita a cavallo di Siria e Iraq, con la speranza di far fuori prima o poi il «califfato» e creare uno Stato cuscinetto tra la maggioranza sciita in Iraq, Iran e gli hizbullah libanesi. L’altro scopo è frammentare il mondo arabo e musulmano per evitare che, come in passato, si costituiscano potenze con ambizioni egemoni, come l’Iraq, o alternative, come la Siria. Anche questo potrebbe però rivelarsi un calcolo sbagliato, perché le organizzazioni radicali non hanno alcuna intenzione di farsi solo strumentalizzare, ma acquisiscono risorse economiche proprie, come sta facendo il «califfato».
L’Occidente, oliato dai soldi delle petromonarchie, è entrato in un conflitto interno all’islam tra sciiti e sunniti, da cui trae benefici ma anche rischi. E adesso esplodono le contraddizioni. Perché i soldi delle monarchie del Golfo e delle organizzazioni islamiche versati per finanziare i gruppi radicali in Siria e in Iraq e tenere buono l’Occidente con commesse di armi, partnership commerciali, investimenti e sconti sul petrolio non bastano più a giustificare i morti nelle strade.
Adesso la gente in Europa marcia per difendere i princìpi sacrosanti dello Stato laico e della libertà d’espressione, ma comincia a sospettare che questa sia davvero una storia sbagliata. Prezzo del petrolio compreso.