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 2015  febbraio 06 Venerdì calendario

MEGLIO UN CROSS DI ROCCOTELLI

Il numero “7” più originale del pallone italiano, epigono dei geni incompresi, ideatore della mitica “rabona” «Io la chiamavo l’incrociata e la facevo già da bambino Ieri l’insegnavo a Zola oggi ai ragazzi della mia scuola calcio»
Giornata uggiosa metà anni ’70, Zelio Zucchi si aggira nervoso per la redazione sportiva del “Corriere della Sera” reclamando più spazio per un pezzo sul basket. Alla sua ennesima sbuffata, il colpo di tacco fulminante del collega Guido Lajolo: «Piantala Zelio, meglio un cross di Roccotelli che la finale della Nba». Una massima storica che ha scavallato il secolo scorso e il maestrale l’ha trascinata nel terzo millennio fino in Sardegna, a Monserrato (Cagliari). È li che vive e lotta l’eroe di carta di Lajolo. Una delle “figurine” ancora più ricercate in tutte le cattedrali della provincia pallonara (Barletta, Avellino, Cesena, Ascoli, Cagliari, Taranto, Nocera Inferiore, Foggia, Caserta, Sassari e Selargius) in cui è passato Giovanni Roccotelli.
In ognuna di quelle piazze “Cocò” dal baffetto alla Dalì, ha mostrato a grande richiesta del pubblico pagante il pezzo forte del repertorio, la sua creatura con tanto di copyright, riconosciuta persino da “O’Rey” Pelè, la mitica Rabona.
Tradotto: piede destro dietro al ginocchio sinistro e calcio al pallone. Un numero che ha reso immortale nella memoria di cuoio questo “Garrincha dei poveri” e che - possiamo assicurare ai nati dopo gli anni ’70 - è ancora materia di dibattito tra i saggi avventori nei bar sport della Penisola e Isole comprese. Per andare all’origine della sacra rabona siamo andati a scovare il suo profeta che comincia il racconto dagli inizi. «Siccome con il sinistro sapevo solo camminare, quel gesto mi venne istintivo nelle partitelle a due contro mio fratello Vittorio che era mancino».
Erano i primi segnali del genietto barese, quartiere Poggio Franco, che fino a 15 anni al pallone anteponeva la lotta greco-romana. «Un giorno con il mio amico Vito Lopieno, alias “Miniussi” - come il portiere - un sacramento di un metro e novanta, ci affacciamo sotto al canale Mussolini dove stavano facendo dei provini. L’allenatore vedendo Vito disse: “Tu vai bene, il tuo amico è troppo piccolo e mingherlino non ci serve”. “Miniussi” gli rispose secco: “O prendi tutti e due o niente”. Così restai per la partitella e dopo dieci minuti di dribbling, gol a raffica e rabone, l’allenatore venne da me e mi fece: “Va bene, tu ci sai fare, resti con noi. Il tuo amico invece va a casa”. Io lo guardai scuro in faccia e gli dissi, o resta anche lui o ce ne andiamo». Poi il calcio a “Miniussi” lo ha scartato lo stesso, mentre Roccotelli entrò nel Sibillano e al terzo provino convinse quelli del Barletta a versare 1 milione per il suo cartellino. «Quei soldi li portai subito al mio allenatore, il signor Schino, ma lui da gran signore non li ha voluti». Il Barletta lo lancia in prima squadra a 17 anni e dopo le prime apparizioni puntuale arriva la convocazione di Enzo Bearzot nella Nazionale di Serie C. Il viaggio in treno fino a Firenze lo fa con un ragazzo barese, giocoliere quanto lui, Vito Chimenti, l’inventore di un’altra stregoneria: la Bicicletta. Pallone alzato con il tacco da dietro a scavalcare il difensore con il pallonetto. «Vito era fantastico in quel giochino che comunque io, modestia a parte, conoscevo e pra- ticavo da un pezzo. Ma con una variante: facevo passare la palla sopra la testa, mentre Chimenti la bicicletta l’ha sempre fatta laterale. Così come mi veniva spontaneo calciare i rigori da fermo, come a Perugia, poi, faceva Gianfranco Casarsa, o tirare direttamente in porta dalla bandierina come Massimo Palanca al Catanzaro. Io dal corner addirittura andavo di rabona». Eccola la magica “chaleira” dei brasiliani che per Roccotelli era semplicemente «l’incrociata». Un gesto talmente originale e ad effetto, da far cadere la pipa di bocca al “Vecio” Bearzot. «Sul campo di Coverciano la feci in partitella, segnando pure due gol e il ct, sbalordito, mi disse: “Scusa, ma come ti è venuta sta roba qua?”».
Il principino della rabona, tutto scatti fulminei «coprivo i cento metri in 11 secondi netti» e colpi da carioca sulla fascia dove scartava anche la solitudine dell’ala destra, traslocò in Serie B, nell’Avellino di patron Antonio Sibilia. «Mi pagò 70 milioni di vecchie lire, più Miniussi, quello vero, al Barletta. Appena arrivato chiesi a Sibilia il permesso per tornare a casa a trovare i miei genitori e lui mi avvertì: “Qui c’è solo un padre e sono io. Una domenica che Morrone, Fava e un altro anziano della squadra avevano giocato male, Sibilia scese nello spogliatoio e con sguardo truce li ammonì: “Oh, voi tre dovete pagarmi il biglietto, oggi vi siete visti la partita”. Mai contraddirlo e tanto meno chiedergli soldi. La volta che mi permisi di ricordargli il premio partita mi lasciò anche la mancia: cinque dita in faccia – sorride Roccotelli –. Però, altro che Ferrero, oggi personaggi così mancano tanto al nostro calcio». Sibilia per 300 milioni l’estate del 1974 vende Roccotelli al Torino e così la sua rabona si tinge di tricolore. «Sì, ma giocai solo due partite nella squadra dell’ultimo scudetto granata. Colpa di un infortunio e poi lì davanti c’erano due fenomeni, Pulici e Graziani e nel mio ruolo giocava il miglior “7” dell’epoca, Claudio Sala. Radice non solo non voleva che facessi la rabona, ma non mi vedeva proprio. Quando Sala si fece male contro la Fiorentina, invece di schierare me lo sostituì con Pallavicini. Eppure tutti i ragazzi di quel Toro possono testimoniare: alle partitelle del giovedì mi marcavano in tre senza prendermi mai, e facevo di tutto, rabona compresa. Nel 2006 quando mi hanno invitato alla festa del centenario del Toro c’era Gigi Radice e appena l’ho visto l’ho minacciato: «Sono venuto da Cagliari, se mi tieni in panchina anche oggi ti mando a quel paese… So che ora il mister sta male e mi dispiace, mai serbato rancore per nessuno».
Nessun rancore nemmeno per Toneatto che gli vietò la rabona al Cagliari - dove migrò dal Toro l’anno dopo - e neppure per i dirigenti sardi che nonostante il pressing della “bandiera” Gigi Riva («mio testimone di nozze», sottolinea orgoglioso), dopo una sola stagione lo lasciarono andare via, all’Ascoli. Lì, il presidentissimo Costantino Rozzi e tutto lo stadio Del Duca alla domenica aspettava la rabona di Roccotelli come al circo la gente trepidava per quell’enorme mistero della donna cannone. Il 24 agosto del ’77 l’Ascoli si presentò alla Scala del calcio per la sfida di Coppa Italia contro l’Inter e allora il “7” bianconero pensò bene di tirar fuori dal cilindro qualcosa di eclatante: rabona da calcio d’angolo e Pasinato che incorna di testa sfiorando la traversa. «Tutta San Siro si alzò in piedi per applaudirmi. Provo i brividi se ci ripenso...». Facchetti lo avrebbe voluto portare all’Inter, invece dopo Ascoli per “Cocò” comincia l’altalena provinciale con discesa a Taranto (in B) e risalita a Cesena (in A) fino a chiudere - con una lunga parabola in C - alla soglia dei quarant’anni. «Con la Nocerina feci un paio di gol di rabona su calcio di punizione. Mi divertivo a insegnarla ai più giovani, come Gianfranco Zola con il quale chiusi la carriera alla Torres». Ha chiuso con il professionismo Roccotelli, ma mai con la rabona. «L’ho rifatta anche adesso, a 62 anni, in una partita di amatori: scambio da calcio d’angolo, rabona dal vertice dell’area e palla sotto l’incrocio. I miei compagni impazziti... Dopo di me l’ho vista fare a tanti, ma andatevi a rivedere i filmati su Youtube, non è la stessa cosa di quella di Roccotelli».
Eppure, nonostante la sua rarità, tra i grandi del calcio ha ballato troppo poco. «L’etichetta di “dribblomane” mi ha rovinato. Nella mia generazione chi è rimasto in A a lungo è perché aveva imparato a fare le cose normali. Io, però, difendo quelli della “mia razza”. Tipo Italo Florio, l’“11” del Bari primi anni ’70, saliva con tutti e due i piedi sul pallone e faceva il saluto allo stadio della Vittoria. O quel “10” pazzesco di Ezio Vendrame: quando giocammo a Padova mentre noi ci riscaldavamo lui se ne stava in panchina a suonare la chitarra. Poi, cominciata la partita ci diede una “bambola”... Incontenibile». E non si contiene neanche mister Roccotelli quando si presenta dinanzi ai cento ragazzi della sua scuola calcio, l’Is Arenas di Quartu Sant’Elena. «Chi non ha il dribbling, per me non è un vero giocatore. Dall’attacco in su gli ripeto sempre: date libero sfogo alla vostra fantasia, tanto verrà il tempo in cui sarete prigionieri di questi scienziati del modulo e degli schemi fissi. La rabona? Pochi sanno farla come si deve, è roba per quelli bravi. Qualche talento l’ho avuto, ma verso i 16-17 anni si perdono dietro ai telefonini e alle discoteche. Vivono con il mito del “lavoro zero, milioni a palate”, è la filosofia delle ultime generazioni, tutta fisica e niente tecnica in campo. Modestia a parte, ma io oggi sarei titolare irremovibile in qualsiasi squadra di Serie A».