Lirio Abbate, l’Espresso 6/2/2015, 6 febbraio 2015
UN DELITTO POLITICO
L’omicidio del presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella, è stato un delitto politico perché ha nella politica la sua unica spiegazione». L’analisi di Giuseppe Pignatone è stata chiara. Vent’anni fa esatti, l’allora pubblico ministero di Palermo aveva sottolineato quel punto nella sua requisitoria contro i mandanti del delitto: la cupola di Cosa nostra, fra cui Riina e Provenzano. L’agguato scattato nel giorno dell’Epifania del 1980 contro il fratello dell’attuale presidente della Repubblica, rimane ancora però carico di misteri. Perché la politica non ne è stata solo l’origine, ma ha avuto anche un ruolo nel depistare le indagini.
Pignatone, oggi procuratore capo di Roma impegnato sul fronte di "mafia Capitale", sottolineò che l’assassinio nasceva da «una rottura contro Cosa nostra assunta da Mattarella, la cui nobiltà e il coraggio sono fuori discussione». Una questione che andava al cuore nero della Dc e alla figura dell’ex sindaco Vito Ciancimino: «Quanto fosse incombente e grave la presenza di Ciancimino in moltissimi aspetti della vita della città di Palermo risulta confermato anche dall’esistenza di alcuni seri dubbi sulla linearità, completezza e tempestività delle indagini sull’omicidio di Mattarella. Purtroppo si deve rilevare che solo in parte è stato possibile chiarire questi dubbi».
Il pubblico ministero fu durissimo nel denunciare il ruolo di alcuni uomini delle istituzioni: «Ci sono anomalie delle indagini ogni volta che è entrato in campo il questore di Palermo Vincenzo Immordino». Elementi importanti furono nascosti agli investigatori per oltre un anno e mezzo. Elementi che sembravano portare verso Roma e i vertici del partito. «Il consigliere istruttore Rocco Chinnici apprese di un importante incontro che Mattarella aveva fatto a Roma alla fine del 1979 con l’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni. Al suo ritorno confidò alla segretaria, Maria Grazia Trizzino, che «se dovesse succedere qualcosa di molto grave per la mia persona, si ricordi di questo incontro con Rognoni perché ad esso è da ricollegare quanto di grave mi potrà accadere». Rognoni ha sempre affermato che nel colloquio si parlò di politica e non di emergenza criminale.
È una notizia fondamentale. Ma «l’autorità giudiziaria l’apprende solo dopo quindici mesi nonostante la signora Trizzino ne avesse parlato subito ai familiari e ai funzionari di polizia, in particolare al dottor De Luca che era all’epoca responsabile della sezione omicidi, il quale riferì subito ai suoi superiori e al questore Immordino». Nonostante ciò nelle stanze della questura qualcuno non lavora per scoprire la verità. «De Luca capì però che c’era qualcosa che non andava e scrisse una relazione. La scrisse perché il questore gli disse di non fare nulla. Immordino aveva fermato il funzionario dicendogli che se ne sarebbe occupato lui personalmente».
Perché Immordino tace con i magistrati? Come evidenzia Pignatone nella requisitoria «certo è che di questa cosa il giudice istruttore verrà a conoscenza nell’aprile 1981 e potrà interrogare Trizzino solo a maggio e il ministro Rognoni a giugno. Può darsi che non sarebbe cambiato nulla, ma è possibile che esiti diversi avrebbero potuto dare un’attività di indagine seria come quella compiuta da Chinnici, accompagnato dal dottor Pajno, se tutte queste persone e in particolare il ministro Rognoni fossero state interrogate nell’immediatezza dei fatti, quando i ricordi erano più vivi e anche la sensibilità alle circostanze era maggiore».
Non è l’unica anomalia. Durante le indagini viene scoperta una nota riservata del Sismi, il servizio segreto militare, del 15 maggio 1980: un rapporto che indicava il killer - mai identificato - come appartenente ad un gruppo terroristico. Nella nota - in cui si sottolineava che la fonte «è da cautelare» - si leggeva che il Sisde, il servizio segreto civile e la polizia di Palermo erano informati. La fonte è Giovanni Ferrara, all’epoca capo del centro Sisde di Palermo. «Il fatto appariva strano e sentito Ferrara confermava di essere stata la fonte indicata nell’appunto del servizio segreto militare e ricordava di averne lasciato uno anche al Sisde di Palermo». Un intreccio di apparati a dir poco inquietante. Perché ricostruendo il percorso della notizia si scopre che il funzionario dell’intelligence «durante un colloquio personale riservato con il questore di Palermo» aveva appreso «che persona qualificata attendibile, notoriamente vicina ad ambienti mafiosi», avrebbe riferito che il killer di Mattarella «si identificherebbe in un noto sovversivo di sinistra, non ricercato e opportunamente reclutato in imprecisata regione del Nord». E chi è la persona «notoriamente vicina ad ambienti mafiosi» da cui parte tutto? Proprio Vito Ciancimino.
Lo svela Ferrara durante l’interrogatorio del dicembre 1990, dieci anni dopo l’omicidio. Non solo, evidenzia Pignatone: «durante un lungo colloquio in auto per le strade di Palermo, Ciancimino ha preannunciato a Immordino un suo rientro nella scena politica di Palermo. Questo particolare riecheggia in quello che dice Mattarella a Rognoni durante il loro incontro, e cioè la sua paura di un rientro di Ciancimino. E qui tornano le parole dei collaboratori Buscetta e Marino Mannoia che dicevano come Mattarella metteva i bastoni fra le ruote a Ciancimino».
Il questore Immordino interrogato dal giudice istruttore nel dicembre 1990 non confermava nulla di tutto ciò. Messo a confronto con Ferrara, il magistrato ne registra il «visibile imbarazzo» e tutto ciò faceva da riscontro all’assoluta fondatezza delle dichiarazioni dell’ex 007. Secondo Pignatone «è verosimile che il colloquio ci fosse stato e che Ciancimino gli avesse detto tutte quelle cose e Immordino avesse accettato questo rapporto con una persona come Ciancimino che a quell’epoca era discussa e discutibile, accettando il rischio di essere strumentalizzato». Ma in questo modo sono state fatte circolare «false notizie tendenti ad accreditare il collegamento fra un killer rosso, che nel processo non c’è mai stato, e un clan mafioso che vedi caso era quello degli Inzerillo, in contrasto con i corleonesi a cui Ciancimino faceva riferimento». Un questore che blocca la vera notizia sull’incontro tra Mattarella e Rognoni mentre ne diffonde una avvelenata. «L’ipotesi è certamente inquietante, poiché finirebbe col far risalire a Ciancimino l’origine di un chiaro tentativo di depistaggio delle indagini sull’omicidio Mattarella, deviate su una falsa pista».
Pignatone ricorda pure che Mattarella non era ben visto non solo da Ciancimino ma anche dai cugini Nino e Ignazio Salvo, i potenti esattori protetti dal deputato dc Salvo Lima di cui i pentiti parleranno in seguito come collusi con la mafia. In Sicilia Piersanti Mattarella aveva conquistato un ruolo indiscusso che lo stesso fratello Sergio, ricostruendo quel periodo, aveva così descritto ai giudici: «Era cruciale sul piano regionale il ruolo di Piersanti Mattarella sia per la crescente affermazione della sua personalità sia per i rapporti che egli, più degli altri esponenti della Dc, intratteneva con i comunisti siciliani. Per Piersanti questa attenzione verso il Pci doveva rappresentare insieme una sponda essenziale per nuovi indirizzi politici e una condizione utile per spingere sia il partito nel suo complesso sia l’intero sistema politico regionale a comportamenti politici ed amministrativi diversi dal passato e più coerenti con la posizione di rinnovamento».