Imma Vitelli, Vanity Fair 5/2/2015, 5 febbraio 2015
LE NOSTRE TRECCE
Più FORTI DELLA MORTE –
Se questo fosse un esercito regolare, Maryam sarebbe un generale. Il generale donna che ha battuto le truppe degli uomini neri a Kobane.
«Abbiamo sconfitto la morte», mi dice seria.
Offre tè e sigarette e caffè nel suo quartier generale, dove si aggirano operose giovani in divisa militare. Minuta, il volto di luna, il sorriso franco, di un’età indefinibile tra i 40 e i 50, mi osserva cercando di capire se si può fidare. Non sembra stanca, nonostante la pressione immensa degli ultimi mesi. È il balsamo, temporaneo, della vittoria.
Lunedì 26 gennaio, dopo 133 giorni di furibondi combattimenti, Kobane, la Stalingrado dei curdi, nel Nord della Siria, è stata liberata.
Gli invasori dello Stato Islamico in Iraq e in Siria (Isis) sono stati cacciati dal centro urbano e ora si combatte nei villaggi, dove le Unità di Protezione del Popolo (YPG in curdo) sono all’attacco.
La devastazione è apocalittica.
Il 70% della città è stato inghiottito dalla guerra; i 40 camion bomba del Califfato e i bombardamenti a centinaia degli Alleati hanno prodotto l’ultima Guernica mediorientale, strade cosparse di cadaveri, edifici un tempo possenti umiliati nella polvere.
C’è, nell’aria, odore di morte. È visibile l’ingegneria della guerra. Le vie sono trincee. Profonde buche separano gli isolati: sono servite a sbarrare il passo ai veicoli kamikaze.
Gli edifici ancora in piedi sono teatri. Sipari colorati, tendoni neri e viola, sono tesi tra le case. Impedivano ai cecchini nemici di vederti mentre attraversavi di corsa, pregando ti mancassero.
Un giorno qualcuno scriverà nei libri di storia che la prima vera legnata ai tagliatori di teste del califfo al-Baghdadi l’ha data una guerriglia composta per metà da donne che per 45 giorni ha resistito in furiosa solitudine con vecchi kalashnikov.
Il generale Maryam ne parla con il distacco di chi c’è ancora dentro.
Questa è una comandante che ha detto alle sue ragazze di non farsi tagliare le trecce dall’Isis.
E le sue ragazze, nell’ora fatale del faccia a faccia con le orde, l’hanno chiamata sul walkie-talkie per dirle: Maryam, stanno arrivando, non essere triste, evviva Kobane! E poi il bang triste e risolutivo e finale delle granate innescate dalle partigiane.
Il giorno più difficile?
«Il 6 ottobre. Quel giorno il nemico ha piantato la sua bandiera nera sul colle Mushtanur».
L’altura Mushtanur è cruciale; chi la controlla, controlla Kobane. Per questo le partigiane, nei loro diari, scrivono Roj bash Mushtanur, Buongiorno Mushtanur. Sanno che la vittoria, o la sconfitta, dipende dal vessillo che sventola sulle trincee su in collina.
Il 6 ottobre le Unità del Popolo erano già circondate a sud, a est e a ovest; in quei giorni «lo zio Obama» ancora non aveva schierato il cielo dalla loro parte.
«I media turchi dicevano che Kobane era caduta. L’Isis diceva sui social network che era una questione di ore. Mi chiama Voice of America: Kobane è caduta? E io: Kobane resisterà. Fino a quando avremo una sola casa, Kobane resisterà. Fino a quando avremo un combattente in piedi, Kobane non cadrà».
Quel giorno, Maryam salta da un fronte all’altro.
Tutti la chiamano via radio e a tutti dice non si muove nessuno, chi arretra tradisce.
Chiama anche Destina, di Sulaimanya. Chiama dal fronte cruciale sotto attacco, quello del confine turco, e le dice: «Io e le ragazze resistiamo. Il nemico prenderà la frontiera soltanto se tutte noi moriamo».
Maryam le raggiunge e tutte insieme, a gruppi di sei, sette guerrigliere, cantano a ondate terrificanti il canto della libertà. Lungo la linea del fuoco irrompe il tilili, l’ululato delle donne, che gridano e sparano come ossesse, per farsi coraggio, per dirsi avanti, compagne, solo la morte ci fermerà.
Quelli dell’Isis hanno paura del tilili, sono convinti che se muoiono in battaglia per mano di una donna, in paradiso non ci vanno. «Pensa che un giorno abbiamo catturato un prigioniero», mi dice Maryam. «Alcuni compagni hanno provato a fargli aprire gli occhi, senza riuscirci. Allora gli ho parlato io in arabo e quello ha aperto gli occhi e mi ha chiesto dell’acqua. Ho pensato, forse il tipo crede di essere in paradiso. Forse è convinto che io sia una vergine. Be’, la metà dei soldati Isis qui non ci è andata in paradiso. La metà è stata uccisa da donne».
Paradiso o non paradiso, è difficile dire esattamente quanti islamisti abbiano trovato la loro fine a Kobane. Di certo non meno di 2.000, contro i 500 curdi delle YPG. Il ministro della Difesa di Kobane, Ismat Sheikh Hassan, un signore mite, di 53 anni, mi dice che in tanti sono stati disintegrati dai bombardamenti Alleati.
Camionate di cadaveri sono tornati a Raqqa, capitale del Califfato, 160 chilometri a est di Kobane. «Sa cosa hanno fatto? Hanno tagliato il capo a 37 loro commilitoni morti e hanno portato le teste a Raqqa e hanno detto che a tagliarle siamo stati noi».
Molti uomini neri giacciono ancora dentro spaventosi crateri, o tra i detriti delle vie, lontani dall’agognato eden di latte e miele. Nel quartiere Botan el Gharbi, tra le macerie di una scuola elementare, lo slargo della ricreazione è una piccola fossa comune. Dove un tempo carambolavano felici i bambini, c’è una voragine. Una mano e un braccio sbucano scomposti da un mucchio di undici corpi.
«Il nemico è a terra!», mi dirà il comandante Ciya, un vecchio lupo di montagna, all’offensiva sul fronte più caldo, il fronte meridionale. «Litigano tra di loro. Uccidono chi si rifiuta di combattere».
Ho raggiunto le truppe di Ciya in prima linea, una mattina plumbea di fine gennaio, in maniera rocambolesca. Ci ha dato un passaggio un soldato imberbe di nome Berkhodar che sgomma felice al volante di un’auto dal parabrezza in frantumi, solcando trincee e vie sconquassate.
Capisco che siamo arrivati a Kolmat, l’ultimo villaggio controllato dai curdi, 7 chilometri a sud di Kobane, dal pullulare delle divise, in cima a un lieve colle, tra sparse case di campagna.
Il comandante Ciya, il lupo di montagna, è fiero. «Abbiamo preso Kolmat due giorni fa. Il nemico è fuggito. Il loro tè, nelle tazze, era ancora caldo».
Che tipo di nemico è l’Isis?
«Ricorda Gengis Khan. O le orde di Tamerlano. Bravi nella propaganda, nell’instillare il terrore. Ma dal punto di vista militare, battibili. Solo la prima linea è forte: i cecchini sono del Caucaso. La seconda linea è di schiappe. Kobane è una piccola città. E sa perché l’Isis non è riuscita a prenderla? Il segreto della resistenza è l’anima di Öcalan. Combattiamo come ci ha insegnato lui. Öcalan ci ha detto che siamo forti, che questa è la nostra terra, che ce la possiamo fare. È questo il nostro segreto. La volontà».
Ho sentito spesso il nome di Abdullah Öcalan, al fronte. Öcalan: il leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), di nazionalità turca, in prigione in un isolotto vicino a Istanbul. I suoi uomini hanno combattuto una sanguinosa guerriglia nelle regioni curde della Turchia e sono da decenni sulle montagne e per una curiosa curva della storia rappresentano oggi, non solo in Siria ma anche in Iraq, il più valoroso baluardo contro i tagliatori di teste. Non è un segreto che le Unità del Popolo del YPG siano affiliate al PKK e che la battaglia di terra sia stata vinta, a Kobane, quando i «vecchi» e le «vecchie» sono scesi dai monti.
L’80% dei combattenti è turco, e l’arabo non lo conosce.
Non se ne parla, ma tra le tante guerre che si combattono in Siria, c’è anche una guerra civile turca: da una parte i turchi che combattono a frotte nell’Isis, sponsorizzato dal governo di Erdogan, che dalla sua frontiera ha fatto passare i miliziani e persino un camion bomba nel tentativo di annichilire il nemico storico PKK a Kobane; dall’altra i curdi turchi accorsi a dare una mano ai compagni in Siria e in Iraq, poiché sono gli unici in circolazione ad avere l’addestramento necessario per vedersela con gli islamisti.
I peshmerga iracheni, al confronto, sono mammolette.
I 125 uomini arrivati dal Kurdistan iracheno con grande fanfara li vedi fumare intorno a un bivacco e fare fuoco con i razzi su richiesta dei comandanti del PKK. Il che è esattamente ciò che sta succedendo in questo momento.
Il comandante Ciya arringa le truppe allineate lungo il muro di una fattoria: «Siete pronti?».
Le ragazze hanno in testa foulard neri a fiori rossi e le carabine a tracolla e si passano granate come fossero mele verdi. Un tizio, smilzo, accende una piccola radio e tutti insieme, maschi e femmine, si mettono a ballare la dabka, la tradizionale danza curda, prima di lanciarsi furiosamente in battaglia.
In un angolo, tre giovani caricano un vecchio mortaio cinese da 82 mm, il che vuol dire che Daesh, l’Isis in arabo, è molto vicino, appena oltre il colle.
È una scena che non ho visto in nessun teatro di guerra: ragazzi e ragazze che smettono di ballare e corrono temerari all’attacco attraverso un campo aperto.
Poi non noto più niente, poiché Daesh risponde al fuoco e un paio di tiri di mortaio atterrano a trenta metri e una scheggia ferisce di striscio una combattente, e il comandante Ciya ordina di spostarci un po’ più a valle. L’aria si riempie di sibili e boati e pennacchi di fumo mentre aspettiamo, intorno a un fuoco, il consolidarsi degli eventi.
Mi tornano in mente le parole di Farhad Shami, giornalista curdo: «L’Isis è forte. YPG controlla 16 villaggi su 366. Si combatte in 60. Sarà lunga e dura. Ma, come dice Öcalan: vittoria o vittoria».
Vittoria o vittoria è ciò che mi hanno detto tutti i curdi che ho incontrato a Kobane. Beshank me l’ha detto ferita su un letto d’ospedale, o meglio su una branda nel seminterrato di una scuola elementare.
Gli uomini neri li ha combattuti faccia a faccia: «Dicono di rappresentare l’Islam ma non rappresentano un bel niente». Un cecchino di Daesh l’ha presa di striscio alla testa mentre dava calci alle porte delle ultime case da loro occupate. Non voleva mollare. E anche adesso che giace pallida con una flebo ripete: «Devo tornare al fronte. I miei amici sono lì». Chiude gli occhi e parte un intimo dialogo, e ho l’impressione che Beshank, curda, turca, di Sirnak, 25 anni, parli a se stessa più che a me.
«Combattere, dobbiamo combattere. È nostro dovere. Per le future generazioni, per i diritti, per la giustizia. Combattere, dobbiamo combattere. Per i nostri martiri. Non vi dimenticheremo, compagni».