Gabriele Romagnoli, Vanity Fair 5/2/2015, 5 febbraio 2015
IL MILIARDARIO E L’EMIGRANTE
Questa è una vecchia storia, che ancora continua e non finisce qui. Come tutte le storie che davvero insegnano qualcosa.
Comincia con un regalo. Una signora che considero una seconda madre mi consegna una scatola. La apro e ci trovo una medaglia. Ha inciso un angelo che mette una corona d’alloro in capo a un uomo inginocchiato. La scritta, in francese, è una dedica «agli eroi della civiltà». Sotto c’è un nome, anzi un cognome con una iniziale: Sacco (A.). E una data: 1936.
Che cosa accadde, in quell’anno e a quell’uomo? Il regalo è doppio: la parte più preziosa è la storia che contiene.
A quel tempo la signora era una bambina di cinque anni e viveva a Torino. Un giorno la madre e la nonna prepararono una valigia e le dissero: «Partiamo. Si va in Francia». Non era tempo di Schengen, al confine c’era una frontiera. Il doganiere si insospettì: non gli andava giù l’assenza del padre della piccola. Poteva trattarsi di una fuga all’estero con minore. Inflessibile, non la lasciò passare. Madre e nonna si disperarono: dovevano assolutamente raggiungere Carcassonne, una cittadina vicina ai Pirenei.
Il doganiere, incredibilmente, propose: «Potete lasciare qui la bambina, ci penserà mia moglie: abbiamo figli anche noi. E un cane». A fare la differenza fu il pastore tedesco. La bambina gli corse incontro e non se ne staccò per due giorni. Il tempo necessario, per la madre e la nonna, di andare e tornare dalla Francia. Andavano a seppellire Antonio Sacco.
Sul retro della medaglia c’è il profilo di un uomo. Non è Antonio Sacco: è Andrew Carnegie. Il suo cognome vi dirà qualcosa, soprattutto se siete appassionati di musica e avete ascoltato un concerto alla Carnegie Hall di New York. Andrew Carnegie fu uno degli uomini più ricchi non solo del suo tempo, ma della storia intera. Il suo patrimonio, convertito in valuta odierna, ne farebbe ancora il numero 2 della classifica di Forbes. Era un immigrato: andò dalla Scozia agli Stati Uniti di cui divenne cittadino e, cominciando a lavorare umilmente, fece fortuna. Dicono che sia stato l’ispirazione per il personaggio disneyano di Paperon de’ Paperoni. A differenza del fumetto, non fu avaro. Arrivato a 65 anni vendette tutte le sue attività e si dedicò a due cose: la scrittura e la filantropia. Amava le parole, ma ancor più i gesti. Sul retro della medaglia è scolpita la scritta «Fondazione Carnegie per gli atti d’eroismo in Francia». Ne esistono anche in altri Paesi europei, tra cui l’Italia. Premiano ogni anno chi si è distinto per valore e generosità. Nel 1936, oltralpe, toccò ad Antonio Sacco.
La bambina rimasta alla frontiera con il cane non sapeva bene, non le avevano raccontato tutto: Antonio era il fratello di sua nonna, era stato un eroe ed era morto.
Probabilmente era morto proprio compiendo un atto eroico: aveva salvato qualcuno, ma non se stesso. Sorella e nipote andavano a rendergli l’ultimo omaggio e a ritirare quel riconoscimento. Come Carnegie, Sacco aveva lasciato il suo
Paese in cerca di fortuna, aveva fatto lavori umili, ma invece di diventare ricco era diventato un eroe e, al contempo, come spesso avviene, era morto.
Ho provato a scoprire di più, ma non c’era memoria: né nella pronipote né negli archivi elettronici. Il lascito di Carnegie per gli eroi della civiltà francese si è esaurito e lo Stato ha deciso di non proseguire. Dal 2006 non è più tempo d’eroi tra Parigi e Carcassonne. Esiste un archivio dei premiati, ma è stato trasferito nel Museo della cooperazione franco-americana. Si trova in uno splendido castello con giardino nel nord-est della Francia, ma è chiuso per restauri. Riaprirà nel 2016. Mi sono segnato mentalmente di controllare ogni giorno di quell’anno: appena succederà andrò a cercare la documentazione e racconterò qui con tutti i particolari di cronaca chi era e che cosa fece Antonio Sacco ottant’anni prima.
PAUSA PUBBLICITARIA –
Un gran libro sui bivi morali:
La ballata di Adam Henry,
di Ian McEwan, Einaudi.
Per ora mi restano da pensare e scrivere tre cose. La prima è che i francesi avrebbero dovuto continuare di tasca loro a dare il premio Carnegie. Quest’anno sarebbe toccato, per dire, al commesso maliano che, nel supermercato kosher, ha nascosto persone nella cella frigorifera proteggendole dal furore di un fondamentalista. Carnegie amava parole e gesti, ma premiava i secondi, perché sapeva che alla fine contano di più. Un Carnegie batte un Nobel: 2 a 0, o di uno scarto pari alle vite che salva.
La seconda è che nel 1936 i maliani coraggiosi, gli emigrati che lavoravano nel sottoscala, mal sopportati, erano gli italiani, e sapevano a volte riscattarsi e salire sulla testa di chi a loro si sentiva
superiore.
La terza è che sarebbe bello se a 65 anni i miliardari si ritirassero a scrivere (anche solo qualche verso, tanto chi li pubblica lo trovano) e a fare opere di bene, invece di fondare partiti e insistere a spacciarsi per eroi che non sono.