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 2015  febbraio 05 Giovedì calendario

CARLO ALBERTO DALLA CHIESA


QUANDO: 3 settembre 1982.
DOVE: a Palermo, in via Isidoro Carini.
VITTIMA: Carlo Alberto Dalla Chiesa, 62 anni, viene ucciso da una raffica di colpi di kalashnikov, sparati da un Commando a bordo di un’auto e due moto. Nell’attentato muoiono anche la seconda moglie, Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta, Domenico Russo. Dal 1966 al 1973 il generale comanda la Legione carabinieri siciliana. Disegna la prima mappa del potere mafioso palermitano e le aree di influenze delle 28 famiglie di Cosa Nostra. Nel 1974, in Piemonte, crea il nucleo speciale antiterrorismo e cattura i brigatisti Renato Curcio e Alberto Franceschini. Nel 1982 torna in Sicilia, come Prefetto anfi-mafia di Palermo. Ci resterà solo cento giorni.
MOVENTE: il generale che ha sconfitto il terrorismo fa paura alla mafia. Dalla Chiesa, lasciato da solo in prima linea, diventa un bersaglio. Restano zone d’ombra sui mandanti occulti, che hanno fatto pressione sulla Cupola, per eliminare il prefetto anti-mafia.
IL CASO È: chiuso. Nel 1992 la Cassazione infligge l’ergastolo ai capi della Cupola, fra i quali Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò e Michele Greco, ritenuti i mandanti. I verdetti definitivi per gli esecutori risalgono al 1995: carcere a vita per Antonio Madonia e Vincenzo Galatolo, 14 anni ai due pentiti, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci, che collaborano alle indagini. Il 12 maggio 2006, la Corte suprema conferma l’ergastolo per Raffaele Ganci, boss di Brancaccio, e Giuseppe Lucchese, capomafia della Noce.


IL DOVERE DI SERVIRE–
[L’Europeo 1981 n. 8]

Quest’uomo che anche con sarcasmo chiamano spesso Superman, Superstar, Superdetective, Supergenerale... Quest’uomo così inquietante (per i garantisti), così ingombrante (per i burocrati), così rassicurante per quanti invece vedono in lui una sorta di salvatore della patria, e lo invocano a cariche ancora più alte: magari, perché no, su su fino ai vertici del Viminale.
Quest’uomo ormai così mitico, in un’Italia infaustamente povera di talenti e di caratteri. Questo personaggio così discusso, contrastato, esaltato, invidiato... (e comunque adorato dai tanti piccoli fedelissimi. Con i quali è “duro ma affettuoso”. E per i quali è, tout court, Dallas, ovvero l’ultimo degli eroi).
Questo sessantenne che incontra il potere quando ne ha voglia, e tallona i terroristi con strategie complesse, e fa blitz improvvisi e violenti, e ottiene successi inusitati e parabolici...
Questo generale così poco fotogenico (nella realtà lo scopri difatti molto più aitante e meno pacioso di quanto non lo ostentino le immagini).
Insomma: questo Carlo Alberto Dalla Chiesa, chi è?
Di lui si è scritto molto ma dicendo sempre molto poco. Perché non s’è mai lasciato andare alle lusinghe di un giornalista. Perché in tanti avrebbero voluto vergarci un libro, ma il muro del rifiuto resta compatto da sempre. Perché magari lo avvicini e trovi cordialità inattese, affabilità sorprendenti, persino sense of humour e gentilezze proprio vecchio stampo, ma poi fatichi a cavargli una parola che non sia generica, una frase che non sia asettica, un discorso che non sia furbescamente impersonale.
Si sa che è nato a Saluzzo nel 1920: ma che le origini sono emiliane. Si sa che dopo la laurea in legge (ne prenderà una seconda in scienze politiche con un “maestro” d’eccezione: Aldo Moro) s’è arruolato come sottotenente di fanteria, passando poi al comando del plotone guerriglieri del Montenegro.
Si sa che all’atto dell’armistizio è a San Benedetto del Tronto: e lì si sottrae alla cattura e organizza e capeggia un gruppo di patrioti marchigiani. (Ormai è nella Benemerita. Come il padre. Come il fratello. Quasi un destino. Il motto “nei secoli fedele” che ravvolge un’intera famiglia).
Si sa che nella liberazione dell’Emilia è a fianco degli alleati. E che a guerra finita è in Campania, “specialista in guerriglia” ai tempi del bandito La Marca. Il primo aneddoto che gli ricamano addosso, ormai digerito dalla storia e “immortalato” dalla letteratura, risale al 1949, allorché, da Firenze, va volontario in Sicilia, dove la facevano da padroni i Giuliano, i Vizzini e i Liggio, a capo del Cfrb, Comando forze repressione banditismo.
A Corleone, inconquistata roccaforte mafiosa, viene infatti ucciso Placido Rizzotto, segretario della Camera del lavoro il cui corpo sarà scovato in un crepaccio solo due anni più tardi. Appena ventinovenne, ma già “indagatore” di gran fortuna, lui riesce a metter le mani su Luciano Liggio, Pasquale Criscione, e Vincenzo Collura, boss tra i boss. Che al processo saranno però assolti per insufficienza di prove. Per l’arroganza dell’intrallazzo e la palude d’un sottobosco politico più che mai vigoroso (un episodio che Leonardo Sciascia sembra solennizzare nel Giorno della civetta. Un episodio che, da qualche parte, già è diventato leggenda).
Il giovanotto chiede di rientrare a Firenze (dove ha un figlio di nove mesi che ancora non conosce). Nel 1952 è a Como. Nel 1955 a Milano, caserma di via Moscova. Poi lo rimandano a Palermo, col grado di colonnello. E laggiù il mito s’affranca. Perché per primo stende una mappa della delinquenza organizzata. E arresta gente del calibro di Frank Coppola, e Gerlando Alberti. E per il terremoto del Belice si mostra così attivo che subito l’eleggono cittadino onorario di Gibellina, Montevago, Poggioreale...
Ma è con reversione che il “generalissimo” rientra, quasi di botto, nel novero dei “patres” nostrani. Quando infiltra tra i brigatisti Silvano Girotto, alias Fratel Mitra, e, nel ’75, arresta Renato Curcio, dando il colpo di grazia al nucleo storico delle Br. Quando gli chiedono d’occuparsi del sistema reclusorio nazionale e inventa le “carceri speciali”. Quando, nel ’78, dopo l’assassinio di Aldo Moro, l’eleggono responsabile della lotta al terrorismo e infila un successo dopo l’altro, una cattura dopo l’altra: Corrado Alunni, Nadia Mantovani, Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Rocco Micaletto... Su su fino a Patrizio Peci e alla sua confessione, prima di un’interminata serie di pentimenti.
I trionfi fanno lievitare però malumori e diffidenze. Diffidano i garantisti (sospettandogli in pratica incarichi senza controllo). Diffidano i dietrologi (guardandolo come il deus ex machina del colpo di Stato sempre imminente). Diffidano le questure (esecrando certe sue abitudini da “lupo solitario”). Diffidano i magistrati (rinfacciandogli le sparate contro il “rilascio facile”). Diffidano, soprattutto, quelli che dell’intrallazzo hanno fatto il loro habitat naturale, e anche di recente hanno tentato di coinvolgerlo nella polemica del Dalla Chiesa-non-serve-più.
La chiacchierata inizia da qui: dalla diffidenza. Ecco le domande de L’Europeo e le risposte del generale, nella prima conversazione finora pubblicata fra un giornale e il carabiniere più famoso d’Italia.
C’è chi diffida di lei, generale: forse perché lei non ha una collocazione politica ben identificabile?
Le dirò questo: io servo la politica quale espressione legittima della volontà popolare. Senza però lasciarmene coinvolgere. E dunque senza avere soggezioni di sorta. C’è anche chi invoca la rinascita dei suoi nuclei speciali; e chi, invece, in quest’eventuale rinascita, vede motivo d’inquietudine e di rischio...
Non si è compreso che, se ho chiesto di essere destinato alla Prima divisione, è stato per poter dare a quei reparti speciali del Nord, più degli altri impegnati nella lotta al terrorismo, il supporto di tutta l’organizzazione dell’Arma in Italia settentrionale (e credo che il tempo mi abbia dato ragione).
Lei ha avuto funzioni autonome: rispondeva solo al ministro della Difesa e al presidente del Consiglio. Adesso, invece...
Adesso mi trovo dove per tanti anni avevo ambito e chiesto di essere destinato. Basterebbe leggersi i giornali dell’epoca, e anche le mie ripetute istanze al ministro dell’Interno, per rendersene conto.
Ma che risponde a chi parla di conflitti tra lei e il comandante dell’Arma?
Che un subordinato non può avere conflitti di sorta con il suo superiore.
E a chi insinua che lei è “uno che i meriti se li prende tutti, anche i non suoi”?
Dimentica che non un solo nome dei miei collaboratori è stato venduto al mercato del rischio. E non sa che le battaglie di carattere psicologico hanno bisogno di una bandiera. Anche modesta. O sfilacciata.
Lei è un “divo”. Proprio come Sandro Pertini. Proprio come papa Wojtyla. Ma bisogna riconoscerle che sfugge l’esibizione, sfugge i mass media, sfugge la ribalta... Una tattica anche questa, generale?
Può anche apparire tale.
La dipingono come un “uomo forte”...
Sono soltanto un uomo che crede.
In che cosa?
Nel dovere di servire gli interessi della collettività.
Bella risposta, generale. Bella e scontata. E comunque: si è mai sentito sconfitto?
Più volte. Soprattutto dall’ingiustizia. Dicono che i suoi contrasti coi magistrati si sono, difatti, acuiti dopo la famosa sentenza di Genova...
Guardi: io ho principi dai quali non defletto. Tra questi c’è quello di considerare, da sempre, la magistratura come un altare. Se qualche sacerdote non osserva la liturgia, me ne dispiaccio come cittadino: ma quale comandante di uomini penso ai rischi, alle difficoltà, alle amarezze dei miei collaboratori...
Che cos’è il potere per lei, generale?
Avere la forza di poter servire.
E la libertà?
Una necessità.
E il compromesso?
Non lo conosco.
Chi sono i suoi nemici?
Non lo so. L’importante è però che me ne guardi io.
E i suoi amici?
I carabinieri, i carabinieri...
Morale: una parola che ha senso, nel suo mestiere?
Moltissimo. A tal punto che talvolta non so trattenermi dal muovere critiche ad altri.
C’è chi guarda a lei come ministro degli Interni...
A me non l’hanno detto....
Crede che la stampa sia in parte responsabile per come vanno le cose oggi?
Sì.
Lei, grande esperto di cose mafiose, cosa pensa dell’ipotesi di collegamento tra terrorismo e mafia?
La respingo.
Ma per lei, nemico numero uno dell’eversione, il terrorismo che cos’è: anche un incubo, anche un assillo?
Nulla di tutto ciò. Ha mai giocato a scacchi?
Lei ha arrestato Curcio, con lei si è confessato Peci... Che cosa prova, in quei momenti, un uomo come lei?
Mi rende felice l’idea che i collaboratori verso i quali sono stato esigente raccolgano un’intima soddisfazione: non quella del nome sul giornale, ma quella d’aver portato l’Arma all’apprezzamento dei cittadini per bene.
Un’affermazione che la rispecchia in pieno, generale. Ma andiamo avanti: lei è uno che si batte perché mai ci si rivolga a un pentito come a un delatore...
Sì.
Perché?
Perché sono convinto che chi defeziona dalla lotta armata può dare un grosso apporto nel disarticolamento dell’eversione. E può aggiungere molto al nostro “libro di lettura”.
Dunque dovremmo deciderci a concretizzare i provvedimenti di clemenza sempre promessi e mai mantenuti...
Sì.
Ma che cosa risponde a chi dice che, in quel caso, sorvoleremmo su degli assassinii?
Mi domando quanti altri se ne potranno evitare, così facendo. Di errori se ne sono commessi molti, nella lotta al terrorismo, e lei certo non ne sarà esente...
Infatti.
Qual è, secondo lei, il punto debole del nostro sistema difensivo verso il terrorismo?
Che non abbiamo ancora fatto chiarezza intorno a noi.
E cioè?
La prego di non insistere.
Lei ha praticamente inventato le carceri speciali. Veri e propri covi di disumanizzazione, dicono...
Niente di più falso. E anzi c’è da chiedersi come mai, invece di preoccuparsi dei 30mila detenuti comuni che vivono in condizioni davvero precarie, ci si occupa e ci si preoccupa solo delle poche centinaia di “politici” che, al confronto, stanno infinitamente meglio. Anche ad avvocati e quattrini.
Carceri speciali come l’Asinara hanno creato dei grossi problemi, comunque. E, adesso, con il rapimento del giudice Giovanni D’Urso [direttore dell’ufficio terzo della direzione generale degli istituti di prevenzione e pena, ndr]...
Io la chiusura dell’Asinara la proposi già nel ’78. Così come proposi la “declassificazione” di Favignana e Termini Imerese, d’altronde.
Si fa un gran parlare del Grande Vecchio, generale. Ma esiste davvero?
Può anche essere. Io, però, certo non lo conosco.
Sull’esito della lotta al terrorismo, lei è ottimista?
Sì.
Perché?
Perché sono convinto che il movimento nel suo insieme ha perso di compattezza. E che non può più contare sulla correità e il silenzio di molti.
Molti, nei suoi panni, avrebbero paura. E lei, generale: lei ha paura d’essere ammazzato?
No.
Una domanda difficile, generale: in quest’Italia che pare senza speranze, le sue speranze quali sono?
Che chi ha voglia di credere sia accontentato.
Una domanda “delicata”: cosa succederà dopo D’Urso?
Spero ci si accorga davvero che la fine di questo tremendo ciclo, solo che si voglia, può essere accelerata al massimo.
La dipingono come un uomo romantico. E un frugale. Uno che passa le serate in solitudine cenando a pane, burro, latte e marmellata.
Uno che si rilassa con la musica e i libri di storia. Uno che s’appassiona ai francobolli...
Solo aneddotica o davvero il suo volto “umano”, generale?
Tutto vero. E se ciò è sufficiente a restituirmi un volto “umano”, sia!

Lina Coletti – L’Europeo 1981 n. 8


STRAGE CONTINUA–
[L’Europeo 1982 n. 32]

Palermo vecchia di prima mattina, le strade ancora fresche. Davanti alla sede del Banco di Sicilia, appena aperta, si ferma una Renault guidata da un giovanotto e da cui scende un elegante signore di mezza età, in beige. La sosta non è lunga. Accertatosi che i 300 milioni di lire del mutuo agrario richiesto per il suo acquedotto sono disponibili, il signore in beige ritorna fuori. L’automobile scende verso il mare, imbocca l’autostrada e in meno di mezz’ora è sulla piazza principale di Bagheria, paese di arance e ville barocche, di grandi artisti e di grandi assassini.
La prima scarica di 38 Special fulmina il giovanotto mentre scende dalla Renault. Anche l’uomo in beige apre lo sportello, accenna una fuga, ma viene investito in pieno da un’altra scarica. Sono le 9.45 di giovedì 5 agosto.
«Sparatoria a Bagheria!», annuncia concitata la radio della polizia. I primi agenti che accorrono devono aprirsi un varco in mezzo al solito cerchio muto di gente che guarda i morti. Si identifica l’uomo in beige: Cosimo Manzella, classe 1935, nato nella vicinissima e mafiosissima Casteldaccia, presidente dell’Ospedale traumatologico di Palermo. Il morto ha un passato politico, democristiano prima e socialista dopo. Gli giace accanto Michelangelo Amato, di anni 25, di Casteldaccia anche lui, fresco di galera per rapina. La strana coppia eccita gli smaliziati cronisti palermitani, ma qualcuno smorza la curiosità: «Erano cugini».
Resta il fatto che Manzella non è il solito morto del delitto di mafia. A differenza dei boss e dei gregari di cui si fa mattanza quotidiana e della cui vita nessuno sa niente, questo qui è un uomo pubblico, un amministratore con un passato nel quale scavare. Un cadavere eccellente? «Non troppo», dirà all’indomani del delitto di Bagheria una voce della questura.
La speranza di capire perché è morto Manzella svanisce presto. Quelli di Bagheria non sono altro che i cadaveri numero 180 e 181 nella lugubre contabilità aperta, per pura comodità statistica, il primo gennaio 1981 e mai chiusa.
«Emergenza nazionale», reclamano i partiti siciliani di fronte a questo terremoto di piombo che nessuno riesce a frenare.
Il buio è così fitto che persino il cronista si muove tra i fatti a tentoni, fra i cadaveri come fossero ombre. Prendiamo questa battaglia, ancora in corso nel “triangolo della morte” delimitato a est di Palermo dal perimetro Bagheria-Casteldaccia-Altavilla: 13 morti nella settimana fra il 3 e il 10 agosto.

TRIANGOLO DELLA MORTE
Il ciak della battaglia è una fucilata sparata nella notte di martedì 3 in una villa di Casteldaccia. Il killer solitario, che ha caricato l’arma con una cartuccia da caccia al cinghiale (a un solo pallettone), abbatte “come un maiale” il boss Gregorio Marchese, 38 anni.
Come in un film, il giovane padrino presiede una tavolata di 11 persone e sta affettando un “gatto” (pasticcio) di patate e melanzane. Gli invitati, probabilmente, hanno visto l’assassino, ma tengono alla pelle. Dopo aver depositato il corpo di Marchese davanti al pronto soccorso di Bagheria, spariscono tutti. Sulla scena del delitto la polizia troverà solo un precoce ragazzetto di 11 anni, Saverio Marchese, che ha la risposta pronta: «Ero in casa e guardavo la televisione. Niente ho visto, niente ho sentito».
I cronisti ricamano al buio. Ricordano che la mafia di Casteldaccia (una raffineria d’eroina scoperta l’anno scorso) è senza padrino e quindi senza legge da quando, 18 mesi fa, è scomparso nel nulla il vecchio boss locale don Pino Pano. Qualcuno sostiene che la famiglia emergente dei Marchese, nella fretta di farsi largo, si è mossa con troppa disinvoltura fra mafia vecchia e mafia nuova. Per questo l’inverno scorso un fratello di Gregorio Marchese, Pietro, è stato ammazzato con 38 coltellate dentro l’Ucciardone.

MORTE CON SCHERNO
La strage naturalmente arriva, inesorabile e indecifrabile. Gli assassini delle due parti agiscono con tale sicurezza che, inaugurando un nuovo stile mafioso, si prendono baffo apertamente di polizia e carabinieri. Sabato 7 agosto, poco prima di mezzanotte, qualcuno telefona ai carabinieri di Casteldaccia: «Se vi volete divertire, andate a guardare nella macchina che è posteggiata proprio davanti alla vostra caserma».
Un milite esce e trova una “127” con dentro i cadaveri di due uomini spariti di casa quella stessa mattina. Uno dei due morti, scrivono i cronisti palermitani, viene trovato “incaprettato”. Nuova delinquenza, nuova nomenclatura. Quando i mafiosi “incaprettano” un uomo lo mettono in posizione di arco dorsale, la corda tesa fra gola e caviglie, passando per le mani. Il condannato vive finché i muscoli non cedono e il corpo si stende. Allora si strangola. Una morte lenta, atroce.
La beffa di Casteldaccia offende, oltre che i carabinieri locali, anche il carabiniere in congedo Carlo Alberto Dalla Chiesa, venuto a Palermo nelle vesti di superprefetto antimafia all’indomani dell’uccisione di Pio La Torre, segretario regionale del Pci, assassinato il 30 aprile.
Il ritorno di Dalla Chiesa a Palermo, a dieci anni dalle sue ultime imprese antimafia, non poteva essere più amaro. Gli hanno buttato fra le gambe dozzine di morti, mettendo in corto circuito la già provatissima macchina investigativa palermitana.
Amici e nemici del prefetto, sanno che Dalla Chiesa, da quando ha assunto l’incarico siciliano, ha trascorso una sola giornata serena, quella delle sue seconde nozze con la giovane Emanuela Setti Carraro, sul Lago di Garda.
Perché fosse chiaro che il bersaglio “collaterale” della carneficina è proprio lo Stato, la mafia ha fatto la prima rivendicazione della sua storia martedì 10 agosto. Da nemmeno mezz’ora Salvatore e Pietro Di Peri, zio e nipote, mafiosi di Palermo est, erano caduti e una voce beffarda già telefonava al centralinista del quotidiano L’Ora scimmiottando il linguaggio dei cronisti: «Pronto, siamo l’équipe dei killer del triangolo della morte: con i fatti di stamattina l’operazione che chiamiamo “Carlo Alberto”, in onore del prefetto, è quasi conclusa. Dico quasi conclusa».
Contemporaneamente, secondo lo stile terroristico, una decina di falsi delitti veniva comunicata a polizia e carabinieri.
Solo i magistrati sembrano non aver perso la testa. «È guerra per l’eroina», ripetono a Palazzo di giustizia. La loro convinzione è suffragata da una recente lista di 162 ordini di cattura contro boss di tutte le cosche, emergenti, emerse, al tramonto. Poche decine gli arrestati, tutti gli altri Dio sa dove sono.
Come si sfugge a una retata? Elementare, rispondono a Casteldaccia. Ai primi d’agosto, in piena faida, centinaia di carabinieri hanno accerchiato il paese, comprese le ville dei nuovi boss.
Sono ville non tanto eleganti ma ricche, tanto ricche da possedere in molti casi un attracco privato. E così, fiutato odor di bruciato, molti mafiosi sono saltati sui motoscafi e hanno preso il mare.
E di tutori dell’ordine, sul mare, ovviamente non c’era traccia.

Giuseppe Di Piazza – L’Europeo 1982 n. 32

TUTTE PAROLE INUTILI–
[L’Europeo 1986 n.47]

Oltre 8mila pagine dattiloscritte e 22 volumi contenenti 610mila documenti: con questa sentenza cinque giudici istruttori di Palermo, Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello, hanno rinviato a giudizio 709 mafiosi. Solo per elencare i capi di accusa ci sono volute 700 pagine.
È la prima, vera, grande inchiesta giudiziaria sulla mafia, sui suoi traffici, sui suoi legami internazionali e su quelli con il mondo degli affari e della politica. È un documento che gli italiani devono conoscere per capire come, nel corso di decenni, senza che nessuno lo impedisse, la mafia ha raggiunto la forza e le dimensioni di un vero e proprio Stato che si regge sulla violenza e sull’illegalità e che si contrappone allo Stato di diritto.
L’Europeo ne pubblica i passi più importanti. In particolare, qui presentiamo la parte della sentenza che riguarda i rapporti tra i politici e il prefetto di Palermo Dalla Chiesa, assassinato a colpi di kalashnikov da un commando mafioso il 3 settembre 1982 a Palermo.

Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva accettato la nomina a prefetto di Palermo quasi a malincuore, solo per il suo straordinario “senso dello Stato” e ben consapevole delle difficoltà che lo attendevano. Aveva accettato anche per rimuovere “situazioni di stallo” da lui ritenute lesive dello stesso prestigio dell’Arma dei carabinieri, senza nutrire illusioni sul consenso delle istituzioni alla sua futura attività antimafia, prevedendo anzi che sarebbe stato “buttato al vento” non appena “determinati interessi saranno o dovranno essere toccati o compressi”. Ciononostante, si era buttato nella mischia con l’entusiasmo e il coraggio di sempre e, soprattutto, con le idee ben chiare. Egli, infatti, sapeva benissimo che, per rimuovere le cause profonde del potere mafioso, occorreva recidere i legami fra la mafia e alcuni membri di partiti politici che in Palermo convivevano “con l’espressione peggiore del suo attivismo mafioso”. E, senza mezzi termini, aveva informato di questa sua intenzione autorevoli esponenti di partiti governativi e lo stesso ministro dell’Interno. Valgono, per tutti, il colloquio tra Dalla Chiesa e l’onorevole Giulio Andreotti, cui è cenno nel diario, e l’incontro con il ministro dell’Interno, Virginio Rognoni, il quale all’osservazione di Dalla Chiesa che col nuovo incarico avrebbe potuto colpire anche qualche esponente del suo partito, rispose – ciò gli fa onore – che egli era un prefetto della Repubblica e avrebbe potuto e dovuto incidere sul fenomeno mafioso, senza riguardi per nessuno.
Dalla Chiesa, poi, era perfettamente consapevole che, a livello governativo, ben pochi conoscessero il fenomeno mafioso, avendone una concezione riduttiva e quasi “folcloristica”, senza comprendere appieno le implicazioni nazionali e internazionali, e ciò, inevitabilmente, si sarebbe riverberato in insufficiente dotazione di mezzi e di uomini al suo ufficio, ma, soprattutto, in una inidonea configurazione giuridica dei suoi poteri e del suo ruolo nella strategia della repressione del fenomeno mafioso.
I poteri da lui richiesti si esaurivano, secondo quanto ha riferito Antonio Maccanico, segretario generale della presidenza della Repubblica, cui Dalla Chiesa aveva avuto modo di illustrarli, nella creazione, presso ogni prefettura interessata dal fenomeno della mafia, di gruppi di investigatori alle dirette dipendenze del prefetto. Puntigliosamente, prima di assumere l’incarico, Dalla Chiesa aveva esposto il suo punto di vista al capo del governo, Giovanni Spadolini, in una lettera:
“Roma, 2/4/1982. Gentilissimo professore, faccio seguito al nostro recente colloquio e, se pur mi spiaccia sottrarle tempo, mi corre l’obbligo – a titolo di collaborazione e prima che il tutto venga travolto dai fatti – di sottolineare alla Sua cortese attenzione che:
- la eventuale nomina a prefetto, benché la designazione non possa che onorare, non potrebbe restare da sola a convincermi di lasciare l’attuale carica;
- la eventuale nomina a prefetto di Palermo non può e non deve avere come ‘implicita’ la lotta alla mafia, giacché si darebbe la sensazione di non sapere che cosa sia (e cosa si intenda) l’espressione ‘mafia’;
- si darebbe la certezza che non è nelle più serie intenzioni la dichiarata volontà di contenere e combattere il fenomeno in tutte le sue molteplici manifestazioni (‘delinquenza organizzata’ è troppo poco!);
- si dimostrerebbe che i ‘messaggi’ già fatti pervenire a qualche organo di stampa da parte della ‘famiglia politica’ più inquinata del luogo hanno fatto presa là dove si voleva.
“Lungi dal voler stimolare leggi o poteri ‘eccezionali’, è necessario e onesto che chi è dedicato alla lotta di un ‘fenomeno’ di tali dimensioni, non solo abbia il conforto di una stampa non sempre autorizzata o credibile e talvolta estremamente sensibile a mutamenti di rotta, ma goda di un appoggio e di un ossigeno ‘dichiarato’ e ‘codificato’.
“Poiché è certo che la volontà dell’on. Presidente non è condizionata da valutazioni men che trasparenti, ma è altrettanto certo che personalmente sono destinato a subire operazioni di sottile o brutale resistenza locale quando non di rigetto da parte dei famosi ‘palazzi’ poiché, da persona responsabile, non intendo in alcun modo deludere le aspettative del signor ministro dell’Interno e dello stesso governo presieduto da un esponente che ammiro e che voglio servire fino in fondo, vorrei pregarla di spendere – in questa importantissima fase non solo della mia vita di ‘fedele allo Stato’ – il contributo più qualificato e convinto, perché l’iniziativa non abbia a togliere a questa nuova prestazione né la componente di un’adesione serena né il crisma del sano entusiasmo di sempre: quello più responsabile. Con ogni e più viva considerazione. Suo generale Dalla Chiesa”.

RICHIESTE ELUSE
Nonostante le pressioni affinché il suo ruolo nella lotta alla mafia venisse “codificato”, Dalla Chiesa assunse l’incarico di prefetto di Palermo senza precise attribuzioni antimafia e in una situazione ambientale che, come da lui previsto, non agevolava certo il suo compito. In proposito il figlio Fernando ha riferito quanto segue:
«Nonostante le assicurazioni, mio padre, a un certo punto, si accorse che le promesse del governo non erano state mantenute, per cui cercò in tutti i modi di ottenere quei poteri di coordinamento necessari per impostare una seria lotta alla mafia; cercò, all’uopo, di contattare tutti gli esponenti politici di rilievo, ottenendo solo assicurazioni non seguite dalla concessione dei poteri. Mio padre, in proposito, mi espresse il suo convincimento che gli esponenti locali della Dc facevano pressioni perché non gli venissero concessi quei poteri indispensabili per la lotta alla mafia. Mi disse, in particolare, che fieri oppositori alla concessione di tali poteri erano gli andreottiani, i fanfaniani e parte della sinistra dc».

CIANCIMINO E LIMA
«Soggiunse che tale opposizione era dovuta al fatto che “vi erano dentro fino al collo”, ma non ricordo se si riferisse a tutte le predette correnti della Dc o solo ad alcune. Fra gli esponenti politici che, ad avviso di mio padre, erano maggiormente compromessi con la mafia, egli mi fece i nomi di Vito Ciancimino e di Salvo Lima; del resto, tale suo convincimento egli lo aveva già espresso alla Commissione antimafia. Mi disse che, della sinistra dc, il più freddo nei suoi confronti era il ministro Giovanni Marcora... Mi risulta, per aver assistito a una conversazione fra mio padre e il suo amico di Prata, che mio padre stesso intendeva assicurare la Dc e, per essa, il suo segretario politico Ciriaco De Mita, col quale avrebbe voluto incontrarsi, ma che questo doveva togliere, in Sicilia, le persone maggiormente compromesse, così consentendogli di svolgere una efficace lotta alla mafia. Ciò avvenne verso Ferragosto e mio padre, prima di andar via da Prata (verso il 24 agosto 1982), a mia domanda rispose che De Mita, pur essendo in villeggiatura nei pressi, non si era fatto sentire e mi sembrò piuttosto preoccupato».
«Anche l’onorevole Emanuele Macaluso [comunista, oggi direttore dell’Unità, ndr) ha riferito sulle resistenze che Dalla Chiesa incontrava in sede locale nell’espletamento del suo incarico. Pochi giorni pri ma del suo [di Dalla Chiesa, ndr] assassinio, fui informato da Michelangelo Russo [comunista, ex presidente dell’Assemblea regionale siciliana, ndf] che aveva avuto un incontro con Dalla Chiesa, il quale gli aveva espresso il suo convincimento della mancanza di volontà politica, da parte del governo, di esaudire le sue richieste. Secondo Dalla Chiesa, le maggiori resistenze all’ampliamento dei suoi poteri provenivano da dirigenti locali della Democrazia cristiana». E così pure un autorevole esponente governativo, Salvatore Formica, ministro delle Finanze ai tempi di Dalla Chiesa, ha confermato l’esistenza di “resistenze” nei confronti di quest’ultimo.
Si resta, dunque, perplessi quando l’onorevole Lima, escusso come teste, sostiene di avere appreso solo dalla stampa della nomina di Carlo Alberto Dalla Chiesa a prefetto di Palermo, escludendo di esserne stato informato da Mario D’Acquisto, allora presidente della Regione siciliana, a sua volta avvertito dal ministro dell’Interno, Virginio Rognoni.
E si resta ancora più perplessi quando l’onorevole Lima si esprime in questi termini: «La Dc isolana non ha in alcun modo contribuito alla nomina di Carlo Alberto Dalla Chiesa a prefetto di Palermo e si è limitata a prendere atto di tale nomina, decisa in sede di governo centrale, senza esprimere alcun plauso né alcuna perplessità rispetto a tale nomina. Nemmeno durante la polemica, agitata anche da Dalla Chiesa, sulla concessione dei poteri da lui ritenuti necessari per la lotta alla mafia, la Dc isolana ha preso ufficialmente posizione, in un senso o nell’altro, né mi consta che vi siano state iniziative al riguardo da parte di singoli esponenti del partito».
Si deve allora ritenere, se è vero quanto sostenuto da Lima, che l’appoggio incondizionato dato a Dalla Chiesa dall’onorevole D’Acquisto, da Rosario Nicoletti e dal sindaco pro tempore di Palermo, l’avvocato Nello Martellucci – secondo quanto dagli stessi appassionatamente sostenuto in istruttoria – fosse frutto di loro scelte e iniziative personali.
La nota intervista a Giorgio Bocca, pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 10 agosto 1982, rientra – appunto – nella strategia di Dalla Chiesa volta a sensibilizzare sul problema l’opinione pubblica affinché il governo lo ponesse in condizione di potere svolgere efficacemente il suo compito.
E, al riguardo, Giorgio Bocca, sentito come teste, ha riferito: «Durante il nostro colloquio ebbi la netta sensazione che si sentisse isolato e molto inquieto per le continue intimidazioni di natura mafiosa che riceveva anche da parte di esponenti politici locali. Nel corso dell’intervista, parlò telefonicamente con persone a me ignote, ma che credo fossero autorità locali; notai che il prefetto si lamentava con esse che, dietro a un ossequio formale, non vi fosse una reale volontà di collaborare con lui... Egli, in realtà, si mostrava deluso da Spadolini e Rognoni, i quali ancora, nonostante le promesse, non gli avevano dato i necessari poteri per una seria lotta alla mafia...».
«Dalla Chiesa mi prospettò, come unico sistema per contenere il fenomeno mafioso, la sensibilizzazione dell’opinione pubblica, per creare una coscienza collettiva antimafia. Mi confidò, altresì, le sue riserve nei confronti della classe politica e burocratica siciliana, da lui ritenute in gran parte coinvolte nel fenomeno».
Nonostante le assicurazioni e le pubbliche affermazioni di stima del ministro Rognoni, le cose non andavano per il verso giusto, se Carlo Alberto Dalla Chiesa, proprio il 3 settembre 1982, prima di lasciare la prefettura per andare al suo appuntamento con la morte, firmava una accorata lettera riservata, diretta al gabinetto del ministero dell’Interno.
Fu il suo ultimo atto come prefetto di Palermo.

Nerio Minuzzo – L’Europeo 1986 n.47

I CAVALIERI DI CATANIA–
[L’Europeo 1985 n. 48]

Una delle affermazioni più ricorrenti, specie nell’immediatezza del suo assassinio, era che Dalla Chiesa avesse una visione sorpassata e rudimentale del fenomeno mafioso e che – tutto sommato – nulla avesse ancora fatto a livello operativo dal suo arrivo a Palermo.
Da quanto si è finora detto emerge, invece, che le sue conoscenze erano aggiornate e che la strategia che intendeva attuare era adeguata; aveva ben presenti sia i legami della mafia con alcuni settori del potere politico e imprenditoriale sia le dimensioni attuali delle organizzazioni mafiose operanti in Italia e all’estero. Ed era fermamente convinto che se i legami della mafia con il potere politico e con certa imprenditorialità non fossero stati recisi, qualunque tentativo di debellare la mafia sarebbe stato vano. In questa direzione egli aveva già cominciato a lavorare.
Nel corso di un’intervista concessa il 10 agosto 1982, aveva detto testualmente: «Oggi mi colpisce il policentrismo della mafia anche in Sicilia e questa è davvero una svolta storica. È finita la mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo».
Il suo capo di gabinetto, Roberto Sorge, ha dichiarato che, fin dai primi tempi, Dalla Chiesa aveva un ben preciso convincimento sui quattro maggiori imprenditori catanesi: «Nel giugno 1982, il prefetto cominciò a espormi la sua convinzione che l’ingresso di imprenditori catanesi nel Palermitano era dovuto a collusioni con l’ambiente mafioso».
Non è dato sapere da quale fonte Dalla Chiesa attingesse le sue conoscenze sulla mafia catanese, rivelatesi sorprendentemente conformi alla realtà, solo adesso, a conclusione della defatigante e complessa istruttoria del procedimento penale. Certo è che allora, quando anche gli addetti ai lavori si ostinavano a ritenere che a “Catania la mafia non esiste”, quelle affermazioni risultavano dirompenti.

LE IMPRESE EDILI DI CATANIA
È verosimile che Dalla Chiesa, se non fosse stato ucciso, avrebbe concentrato la sua azione proprio in quella direzione. E difatti, circa un mese dopo il suo insediamento, il 2 giugno 1982, richiedeva al prefetto di Catania, in via del tutto riservata, un profilo informativo sui titolari delle imprese Graci e Costanzo, sui loro prossimi congiunti e sulle loro attività economiche.
Nella risposta il prefetto di Catania elencava le numerose imprese dei due imprenditori catanesi; riferiva del coinvolgimento di Graci nella nota vicenda del finto sequestro di Michele Sindona e del rapporto di lavoro fra il defunto Giuseppe Calderone e la ditta Costanzo, escludendo, però, qualsiasi rapporto di “connivenza delittuosa” fra il Calderone e i Costanzo, e sostenendo che la ditta Costanzo, oggetto di mire aggressive da parte della malavita catanese per il suo ingente patrimonio, si appoggiava al Calderone, ex imprenditore edile, per garantirsi il tranquillo svolgimento della propria attività imprenditoriale. Nessun accenno veniva fatto a Nitto Santapaola, denunciato, alcuni giorni prima, per la strage della circonvallazione di Palermo: deve dedursi, quindi, che il prefetto di Catania ne ignorasse i rapporti coi Costanzo.
Fra le carte d’ufficio di Dalla Chiesa, poi, è stato rinvenuto un appunto, molto interessante, che dimostra quanto bene egli fosse informato sui rapporti fra Palermo e Catania.
La sortita di Dalla Chiesa sugli imprenditori catanesi e sull’asse mafioso Palermo-Catania, quindi, era tutt’altro che una mossa avventata.
La risposta dei cavalieri del lavoro catanesi non si è fatta attendere; Mario Rendo, in particolare, esternò la sua amarezza per essere stato sospettato, ingiustamente, di collusioni con ambienti mafiosi. Inoltre, il 13 agosto 1982, il presidente della Regione siciliana, Mario D’Acquisto, inviò a Dalla Chiesa la seguente lettera:
“Nell’intervista da Lei rilasciata al giornale la Repubblica, si legge quanto segue: «Con il consenso della mafia palermitana le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo». La circostanza mi pare assai grave e abbisognevole di attento approfondimento. La prego quindi di comunicarmi ogni precisazione ed elemento che possa servire a suffragarla o meno, al fine di trarne le necessarie conseguenze per l’attività di questa pubblica amministrazione. Non le sarà peraltro sfuggito quanto pubblicato da l’Unità il 13 agosto scorso, a firma del suo direttore on. Emanuele Macaluso, che di seguito le trascrivo: «Il prefetto di Palermo ha aggiunto che alcune grandi società edilizie catanesi (quattro, ha precisato) hanno ottenuto appalti a Palermo grazie a un patto scellerato stretto con la mafia palermitana. Bene. Ecco un fatto preciso. Il prefetto dica quali sono le ditte, quali lavori hanno ottenuto, come li hanno ottenuti, chi le ha favorite. Non è difficile, per il prefetto, fare accertamenti e chiarire le cose. Su questo, come su altri punti, non si può restare nel generico, nel detto e non detto. Occorre dare degli esempi colpendo i responsabili». Cordiali saluti. Suo Mario D’Acquisto”.
La lettera non ha mai ricevuto risposta.
La netta posizione assunta da Dalla Chiesa nei confronti della questione catanese ha reso comunque doveroso l’approfondimento dell’istruttoria circa l’esistenza di collusioni tra mafia catanese e mondo politico e imprenditoriale.
Tutto questo per accertare se l’omicidio di Dalla Chiesa, voluto dalla mafia, fosse stato agevolato dalle resistenze locali alla sua attività, o addirittura ispirato dai portatori di interessi che sarebbero stati da lui “toccati e compressi”.
L’istruttoria è tuttora in corso. Tuttavia, già adesso si può sostenere che le affermazioni di Dalla Chiesa sembrano tutt’altro che destituite di fondamento. Ma circa la “contiguità” di settori del mondo politico e industriale con il gruppo mafioso di Nitto Santapaola, c’è ben altro da mettere in rilievo. Nel corso delle indagini sugli omicidi di Romeo Rosario e del maresciallo Alfredo Agosta, avvenuti a Catania il 18 marzo 1982, vennero trovati nel negozio di abbigliamento Scimar, di pertinenza di Rosario, due album fotografici.
All’interno, c’erano soprattutto foto dell’inaugurazione del negozio. In un’immagine raffigurante dei commensali seduti attorno a un tavolo di un ristorante si riconoscono, fra gli altri, Nitto Santapaola, Romeo Rosario, Raimondo Bordonaro, Filippo Placido Aiello e l’onorevole Salvatore Lo Turco, del Psdi, componente dell’Assemblea regionale siciliana, qui seduto accanto a Santapaola col braccio destro familiarmente poggiato sulla sua spalla. Si comincia così a intuire perché il Santapaola non abbia avuto problemi con le autorità a Catania, almeno fino a quando non ha causato il massacro di tre carabinieri e di un civile. Santapaola, infatti, era riuscito a ottenere il 4 agosto 1979 una licenza di porto di fucile, e il 5 dicembre 1981 (quando, cioè, infuriava la falda contro Ferlito) il rilascio del passaporto.
Addirittura, Santapaola aveva avuto la licenza di porto di fucile esibendo un certificato del casellario giudiziale dal quale risultava immune da precedenti penali, benché il 24 giugno 1959 avesse già riportato una condanna per furto; mentre aveva ottenuto il rilascio del passaporto previo nullaosta della competente autorità giudiziaria, pur essendo pendente a suo carico un procedimento penale per contrabbando di sigarette.
Non ci si meraviglia, dunque, quando si scopre che la moglie, Carmela Caminiti, e i figli di Santapaola erano alloggiati in una palazzina del complesso turistico la Perla Jonica, che faceva capo al gruppo Costanzo, dal 22 giugno al 31 dicembre 1982, quando, cioè, Santapaola era ricercato.
Né Santapaola intratteneva ottimi rapporti solo coi Costanzo. È emerso dall’istruttoria, ed è stato confermato da Filippo Placido Aiello, genero di Gaetano Graci, che anche le imprese del gruppo Graci acquistavano le auto per i cantieri presso la Pam-car e che Santapaola, appassionato cacciatore (si ricordino le telefonate fra Carmelo Colletti e Antonio Ferro in cui si accenna al Santapaola, indicandolo come “il cacciatore”), andava a caccia nella riserva di Gaetano Graci.

Franco Bordieri – L’Europeo 1985 n. 48

VUOTI DI POTERE–
[L’Europeo 1992 n.38]

Uccidendo Carlo Alberto Dalla Chiesa forse la mafia ha dato allo Stato repubblicano il suo fin qui unico eroe. È certo che la gente ha sentito istintivamente la figura del generale-prefetto ucciso, e la natura di questa morte, come qualcosa di diverso dalla figura e dalla morte dei tanti altri, caduti per mano delle organizzazioni criminali e terroristiche. A cominciare, nonostante la fine mille volte più atroce, da Aldo Moro. In Moro dominò sino all’ultimo una vocazione totale a discutere, a mediare, la vocazione per eccellenza del politico democratico. Invece per gli eroi è determinante essere agitati alla fine da un solo demone: il demone dell’inimicizia assoluta e della fedeltà all’idealizzazione simbolica di sé medesimi.
Se una cosa si capiva, era che Dalla Chiesa di nemici assoluti ne aveva: erano i nemici dello Stato italiano e delle sue leggi. Dello Stato non si fidava, ha scritto Giorgio Bocca: probabilmente è vero, ma semmai è una conferma. Gli eroi, nelle storie, presagiscono sempre l’amarezza del tradimento che spesso li attende, come altrettanto spesso sanno in fondo all’animo di combattere per una causa persa. E dunque, se la morte ha lasciato addosso a Dalla Chiesa in qualche modo le stimmate dell’eroismo, è perché la gente ha riconosciuto in quella morte i segni di una disperata impotenza e di una vana fedeltà.
Ha riconosciuto cioè che egli fu, in ultimo, un Cavaliere del Nulla. Egli si muoveva nel nulla e dietro le spalle aveva il nulla. A lui, uomo dello Stato, toccò di vivere nel sistema dei partiti e del politicantismo, cui nulla lo univa.
Che cosa c’era in comune tra il senso dell’organizzazione e dell’efficienza, la volontà nel perseguimento dello scopo, l’informalità antiburocratica di Dalla Chiesa e lo Stato italiano dei ministeri e dei segretari di federazione?
Esibizionismo pericoloso, tutti ripetono ora. Bisognerebbe chiederlo a chi ha dato l’ordine di ucciderlo: forse anche le sue scorribande da solo tra la folla di Palermo con quell’ordine c’entrano qualcosa.
Quel che è certo è che gli altri, i politici politicanti, di paura devono averne ben poca. In questi giorni li abbiamo potuti vedere e ascoltare a sazietà, persone come Nello Martellucci, Mario D’Acquisto e compagnia bella, con la loro reticenza a pronunciare perfino la parola mafia.
Si direbbe che Dalla Chiesa venisse proprio dal nulla, da un mondo che chi osserva la realtà italiana di oggi neppure riesce più a scorgere. Il mondo di una borghesia antica e fedele ai valori, appartata e attiva di cui il generale prefetto faceva spiritualmente parte a tutto tondo; certo, poi c’erano Roma, il governo, gli intrighi, ma lì in qualche modo era il suo vero retroterra. E lì è anche il retroterra di un pezzo non trascurabile dell’Italia sommersa.
Ebbene, questa Italia spiritualmente non fa parte dello Stato repubblicano. Uomini come Dalla Chiesa, come l’avvocato Giorgio Ambrosoli, come l’ingegner Giuseppe Taliercio, veri uomini dello Stato e della nazione, non sono uomini di questo Stato repubblicano. Si possono incontrare con esso, qualche volta si sono incontrati, ma per riceverne in cambio delusioni cocenti o, peggio, una scarica di pallottole.
Costituisce una vera tragedia per lo Stato italiano privo com’esso è di una vera classe dirigente, il fatto che questi uomini non siano stati messi in grado di amalgamarsi effettivamente con la compagine repubblicana e quindi di perpetuare al suo interno una tradizione ideale, che pur con i suoi limiti è tra le poche degne del Paese.
Quando essa si sarà esaurita, a chi chiederà la Repubblica di servire e di morire per lo Stato?

Ernesto Galli della Loggia – L’Europeo 1992 n.38