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 2015  febbraio 05 Giovedì calendario

LA GUERRA NEL CERVELLO


Attendo all’interno del bunker assieme alla squadra artificieri, le orecchie ben tappate con le dita. Fuori, l’ordigno numero 52, con i suoi sei metri di miccia detonante a strisce gialle e verdi, è fissato alla parete di un casotto di compensato con la porta antincendio d’acciaio. Dopo un conto alla rovescia di cinque secondi, sento un pum soffocato e un tonfo sordo al centro del petto, la “firma” dell’onda d’urto. «Si sente quel tonfo», dice un artificiere. «A me è capitato di avvertirlo anche a centinaia di metri di distanza dall’esplosione».
Ed è proprio il mistero sugli effetti di quel tonfo che mi ha portato al poligono della Seconda guerra mondiale a sud-est di Denver, in Colorado, in cui oggi si studia l’uso controllato di esplosivi, una pratica comune nella guerra moderna per abbattere muri e porte nelle zone di combattimento. Ma l’obiettivo dei test è scoprire gli effetti di quel tonfo sordo sul cervello umano.
Secondo il Dipartimento della Difesa americano, tra il 2001 e il 2014 a circa 230 mila tra soldati e veterani è stato diagnosticato il cosiddetto MTBI, o trauma cranico lieve, quasi sempre come conseguenza di esplosioni. In verità è pressoché impossibile determinare il numero esatto delle vittime di questa patologia, per diversi motivi. In primo luogo, la varietà di sintomi: emicrania, convulsioni, disturbi motori, disturbi del sonno, vertigini, disturbi alla vista, ronzio alle orecchie, cambiamenti dell’umore e difficoltà cognitive, di memoria e di parola. In secondo luogo, la somiglianza con i sintomi del PTSD, il disturbo post-traumatico da stress. In terzo luogo, il fatto che nei primi anni delle campagne in Afghanistan e in Iraq l’esposizione alle esplosioni non era neppure presa in considerazione come causa di evento traumatico.
Pur trattandosi di una condizione molto diffusa, non abbiamo ancora trovato le risposte alle domande più importanti sull’MTBI. Non solo non disponiamo di strumenti diagnostici affidabili, ma non siamo in grado di prevenirlo né di curarlo. Soprattutto, non c’è consenso unanime nella comunità medica sulla natura della lesione indotta dalle esplosioni, o sul meccanismo attraverso il quale l’onda d’urto a esse legata danneggi il cervello.
BOOM sul campo, una singola esplosione genera una serie di effetti diversi pressoché simultanei, ognuno dei quali provoca danni specifici. L’accensione scatena una reazione chimica, un’istantanea espansione di gas che genera un fronte sferico di gas e aria che procede a una velocità superiore a quella del suono. L’onda d’urto che ne risulta avvolge tutti gli oggetti che incontra in una bolla di pressione statica. In questa breve fase – il primo effetto dell’esplosione – l’individuo non si muove. Segue un brusco calo della pressione che crea un vuoto. Arriva quindi il secondo effetto dello scoppio, una folata di vento supersonico che inonda il vuoto, riduce in frammenti gli oggetti che incontra e li scaglia lontano, trasformando i detriti in armi letali, proiettili penetranti ad alta velocità. Quel vento è a sua volta causa del terzo effetto dell’esplosione: scaglia per aria uomini e persino mezzi blindati di 13 tonnellate, scaraventandoli contro muri, rocce e ai bordi di strade sterrate. Il quarto effetto include tutto il resto, vale a dire incendi, sostanze ustionanti e polveri asfissianti.
Il mistero su cui vogliamo indagare si nasconde nel primo effetto dell’esplosione. Le teorie al riguardo sono diverse: sarà la penetrazione dell’onda d’urto negli orifizi del cranio (occhi, naso, orecchie e bocca) a provocare i danni? E se così fosse, come succede? Oppure è la pressione esterna esercitata sul torace che si trasmette attraverso i vasi sanguigni e il collo fino al cervello? O è la trasmissione delle onde d’urto dal cranio al cervello semiliquido che provoca un’embolia? Oppure la pressione deforma il cranio schiacciando il cervello? O magari il danno è causato dal suono dell’esplosione? O dal lampo di luce? La maggior parte dei soldati a cui è stato diagnosticato un danno neurologico da trauma esplosivo è stata anche scossa o scagliata lontano dall’onda d’urto. È quindi possibile anche che questo disturbo neurologico dei militari sia solo una forma particolare di commozione cerebrale.
I test eseguiti in Colorado nascono da un importante studio del 2008 condotto dalle forze armate americane sui breachers, ovvero i soldati specializzati nell’uso di esplosivi che da anni denunciano un’alta incidenza di sintomi neurologici. I soggetti di quello studio erano istruttori e allievi impegnati in un corso di addestramento sugli esplosivi di due settimane. A quanto pare, dopo le esplosioni più potenti i soldati coinvolti nella ricerca accusavano per giorni dolori sordi al torace e alla schiena, oltre a emicranie che si manifestavano “con dolori lancinanti che partivano dalla fronte per poi spostarsi alle tempie, dietro le orecchie e lungo la mascella”.
Aspetto ancora più significativo, i test neurologici e comportamentali effettuati prima e dopo il corso rilevavano “un leggero calo delle prestazioni negli istruttori”, che in genere sono esposti a un numero maggiore di esplosioni rispetto agli allievi. Ciò indica che l’esposizione ripetuta a esplosioni anche di bassa potenza – pur nel breve periodo di due settimane – può essere dannosa.
Prima di questo studio del 2008, molti esponenti dell’ambiente militare e medico trovavano difficile credere che le esplosioni potessero provocare danni significativi anche a distanza o con cariche a basso potenziale. «La nostra esperienza precedente risaliva alla Sindrome della Guerra del Golfo, ma in quel caso non abbiamo ottenuto grandi risultati nell’individuare le cause specifiche», spiega Christian Macedonia, un colonnello in pensione che è stato consulente medico del capo di stato maggiore congiunto. «So che può sembrare assurdo, ma all’epoca al Pentagono si discuteva, e in modo molto acceso, persino sull’esistenza del TBI da esplosione». Stando a un documento pubblicato nel 2008 da un centro di ricerca militare, i sintomi in questione sarebbero associati al disturbo post-traumatico da stress e la “preoccupazione teorica” riguardo agli effetti neurologici dell’esposizione alle esplosioni sarebbe sostanzialmente infondata.
Oggi, tuttavia, alcuni studiosi avanzano un’ipotesi diversa: il trauma cranico lieve può accrescere la vulnerabilità nei confronti di certi disturbi psicologici, e potrebbe essere responsabile dell’elevata incidenza di questi disturbi e persino dei suicidi tra i veterani. Molti neurologi insistono sull’uso di una terminologia più specifica per questo tipo di lesione, caratteristica delle guerre recenti, e preferiscono parlare di “trauma cranico da esplosione” o di “danno neurologico indotto da esplosione”. Tutti quelli con cui ho parlato, inoltre, dissentono sul qualificare il danno come “lieve”.

ALL’INTERNO DEL BUNKER aspettiamo che il fumo si diradi, poi ci avventuriamo nell’aria ancora calda. La porta dell’edificio è stata sventrata, il muro di fronte è ridotto in frantumi, le travi sono spezzate e lessatura è in gran parte danneggiata. I manometri che erano stati collocati all’altezza del torace e della testa di un ipotetico essere umano hanno registrato la pressione riflessa, rimbalzata contro angoli e pareti.
Shot 52 fa parte di una serie di test mirati allo studio del fenomeno della pressione riflessa su una superficie. Altri studi riguardano il tempo e la frequenza di esposizione all’esplosione, nonché il tipo di esplosione. A condurre l’analisi dei dati c’è Charles Needham, autorità mondiale nel campo della fisica delle esplosioni. Analizzando un grafico digitale, lo scienziato ha tracciato i picchi e i cali della pressione, che si sono susseguiti per cinque volte prima di stabilizzarsi. L’intera sequenza dura circa 65 millisecondi. Cento millisecondi è il tempo minimo di reazione a uno stimolo qualsiasi da parte di un essere umano; l’onda d’urto ha colpito i manometri sulle pareti in meno di cinque millisecondi. Come sottolinea Needham, «colpisce qualsiasi oggetto in qualsiasi punto di quella stanza».
Uomo dai modi paterni con capelli e barba bianchi, Needham è considerato un mago dell’arte oscura degli esplosivi. Laureato in fisica e astrofisica, è un esperto nel tracciare modelli di eventi esplosivi di qualsiasi genere e della dinamica della pressione riflessa. Parla con tono nostalgico dei «sonori boati» dei test sui grandi ordigni che si eseguivano in passato.
L’obiettivo di Needham è fornire ai Marines delle mappe che indichino le aree più sicure di un determinato tipo di struttura per ripararsi dalla pressione riflessa. La riflessione della pressione è determinata non solo dalla forma dello spazio (quadrato o rettangolare) e dall’altezza del soffitto, ma anche dalla collocazione dei montanti di una parete, dal numero e dalla posizione di porte e finestre, dalla presenza o meno di buchi, aperture, persino mobili. L’onda d’urto riflessa da una superficie rigida, sia essa di gesso o di acciaio, può essere più potente dell’onda originale (è risaputo che la pressione riflessa dal suolo a Hiroshima fu più potente dell’esplosione stessa). Gli angoli di una stanza – il punto in cui si andrebbe istintivamente a cercare riparo – sono particolarmente pericolosi, così come è rischioso essere il terzo uomo in una fila di soldati che portano scudi protettivi che – è dimostrato – riflettono anch’essi le onde d’urto. La pressione si riflette persino nello spazio tra l’elmetto e la testa del soldato. Ogni elemento del paesaggio, ogni gesto umano, ha un peso negli effetti di un evento esplosivo.
La conclusione dello studio del 2008 sottolineava la necessità di rivedere le distanze di sicurezza raccomandate. «Le misure indicate in quei manuali d’addestramento dovevano essere raddoppiate», spiega Needham riferendosi alle istruzioni fornite ai marines. Non a caso, i manuali sono stati cambiati nel 2012.

LO STUDIO DEGLI EFFETTI delle esplosioni nacque durante la Prima guerra mondiale, quando la causa primaria delle lesioni era – come nelle guerre in Iraq e in Afghanistan – l’onda d’urto, soprattutto causata da esplosioni di proiettili d’artiglieria. L’espressione shell shock (trauma da bombardamento) apparve per la prima volta nel febbraio 1915 in un articolo della rivista Lancet in cui si esaminavano i casi di tre soldati britannici esposti a esplosioni che soffrivano di insonnia, riduzione del campo visivo, nonché perdita dell’olfatto, dell’udito e della memoria. All’inizio si ritenne che i loro problemi fossero dovuti a una commozione cerebrale causata dall’onda d’urto. Secondo una teoria che andava per la maggiore l’onda d’urto raggiungeva il cervello attraverso il liquido cerebrospinale.
Ma con il proseguire della guerra, visto che molti soldati sembravano non accusare altri sintomi, la condizione fu attribuita a una debolezza nervosa. Il concetto di shell shock, che implicava un danno causato dall’esplosione dei proiettili, fu accantonato. La revisione della diagnosi ebbe conseguenze profonde: nei decenni successivi i soldati colpiti da trauma da bombardamento diventarono il simbolo dei danni emotivi inflitti dalla guerra e gli scienziati smisero di indagare sulla possibilità che il trauma potesse essere anche fisico. «All’epoca in cui frequentavo la facoltà di medicina, studiavamo lo shell shock della Prima guerra mondiale e la teoria che il cervello potesse essere danneggiato dalle onde d’urto come esempi dell’ignoranza della medicina di un secolo fa», racconta il colonnello Macedonia.
È possibile risalire alle cartelle mediche dei soldati affetti da shell shock negli anni Venti, Trenta, Quaranta e oltre spulciando negli archivi del British Ministry of Pension. I rapporti descrivono nei particolari la condizione di veterani sprofondati in uno stato di letargia, malinconia o confusione mentale, uomini che tremavano convulsamente agli angoli delle strade, impazzivano e avevano attacchi paranoici di rabbia. I miei genitori, cresciuti in Inghilterra, conoscevano uomini che si diceva fossero diventati «strambi dopo la guerra». Questi rapporti costituiscono i migliori dati disponibili sulla prognosi a lungo termine dei veterani traumatizzati dalle esplosioni.
Dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1951, la Commissione per l’energia atomica degli Stati Uniti creò il Blast Biology Program per sperimentare sugli animali esplosioni potenti che simulavano gli effetti delle esplosioni nucleari. Buoi, pecore, maiali, capre, cani, gatti, scimmie, ratti, criceti, conigli, topi e cavie furono sottoposti a vere esplosioni o collocati all’interno dei cosiddetti tubi da onda d’urto, vale a dire tubi in cui viene fatta esplodere l’aria pressurizzata. Questa simulazione in laboratorio, in cui sono assenti variabili quali il calore, i detriti, le ricadute radioattive e la pressione riflessa, genera un’onda d’urto “pura”. Nei primi anni Ottanta la ricerca si spostò dalle esplosioni nucleari agli esplosivi a basso potenziale caratteristici dei teatri di guerra moderni.

«LA MAGGIOR PARTE DELLE RICERCHE mediche sui danni da esplosione era centrata sugli effetti delle schegge o su quelli dei gas sugli organi interni. Ci si preoccupava soprattutto dei danni provocati a polmoni e intestino da un’esplosione termonucleare», racconta il tenente colonnello Kevin “Kit” Parker, docente di bioingegneria e fisica applicata a Harvard. «Non prendevamo mai in considerazione il cervello. Oggi il nemico ha sviluppato armi che colpiscono proprio il nostro punto debole sotto il profilo scientifico».
Parker, un uomo imponente con la testa rasata e la voce stentorea, è anche un ex ufficiale di fanteria dell’esercito che ha compiuto due missioni in Afghanistan e ha osservato e vissuto sulla propria pelle gli effetti delle esplosioni. «Vidi un lampo nel cielo e mi voltai verso le montagne dove si svolgeva la battaglia», racconta Parker ricordando quel giorno del gennaio 2003 in cui si trovava sulle colline di Kandahar e fu colpito dall’onda d’urto di un’esplosione lontana. «Sentii i miei organi interni sollevarsi e poi scendere di nuovo».
Ma, soprattutto, Parker si rese conto della varietà di ferite che un’esplosione può causare. «Quando scoppia una bomba è facile trascurare il soldato che si sente un po’ scombussolato rispetto a quello che era seduto accanto a lui e ha perso entrambe le gambe», afferma. «Ma probabilmente il soldato che ha riportato il trauma cerebrale sarà quello che avrà le conseguenze più gravi a lungo termine».
Nel 2005 Parker, che all’epoca si occupava di ingegneria dei tessuti cardiaci, rivolse la sua attenzione al danno neurologico indotto da esplosione. Cominciò con l’analizzare la classe di proteine – le integrine – che trasmettono le forze meccaniche alle cellule. Utilizzando pinzette magnetiche costruite appositamente e un dispositivo che somigliava a un martello pneumatico in miniatura per simulare il brusco stiramento e la compressione ad alta velocità provocati da un’esplosione, Parker “bombardò” dei neuroni di ratto ottenuti attraverso l’ingegneria genetica. Le integrine sulla superficie cellulare innescarono una serie di azioni che culminavano in una retrazione degli assoni, i prolungamenti del corpo cellulare di un neurone responsabili della conduzione dei segnali.

LA VARIETÀ DI TEORIE su cui sono attivamente impegnati i neurologi dimostra in modo eloquente quanto sia aperta la ricerca sul neurotrauma da esplosione. Lee Goldstein, della Boston University School of Medicine, ha affrontato il problema da una prospettiva diversa. «Gli studi si concentrano sull’onda d’urto», spiega. «Ma dietro c’è il vento dell’esplosione». La competenza di Goldstein è dimostrata dai suoi titoli: professore associato di psichiatria, neurologia, oftalmologia, patologia e medicina di laboratorio e ingegneria biomedica, digitale ed elettrica. A 52 anni, ha la corporatura asciutta, i capelli e la barba scuri e lunghi, e la determinazione di un profeta del deserto.
Nel maggio del 2012 ha pubblicato i risultati di studi centrati su una possibile associazione tra danno neurologico da trauma legato all’esplosione ed encefalopatia traumatica cronica (CTE), una patologia neurodegenerativa che lui e il suo team hanno osservato in sede di autopsia nel cervello di quattro veterani esposti a esplosioni. Gli studi erano stati condotti in collaborazione con Ann McKee, del Department of Veteran Affairs di Boston, che si era occupata della CTE riscontrata nei giocatori di football americano e in altri atleti. Nota sin dal 1928 come “sindrome da demenza pugilistica”, la CTE è associata agli atleti che subiscono traumi cranici ripetuti. Malattia incurabile e letale, la CTE causa disturbi cognitivi e demenza. Può essere diagnosticata solo in sede autoptica attraverso il riscontro delle anomalie di una proteina chiamata tau.
Per verificare l’ipotesi che l’esposizione alle esplosioni possa provocare la CTE, il team di Goldstein ha condotto esperimenti con i topi utilizzando un tubo da onda d’urto in cui venivano simulati gli effetti di un’esplosione di moderata potenza. I risultati sono stati registrati da videocamere ad alta velocità: le teste dei topi oscillavano rapidamente avanti e indietro. In 30 millisecondi, molto meno di un battito di ciglia, gli apparecchi hanno registrato nove oscillazioni (picchi e cadute) nella potenza dell’onda d’urto. «In realtà, nel corso di un’esplosione si viene colpiti diverse volte. Di conseguenza l’individuo incassa un sacco di colpi in un tempo molto breve», spiega Goldstein.
Due settimane dopo l’esplosione, il cervello dei topi mostrava un accumulo di proteina tau chimicamente modificata e altri danni. I detrattori di questa ricerca hanno però sottolineato che tre dei quattro casi umani da cui traeva ispirazione avevano subito altri traumi non collegati a esplosioni. I test condotti su manichini, inoltre, sembravano indicare che l’effetto oscillatorio della testa non fosse usuale sul campo.
Alcuni ricercatori ritengono che sia sbagliato concentrasi solo sulla testa. «Tutto il corpo è esposto a un’enorme forza cinetica», afferma Ibolja Cernak descrivendo l’impatto di un’esplosione. «Per gli atleti il discorso è diverso». Direttrice del programma di riabilitazione clinica di militari e veterani della University of Alberta, in Canada, Cernak ha iniziato le sue ricerche sui campi di battaglia del Kosovo, quando si accorse che soldati e civili esposti a esplosioni presentavano sintomi simili a quelli di certe malattie neurodegenerative. L’onda d’urto di una bomba colpisce il torace e l’addome «come un pugno fortissimo», afferma Cernak, e trasferisce l’energia cinetica al corpo. «L’energia cinetica genera onde di pressione nel sangue, che è un veicolo perfetto per propagarla a tutti gli organi, incluso il cervello».
Gli esperimenti che la studiosa ha condotto sui topi hanno mostrato che il cervello presentava un’infiammazione a prescindere dal fatto che la testa fosse stata protetta o meno al momento dell’esplosione. Un’infiammazione, sostiene Cernak, che avvia un processo dannoso simile a quello osservato nei malati di Alzheimer. La protezione del torace, invece, riduceva sensibilmente l’infiammazione al cervello, il che significherebbe che nel trauma cranico indotto da esplosione l’interazione tra onda d’urto e corpo svolge un ruolo cruciale.

ATTUALMENTE L’UNICO METODO affidabile per esaminare direttamente gli effetti biologici dell’onda d’urto sul cervello umano è l’autopsia. Nel 2013 il Dipartimento della difesa americano ha creato un istituto preposto alla conservazione dei tessuti cerebrali per studiare il trauma cranico indotto da esplosione nei militari. Diretto da Daniel Perl, docente di patologia presso la Uniformed Services University of the Health Sciences di Bethesda, nel Maryland, l’istituto custodisce i cervelli donati dalle famiglie dei militari deceduti. Grazie a ciò, sostiene Perl, i ricercatori possono «studiare i tessuti per capire che cosa accade realmente». Le risonanze magnetiche del cervello di un individuo ancora in vita, precisa lo studioso, sono mille volte meno definite rispetto a ciò che si può osservare al microscopio.
L’esperienza di Perl spazia dalle ricerche sulla CTE, l’Alzheimer e altre malattie neurodegenerative collegate all’età, agli studi su un unico gruppo di disturbi neurologici riscontrato in una piccola popolazione dell’isola di Guam (un mistero descritto da Oliver Sacks nel libro L’isola dei senza colore). Perl si è occupato anche dello shell shock e del suo rapporto con i moderni traumi cerebrali indotti da esplosioni, notando che malgrado l’uso degli esplosivi in guerra abbia un’origine molto antica non ci sono stati «studi di neuropatologia dettagliati sugli effetti dell’esposizione alle esplosioni sul cervello umano».
A 18 mesi dall’avvio dello studio dei tessuti cerebrali. Perl sostiene di essere arrivato a risultati interessanti. «Pensiamo di essere in procinto di individuare alterazioni specifiche del cervello dei soldati esposti a esplosioni che non si riscontrano nei danni cerebrali dei civili», spiega, riferendosi ai traumi da impatto subiti per esempio dagli atleti. «Ciò che stiamo osservando sembra essere caratteristico delle lesioni subite dai militari».
Se avesse ragione, la ricerca otterrebbe risultati importanti utili non solo per la cura ma anche per la diagnosi e la prevenzione del problema. «Credo che sarà necessario rivedere la progettazione di elmetti e indumenti protettivi, molti dei quali sono basati su presupposti del tutto diversi», conclude Perl.
Ma per i soldati ancora in vita non esistono ancora metodi sicuri di diagnosi. Nel giugno del 2011 il New England Journal of Medicine ha pubblicato i risultati di una ricerca che, per la prima volta, è riuscita a individuare anomalie strutturali nel cervello di soldati esposti a esplosioni utilizzando una forma avanzata di risonanza magnetica. Benché descritto come una svolta nell’editoriale che l’accompagnava, lo studio era inficiato dal fatto che tutti i partecipanti avessero subito anche altri traumi, ad esempio colpi da oggetti contundenti o incidenti con veicoli.
Alcune ricerche che indagano su eventuali possibili biomarcatori potrebbero dare risultati interessanti riguardo alla diagnosi: un esame ematico mirato alla ricerca di una particolare proteina indicativa di lesioni cerebrali si è dimostrato promettente ed è attualmente in fase di test all’interno delle forze armate statunitensi (è efficace solo se effettuato a pochi giorni dall’evento). Inoltre nel 2014 una piccola ricerca condotta su 52 veterani ha sfruttato con successo una tecnica di risonanza magnetica che esamina i livelli di mielina, principale componente della sostanza bianca, che finora era stata utilizzata per i malati di sclerosi multipla che presentano livelli ridotti di mielina, il rivestimento lipidico che protegge e isola i neuroni. Prove di lesioni alla sostanza bianca sono state individuate in 34 veterani esposti a una o più esplosioni.
«Abbiamo chiesto ai veterani di indicarci la loro migliore stima riguardo al numero di danni traumatici lievi collegati a esplosioni che potevano aver subito nel corso della loro carriera militare», spiega Eric Petrie, docente di psichiatria alla University of Washington e direttore della ricerca. «Ma fino a che punto i veterani possono ricordare con precisione questi eventi? Per alcuni dei partecipanti erano passati cinque o sei anni dall’ultima esposizione», aggiunge, sintetizzando così uno dei principali problemi degli studi diagnostici basati su dati riferiti dai soggetti stessi. In futuro, materiali cristallini fotonici che cambiano colore quando sono colpiti dalle onde d’urto, indossati come adesivi su elmetti e uniformi, potrebbero fornire misurazioni obiettive al riguardo.
Malgrado tutte queste nuove e promettenti strategie, oggi, come durante la Prima guerra mondiale, la diagnosi dipende dalla valutazione clinica, che adesso include test di valutazione neuropsicologica che si effettuano al computer: “Ha mai provato una delle seguenti sensazioni: sono stordito, sono confuso, ho visto le stelle? In che misura la parola “scosso” descrive la sua sensazione?”.

PER QUANTO COMPLESSA, un’esplosione può essere provocata con pochi soldi e competenze minime. Gli EFP (acronimo di Explosively Formed Penetrator, testate a proiettile autoforgiante) che vengono utilizzati contro i veicoli blindati possono essere fabbricati con pochi dollari. In pratica si tratta di ordigni esplosivi improvvisati (IED) la cui carica a forma di disco si trasforma in un getto incandescente di metallo fuso che colpisce l’obiettivo ad altissima velocità. Secondo un esperto di balistica, sono in grado di penetrare in un’auto corazzata come «una lama calda nel burro». In questo modo, una tecnologia che costa 25 dollari può distruggere un veicolo blindato del valore di milioni di dollari, uccidendo o ferendo gravemente i soldati che si trovano al suo interno. Il costo dell’assistenza medica – che può durare decenni – aggiunge una voce significativa a questa disparità economica. Considerando questo vantaggioso rapporto costi-benefici, è evidente che questo genere di esplosivo è destinato a rimanere un’arma caratteristica dei teatri di guerra moderni.
Oggi, mentre i ricercatori si sforzano di capire che cosa accade quando l’onda d’urto colpisce un cervello umano, un numero imprecisato di soldati continua a lottare con le conseguenze degli incidenti di cui è stato vittima.
BOOM. Robert Anetz era di pattuglia in Iraq nel 2009 quando sentì un’immensa pressione sul corpo. Poi si sentì completamente stordito. Tutto divenne confuso. «Tutti urlavano, “Stai bene? Stai bene? Controlla se perdi sangue”», racconta Anetz. Non aveva ferite visibili, così pensò di essere illeso. Ma sette mesi dopo essere tornato a casa ebbe un episodio convulsivo mentre guidava, e una crisi epilettica sei mesi dopo. Oggi tenta di ricostruirsi una vita come studente e vigile del fuoco volontario, da 15 farmaci al giorno è sceso a tre, ma il mal di testa e le emicranie non sono passati.
Enrique Trovino, che a 21 anni è sopravvissuto a un’imboscata notturna in Afghanistan due settimane prima del previsto rientro in patria, ricorda solo il bagliore accecante dell’esplosione e i compagni che urlavano il suo nome. «Non dimenticherò mai quella luce», dice. «Sembrava un lampo». Quando si risvegliò a Fort Hood, in Texas, scoprì che l’esplosione aveva distrutto i suoi occhiali per la visione notturna e lo aveva anche privato della capacità di parlare e della vista periferica. Adesso Enrique ha intrapreso un percorso di riabilitazione che include esercizi come contare all’indietro da 50, ma soffre di emicranie di giorno e di incubi la notte.
A un anno dal ritorno a casa, racconta Trevino, «sono crollato». Ed è scampato a un tentativo di suicidio. Un suo amico che aveva fatto una missione in Afghanistan, invece, si è tolto la vita. «Lo hanno trovato a casa sua», racconta Trevino. «Lui, lui... Nessuno poteva immaginarlo, nessuno poteva mai... Nessuno, no, nessuno ha capito. Nessuno l’aveva capito».
Nessuno l’aveva capito neppure nel caso di mio cognato Ron Haskins, il primo a parlarmi dei marines specializzati nell’uso di esplosivi. Dopo aver lasciato le forze speciali dell’esercito, Ron aveva lavorato con un’agenzia di sicurezza privata in Iraq. Era stato coinvolto in due attentati con IED in seguito ai quali soffriva di continui mal di testa e di un ronzio alle orecchie così forte da impedirgli di dormire. Tornato negli Stati Uniti aveva lavorato per il Dipartimento della sicurezza interna e teneva corsi di addestramento per marines organizzati dalla società di sicurezza di sua proprietà. Una sera d’estate del 2011, per ragioni che nessuno è stato in grado di immaginare, si è tolto la vita con una pistola.
«Dovresti venire nel New Mexico una volta, per vedere una bomba in azione», mi disse parlandomi del suo corso di addestramento. «Anche rimanendo a un chilometro di distanza, saresti sorpresa nel vedere quel che può fare un chilo di esplosivo».

Caroline Alexander è scrittrice, traduttrice e giornalista collaboratrice abituale di NG.