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 2015  febbraio 04 Mercoledì calendario

KOBANE, I GOL AI TEMPI DELLA GUERRA

«Certo che conosco le città italiane: Napoli, Roma, Juventus, Atalanta…». Non si può non sorridere di fronte a un’affermazione del genere, ma non si può neppure non costatare quanto il calcio sia davvero un linguaggio universale. Siamo a Kobane, in Siria, la città che l’Isis ha assediato da settembre e che da una settimana sappiamo essere stata liberata. Ho passato una settimana in questa città. A fine dicembre, in pieno assedio. Qui abitavano centomila persone, ma solo in 7 mila hanno scelto di rimanerci, fra cui mille bambini. Tutti gli altri sono fuggiti, hanno varcato il confine con la Turchia e raggiunto i campi profughi a Soruc. Qui tra le tante attività svolte non può mancare il calcio nel quale tanti cercano un barlume di felicità inseguendo un pallone. Per fare le porte, per delimitare il campo bastano un paio di maglioni e tanta fantasia.
A Kobane, di là del confine turco, il campo di calcio invece c’è. Vuoto, sempre. Situato a poche centinaia di metri da quella linea per nulla immaginaria che divide ciò che rimane della Siria con la Turchia, è un luogo troppo pericoloso per potere essere frequentato. Kobane si trova nel cantone siriano del Rojava. Qui l’Isis nell’ultimo anno ha compiuto massacri, svuotato villaggi, violentato e rapito donne. Neppure i bambini sono stati risparmiati. A Kobane la gente ha deciso di resistere, di imbracciare le armi e non darsi per vinta. Questa non è una città di guerriglieri ma ci si è dovuti adeguare per forza. Le scelte non erano molte: rifugiarsi in Turchia dove neppure la propria lingua si può parlare perché il curdo è fuori legge; lasciarsi sopraffare dalla brutalità dell’Isis o resistere e combattere. Si è scelta la terza via. Non tutti quelli che qui vivono sono in grado di imbracciare le armi. Ciò nonostante hanno deciso di non lasciare le proprie case, la propria vita. YPG e YPJ (Unità di protezione del popolo) non solo difendono la città ma organizzano attività che consentono a chi ancora qui vive di godere dei servizi base. La scuola non è un luogo protetto dove potere fare andare i più piccoli. Così ogni giorno si sceglie un luogo, al sicuro, dove si possono svolgere le attività didattiche.
È proprio assistendo alla sfilata di questi piccoli coraggiosi studenti che si scatena un’accesa partita di pallone che neppure i combattenti riescono a fermare. Salutandoli scoprono che sono italiano. Il loro insegnante mi chiede del mio Paese, del calcio e del campionato. Di lì la sua frase che a me pare divertente. Da terra raccolgo un pezzo di gommapiuma, di sferica forma. Non saprei bene descrivere cosa sia, ma sembra un pallone. La strada è abbastanza pulita perché la parte sicura della città è mantenuta come quando la guerra non c’era. Lo calcio verso di loro e comincia così il «derby» di Kobane. In strada, con quaderni a fare da porta, lo straccio funge da pallone. Un guerrigliero con del nastro adesivo fa in modo che somigli sempre più a una sfera. Bambini e bambine formano due squadre miste. Qualcuno degli adulti mugugna, preoccupato che possa succedere qualcosa ai piccoli che, a quel punto, a fare i compiti non ci pensano più. Saranno circa 10 minuti, un quarto d’ora di combattutissimo match. Ci sono anche dei gol e si esulta come a un Mondiale. È grande la gioia che si legge negli occhi di questi bambini. Anche loro sono forti, a modo loro; non solo resistono ma rispondono a terrore e preoccupazione con la forza che solo il pallone può dare. Non dura molto perché anche gli adulti si buttano nella mischia. Si contesta per un rigore non concesso. Garip assicura di essere stato spinto ma c’è chi mima il gesto del tuffo. Mehmed ha solo 7 anni ma si batte come un leone. C’è una bambina che è velocissima, Tulip. Se un giorno si potrà tornare a giocare in quel campo vuoto, quando la guerra finirà, Tulip s’involerà palla al piede. E chissà chi saprà fermarla.