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 2015  febbraio 03 Martedì calendario

IL PALLONE PIU’ AUSTRALE

Il Sud – sì, con la «s» maiu­scola – come un vero e proprio stile di vita. Orgo­glio, fie­rezza, cica­trici: il punto cardinale da cui sono par­tite un’infinità di sto­rie e su cui si fonda tutto ciò che riserva il pre­sente. E lo si può ben dire quando si parla di Ushuaia, la città più australe del pia­neta, in quell’Argentina mai così troppo pro­fonda da ricol­le­garsi comun­que all’Italia.
Una cit­ta­dina che oggi conta circa 57mila abi­tanti la cui sto­ria è stata scritta, nel 1948 da una spe­di­zione di oltre 613 ita­liani, per lo più bolo­gnesi (ma c’erano anche veneti e friu­lani) par­titi sulla nave «Genova» dal capo­luogo ligure e sbar­cati da que­ste parti il 28 otto­bre di quell’anno dopo 32 giorni di tra­ver­sata sotto la guida di Carlo Bor­sari, impren­di­tore edile e mobi­liere, che a quei tempi si aggiu­dicò uno di quei tanti appalti pen­sati dal governo di Bue­nos Aires per lo svi­luppo indu­striale argen­tino. Di appalti se ne aggiu­di­ca­rono tanti, tan­tis­simi gli ita­liani. Bor­sari arrivò più a sud di tutti, in una landa deso­lata e senza un vero per­ché, buona solo, fino a quel tempo, per costruirci un grosso car­cere (chiuso pro­prio nel 1947). Il fascino pae­sag­gi­stico della Terra del Fuoco, l’amore per le bel­lezze natu­rali… Tutti con­cetti (ri)scoperti con la modernità.
Al governo argen­tino di Peron inte­res­sava (ri)costruire quella città, popo­larla, far fio­rire eco­no­mi­ca­mente quelle lande e, gra­zie a que­gli ita­liani di buona volontà, ci riuscì.

Una spe­di­zione leggendaria
Nell’immediato dopo­guerra dello Sti­vale, con le città distrutte e un’economia da far ripar­tire da sot­to­zero, la scelta di andar­sene — anche dall’altro capo del pia­neta — rien­trava nella nor­ma­lità. Quella a Ushuaia fu, a ben vedere, la spe­di­zione più leg­gen­da­ria, avven­tu­rosa, ma che diede i suoi frutti.
D’altra parte le basi erano solide: Bor­sari, infatti, si pre­murò di por­tarsi appresso – oltre a tutto il mate­riale da costru­zione appo­si­ta­mente smon­tato — anche un par­roco e un’insegnante per i bambini.
E se prima «el Fin del Mundo» met­teva i bri­vidi, ora è un con­cetto che riem­pie d’orgoglio gli abi­tanti di que­ste parti, tanto da diven­tare pra­ti­ca­mente un brand turi­stico e com­mer­ciale. Qui tutto gira attorno al fatto che la civiltà fini­sca in que­sta cit­ta­dina, poi, se si vuole pro­se­guire col Pia­neta Terra, si deve essere pro­fondi appas­sio­nati di Antar­tide. C’è il Museo de la Fin del Mundo, le inse­gne degli eser­cizi com­mer­ciali ripe­tono la Fin del Mundo come un man­tra. E c’è la squa­dra di cal­cio di Ushuaia, se mai ce ne fosse ancora il biso­gno, a riba­dirlo: Los Cuer­vos del Fin del Mundo.
Il Los Cuer­vos è una società affi­liata al San Lorenzo de Alma­gro, cam­pioni d’Argentina e squa­dra del cuore di Padre Ber­go­glio, che – nean­che a farlo appo­sta – si auto­di­chiarò «Papa pescato alla fine del mondo». Da bravi con­so­ciati, anche i Los Cuer­vos vesto il ros­so­blù, come il San Lorenzo e, non a caso, come il Bolo­gna. Nell’archivio foto­gra­fico della fami­glia Bor­sari, spicca una pagina di una rivi­sta anni ’50, in cui si inneg­giava a una squa­dra di ita­liani che domi­nava nella «Tierra del Fuego» e che si fre­giava di indos­sare i colori del Bolo­gna, della squa­dra che tre­mare il mondo faceva, figu­ria­moci poi alla «fine»…
«Qui a Ushuaia molte cose ricor­dano l’Italia – spiega il difen­sore ven­ti­no­venne dei Los Cuer­vos Mar­celo «Chelo» San­chez -, i negozi di pasta fre­sca, le inse­gne in lin­gua, il fatto che impaz­ziamo per i sughi… Le tra­di­zioni sono rima­ste, la gente che ricorda le pro­prie ori­gini anche, come in tanti punti dell’Argentina. Forse da que­ste parti ancora di più…».

Cam­pioni sistematici
I Los Cuer­vos sono il punto di rife­ri­mento del cal­cio distret­tuale di Ushuaia, di cui si lau­reano cam­pioni in carica (così come avve­nuto di recente) con una certa siste­ma­ti­cità: inu­tile met­tersi a spie­gare il sistema gerar­chico del cal­cio argen­tino (il più com­plesso al mondo), basti sapere che ci tro­viamo al sesto livello della pira­mide: «E quindi non c’è spa­zio per gli sti­pendi, nem­meno per i pic­coli com­pensi ai gio­ca­tori – pro­se­gue «Chelo», che si lascia andare alla pro­ver­biale filo­so­fia spor­tiva argen­tina -. La mia vita gira attorno alla fami­glia e al mio impiego in tri­bu­nale qui in città. Il cal­cio resta puro diver­ti­mento: sono in una squa­dra com­po­sta essen­zial­mente da ragazzi molto gio­vani. L’umiltà però non deve mai man­care e a quelli che cre­dono che la mia espe­rienza sia un grande aiuto, fac­cio notare che il col­let­tivo è tutto e che siamo tutti, allo stesso modo, pic­coli gra­nelli di sab­bia di una grande spiaggia».
Di giorno in tri­bu­nale, di sera sul campo di alle­na­mento. La cor­nice è quella di un pae­sag­gio incon­ta­mi­nato, unico nel suo genere: «…Dove le mon­ta­gne inne­vate striz­zano l’occhio all’oceano – descrive con orgo­glio Mar­celo –. Qui è tutto mera­vi­glioso: ora è estate e ci sono 17 ore di luce al giorno, l’aria è tra le più pulite al mondo. In più la città è tran­quilla, per strada non si corre alcun tipo di peri­colo: i nostri bam­bini pos­sono gio­care indi­stur­bati per ora all’aria aperta. Certo, non è tutto rose e fiori…».
Già, non solo per­ché, dopo le estati abba­glianti (in cui, comun­que, non si arriva mai a supe­rare i 15–17 gradi di mas­sima), seguono inverni con poca luce natu­rale a dispo­si­zione e dai pae­saggi inne­vati (anche se mai tre­men­da­mente ghiac­ciati), un po’ come quelli che si scor­gono in alcuni fram­menti del film Diari della moto­ci­cletta: «Qui i pro­blemi più grossi sono legati agli spo­sta­menti – pro­se­gue Chelo – Dall’Isola Grande della Terra del Fuoco, dov’è situata Ushuaia, è dif­fi­cile andar­sene. Le distanze col “mondo nor­male” sono dav­vero note­voli e uscire da que­sta terra, per quanto bella e appa­gante, è costosissimo».
«A Ushuaia comun­que c’è quanto di più com­pleto una per­sona dai più vasti oriz­zonti possa desi­de­rare – chiosa il difen­sore argen­tino -, l’incrocio di cul­ture e men­ta­lità è cer­ta­mente inte­res­sante: la città venne fon­data come luogo in cui i car­ce­rati avreb­bero potuto tra­sfe­rirsi per rico­min­ciare una nuova vita. Poi arri­va­rono gli stra­nieri, molti dei quali ita­liani, che a più riprese si mesco­la­rono con gli ori­gi­nari della Terra del Fuoco e, col tempo, si è creato un mel­tin’ pot di ampio respiro».

Un popolo di costruttori
Tor­nando alla vicenda tri­co­lore, alla spe­di­zione del ’48 ne seguì un’altra nel mese di ago­sto dell’anno suc­ces­sivo, che porto a quota 1300 pre­senze ita­liane a Ushuaia di cui costi­tui­vano il 40% della popo­la­zione totale. In molti tor­na­rono dopo due anni di duro lavoro (anche se remu­ne­ra­tivo poi­ché riu­sci­vano a man­te­nere i fami­gliari rima­sti in Ita­lia), altri rima­sero dando seguito alle nuove gene­ra­zioni in Argen­tina. Fatto sta che gli ita­liani costrui­rono, all’epoca, 140 case pre­fab­bri­cate, 170 in mat­toni (tut­tora esi­stenti), la cen­trale idroe­let­trica (attiva fino al 1981) e l’ospedale.
La vicenda delle migra­zioni generò anche un’interrogazione par­la­men­tare per pre­sunto sfrut­ta­mento, archi­viata però una volta appu­rato che le con­di­zioni di trat­ta­mento degli ope­rai erano buone.
E al porto che ospitò la nave «Genova», il più impor­tante dalle parti dello Stretto di Magel­lano, lavora come sti­va­tore il por­tiere dei Los Cuer­vos, Fede­rico Romero, o «El Loco», come viene sim­pa­ti­ca­mente sopran­no­mi­nato: «Io sono di Rosa­rio e vivo a Ushuaia da cin­que anni – spiega –. Di que­sta cit­ta­dina mi sono inna­mo­rato subito e ho deciso di restare. I pae­saggi che si tro­vano qui non esi­stono da nessun’altra parte al mondo: sem­bra di essere in alta mon­ta­gna, ma allo stesso tempo c’è l’oceano. Certo la vita al porto è dura e le dif­fi­coltà più dure arri­vano d’inverno: se la neve cade abbon­dante, non ci si può più muo­vere, restiamo tutti bloc­cati qui. Ma, in fondo, non è poi la fine del mondo». O forse sì…