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 2015  febbraio 03 Martedì calendario

LA VITA IMPOSSIBILE DEI TESTIMONI

È una sorte amara quella dell’imprenditore di Alta­mura, Fran­ce­sco Di Palo, che venerdì scorso ha ten­tato di darsi fuoco dinanzi al palazzo della Pre­fet­tura di Monza. Un gesto esa­spe­rato dalla lati­tanza e inef­fi­cienza di uno Stato che non ha saputo pro­teg­gere un cit­ta­dino corag­gioso e la sua fami­glia. Di Palo è, infatti, un testi­mone di giu­sti­zia, recen­te­mente escluso, insieme ai suoi fami­liari, dal rela­tivo pro­gramma di pro­te­zione, nono­stante con­ti­nui a denun­ciare gravi minacce e ritorsioni.
Di Palo era tito­lare della Venere srl di Matera, società che pro­du­ceva vasche idro­mas­sag­gio, dichia­rata fal­lita un anno prima che l’imprenditore deci­desse di col­la­bo­rare con la magi­stra­tura locale denun­ciando i soprusi subiti dalla mafia mur­giana. L’imprenditore durante la sua atti­vità è stato più volte avvi­ci­nato da mafiosi locali per estor­cer­gli denaro in cam­bio di una pre­sunta sicu­rezza sociale e impren­di­to­riale. Da lì la deci­sione di denun­ciare i suoi aguzzini.
Le sue dichia­ra­zioni rila­sciate alla Dda di Bari por­ta­rono al rin­vio a giu­di­zio di nume­rosi mafiosi, tra i quali gli affi­liati al clan Dam­bro­sio di Alta­mura, impren­di­tori com­pia­centi, espo­nenti delle forze dell’ordine, pro­fes­sio­ni­sti, poli­tici e ammi­ni­stra­tori pub­blici accu­sati a vario titolo di asso­cia­zione mafiosa, omi­cidi, occul­ta­mento di cada­vere, deten­zione ille­gale di armi da guerra e rela­tive muni­zioni, estor­sione, usura, deten­zione e spac­cio di sostanze stu­pe­fa­centi. Sem­pre dalle sue denunce si svi­lup­pa­rono altri filoni di inda­gine che con­sen­ti­rono al Tri­bu­nale di Lecce di rin­viare a giu­di­zio circa venti per­sone accu­sati di aver agito ancora in favore del boss Bar­to­lo­meo Dam­bro­sio e dei suoi affi­liati. Dopo le denunce e i pro­cessi Di Palo non ha più avuto vita facile e le pro­messe fat­te­gli sono eva­po­rate come acqua al sole. Un uomo lasciato solo dallo Stato, costretto a minac­ciare e infine a com­piere atti estremi con lo scopo di atti­rare l’attenzione sul suo caso.
Pur­troppo non si tratta di un caso iso­lato. Sono molti i testi­moni di giu­sti­zia, come Igna­zio Cutrò, Piera Aiello, Lea Garo­falo, Pino Masciari e sua moglie Marisa Salerno, figure chiave in decine di pro­cessi, a ritro­varsi soli, abban­do­nati dallo Stato.
I testi­moni di giu­sti­zia in Ita­lia sono 85, la mag­gior parte tra i 26 e i 60 anni. Nel pro­gramma di pro­te­zione del Vimi­nale ci sono anche 253 loro fami­liari, di cui 103 hanno tra 0 e 18 anni. Fami­glie che vivono disagi con­ti­nui e che denun­ciano, anche mediante la loro asso­cia­zione, le molte pro­messe man­cate da parte di tutti i governi, quello Renzi com­preso. Già nel feb­braio 2014 molti di loro pro­te­sta­rono davanti la sede del mini­stero dell’Interno. Anche in quel caso pro­messe e grandi illu­sioni. Poi il silenzio.
In Ita­lia la sorte di que­ste fami­glie è dav­vero appesa a un filo. I vuoti nor­ma­tivi sono enormi e l’inefficienza della buro­cra­zia li espone a con­ti­nue fru­stra­zioni e peri­coli. La loro sorte è for­mal­mente decisa dalla Com­mis­sione cen­trale, ma gestita dal Ser­vi­zio cen­trale di pro­te­zione del mini­stero dell’Interno (che gesti­sce anche i col­la­bo­ra­tori di giu­sti­zia), al quale sono stati tolti 25 milioni di euro, nono­stante il suo bilan­cio fosse stato già risa­nato e razio­na­liz­zato. Un colpo duris­simo per chi si occupa di lotta alle mafie. Il taglio è la con­se­guenza della varia­zione di bilan­cio col­le­gata alla legge di sta­bi­lità del governo Renzi.
Una pos­si­bile svolta che avrebbe aiu­tato i testi­moni a rico­struirsi una vita era rap­pre­sen­tata dalla legge dell’ottobre del 2013 che pre­ve­deva il diritto alla loro assun­zione nella Pub­blica ammi­ni­stra­zione. Una norma anche in que­sto caso inef­fi­cace. Manca infatti il rela­tivo decreto attua­tivo, fir­mato dai mini­stri Alfano e Madia prima dell’ultimo Natale, ma non ancora pubblicato.
La situa­zione diventa, se pos­si­bile, ancora più grave per i testi­moni di giu­sti­zia sot­to­po­sti al pro­gramma spe­ciale in loca­lità segreta. I loro “docu­menti di coper­tura” ado­pe­rati per nascon­derne a fini di tutela l’identità, non hanno alcun valore legale costrin­gendo le per­sone a com­por­ta­menti spesso con­trad­dit­tori. Ciò vale per qua­lun­que loro atti­vità, obbli­gati a vivere in un limbo fatto di assurde complicazioni.
L’apoteosi è stata rag­giunta nel mag­gio del 2014 con il vice mini­stro dell’Interno Bub­bico, il quale in pompa magna annun­ciò la reda­zione di una “Carta dei Diritti” dei Testi­moni di giu­sti­zia, di cui ad oggi, a quasi un anno di distanza dall’impegno pub­blico, non c’è traccia.
E in Sici­lia? Le cose non vanno meglio. La rela­tiva legge regio­nale, che pre­vede un per­corso più effi­cace per l’assunzione dei testi­moni di giu­sti­zia nella Pub­blica ammi­ni­stra­zione, avendo pre­vi­sto risorse eco­no­mi­che ad esso dedi­cate, ad oggi non è ope­ra­tiva e nes­suno dei testi­moni (che sono la mag­gio­ranza del totale) ha potuto sinora fir­mare un solo contratto.
La Com­mis­sione Anti­ma­fia, attra­verso il V Comi­tato coor­di­nato da Davide Mat­tiello, ha con­dotto un’accurata inchie­sta e pro­dotto una rela­zione, appro­vata all’unanimità, pre­lu­dio a una pro­po­sta di legge di riforma. Un pos­si­bile riscatto, a patto di un soste­gno poli­tico ampio e determinato.
Chi rischia in prima per­sona, deve poter con­tare sullo Stato. Non si può chie­dere ai cit­ta­dini di denun­ciare boss, affi­liati e cri­mi­nali, e poi lasciarli soli. Forse aveva ragione De Andrè, quando in Don Raffè can­tava «prima pagina venti noti­zie, ven­tuno ingiu­sti­zie e lo Stato che fa. Si costerna, s’indigna, s’impegna poi getta la spu­gna con gran dignità». A Bub­bico, Alfano e Renzi deci­dere se cam­biare musica o con­ti­nuare con la reto­rica dello Stato anti-mafia.