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 2015  febbraio 04 Mercoledì calendario

GLI ESODATI DI GAZA

Amr e Ahmed, 29 e 34 anni, si sve­gliano alle prime luci del giorno. Ed escono in strada poco dopo. Il primo con una vec­chia auto­mo­bile va alla ricerca di oggetti di metallo o di pla­stica che potreb­bero essere rici­clati. Il secondo lava tazze e bic­chieri nel minu­scolo caffè di pro­prietà di uno zio della moglie, a Tel el Hawa, a Gaza city. Entrambi non por­tano a casa più di 500 she­kel al mese, circa 100 euro, ed entrambi fino ad un anno fa erano dipen­denti del governo del pre­mier di Hamas, Ismail Haniyeh. Per Amr e Ahmed la ricon­ci­lia­zione tra l’Anp di Ramal­lah e il movi­mento isla­mico a Gaza dopo la gioia ini­ziale si è rive­lata deva­stante. Sono senza sti­pen­dio da quando, lo scorso giu­gno, è stato for­mato il governo di con­senso nazio­nale pale­sti­nese ed è stato sciolto l’esecutivo di Haniyeh. Nelle stesse con­di­zioni si tro­vano tra 40 e 50 mila abi­tanti di Gaza, “eso­dati” pale­sti­nesi lasciati al loro destino, assieme alle fami­glie, da un governo che non è mai real­mente entrato in carica e che non ha mai esteso alla Stri­scia la sua autorità.

«Ero impie­gato al mini­stero della sanità, la vita non è mai stata facile per­chè lo sti­pen­dio non arri­vava mai pun­tuale – rac­conta Ahmed – però sapevo che pre­sto o tardi quei soldi me li avreb­bero dati. Non tanti, 1500 she­kel (circa 300 euro, ndr) ma almeno potevo assi­cu­rare il pane ai miei figli». Soldi che varie parti arabe e isla­mi­che dona­vano al governo di Hamas, Qatar in testa. Poi quell’aiuto è sen­si­bil­mente dimi­nuito, sotto l’urto delle alleanze bal­le­rine in Medio Oriente e del colpo di stato in Egitto che ha iso­lato Gaza. Amr ha una sto­ria simile a quella di Ahmed. Pochi mesi fa faceva parte nella segre­te­ria di un uffi­cio peri­fe­rico del mini­stero dell’interno. Oggi passa ore ed ore a rovi­stare tra cumuli di detriti. «Ma non nelle rovine delle case (pri­vate) distrutte da Israele, lì solo coloro che ci vive­vano hanno il diritto di recu­pe­rare qual­cosa», ci tiene a pre­ci­sare Amr, ricor­dando il rispetto per coloro che hanno perso tutto, spesso anche la vita, nei bom­bar­da­menti israe­liani della scorsa estate su Gaza.

La con­di­zione a dir poco pre­ca­ria di que­ste decine di migliaia di ex dipen­denti pub­blici abban­do­nati dal nuovo governo, è uno dei motivi di mag­giore ten­sione tra Hamas e l’Anp a Ramal­lah. Il movi­mento isla­mico lan­cia accuse pesanti all’esecutivo del pre­mier Rami Ham­dal­lah, che a Gaza è stato sol­tanto una volta e per poche ore. «Trovo assurdo che l’Autorità nazio­nale pale­sti­nese da quasi 8 anni con­ti­nui a pagare lo sti­pen­dio a oltre 20mila dipen­denti pub­blici (dell’esecutivo pre­ce­dente alla presa del potere di Hamas nella Stri­scia nel 2007, ndr) ai quali chiede di non lavo­rare e allo stesso tempo neghi il sala­rio a chi invece lavo­rava e vor­rebbe con­ti­nuare a farlo», ci dice Mah­moud Zahar, uno dei fon­da­tori di Hamas ed ex mini­stro degli esteri, acco­glien­doci nel suo uffi­cio a Gaza city. «Ham­dal­lah e (il pre­si­dente) Abu Mazen – aggiunge — trat­tano que­sti lavo­ra­tori di Gaza rima­sti senza alcun red­dito come se fos­sero mili­tanti di Hamas e non come dei sem­plici cit­ta­dini impie­gati nei ser­vizi pub­blici. Eppure stiamo par­lando di padri di fami­glia, spesso di gio­vani appena spo­sati, di essere umani». Ritorna, irri­solta, la que­stione dei cosid­detti “Day­ton” (dal cognome del gene­rale Usa Keith Day­ton che tra il 2005 e il 2010 super­vi­sionò l’addestramento delle forze di sicu­rezza dell’Anp). A Gaza iden­ti­fi­cano così le migliaia di dipen­denti pub­blici ai quali Abu Mazen e l’allora pre­mier dell’Anp Salam Fayyad ordi­na­rono di ces­sare ogni atti­vità lavo­ra­tiva all’indomani della presa del potere di Hamas. Da allora tutti i mesi, o almeno quelli in cui da Ramal­lah rie­scono a man­dare i fondi alla Pale­stine Bank di Gaza, migliaia di pale­sti­nesi che, uffi­cial­mente, non lavo­rano da quasi 8 anni rice­vono lo sti­pen­dio men­tre altre decine di migliaia impie­gati fino a pochi mesi fa sono diven­tati invi­si­bili, come se non esistessero.

È un para­dosso che aggrava la con­di­zione di Gaza, rapi­da­mente dimen­ti­cata dal mondo, come con ogni pro­ba­bi­lità aveva pre­vi­sto il governo israe­liano al ter­mine dell’offensiva “Mar­gine Pro­tet­tivo” della scorsa estate. 2200 morti pale­sti­nesi, 11 mila feriti, 96 mila case in mace­rie. Vite umane e distru­zioni che non inte­res­sano più a nes­suno, a comin­ciare dai “fra­telli arabi” e dalle demo­cra­ti­che nazioni occi­den­tali. Le pro­messe di aiuto fatte lo scorso otto­bre alla con­fe­renza del Cairo — 5,4 miliardi di dol­lari — non sono state man­te­nute. L’Unrwa, l’agenzia che assi­ste i pro­fu­ghi pale­sti­nesi, che atten­deva una por­zione impor­tante di que­sti fondi per garan­tire gli aiuti uma­ni­tari e la rico­stru­zione, ha già ter­mi­nato i 77 milioni di dol­lari che ini­zial­mente aveva avuto a dispo­si­zione per aiu­tare 66mila fami­glie a ripa­rare le loro case dan­neg­giate. «Nelle nostre casse non ci sono più fondi. Decine di migliaia di pale­sti­nesi non hanno un tetto e noi non pos­siamo assi­sterli. Erano stati assi­cu­rati 5,4 miliardi dol­lari alla con­fe­renza del Cairo ma pra­ti­ca­mente nulla ha rag­giunto Gaza sino ad oggi. Que­sto è dolo­roso e inac­cet­ta­bile», ha avver­tito un por­ta­voce dell’Unrwa. La rico­stru­zione non è mai comin­ciata e la vita di 100 mila sfol­lati pale­sti­nesi resta un inferno, anche per la man­canza di ener­gia. Occor­re­ranno ancora mesi per poter rimet­tere in fun­zione l’unica cen­trale della Stri­scia col­pita dall’esercito israe­liano. Al momento la mag­gior parte della gente di Gaza ha elet­tri­cità per non più di 4–5 ore al giorno. E nelle scorse set­ti­mane il freddo ha ucciso almeno tre bam­bini e un adulto.

Le Nazioni Unite peral­tro fanno i conti con l’asfissiante sistema di con­trolli che hanno aval­lato per garan­tire l’ingresso dei mate­riali a Gaza sulla base delle restri­zioni det­tate da Israele. Da set­tem­bre a oggi rari con­vo­gli di auto­carri cari­chi di cemento hanno fatto ingresso nella Stri­scia. E la man­canza dei mate­riali non potrà certo essere risolta con il sosti­tuto del cemento che ha ideato l’ingegnere Imad al Kha­lidi di Gaza, anche per abbat­tere i costi. Un sacco di cemento, quando dispo­ni­bile, costa 150 ske­kel (34 euro), quello ideato da al Kha­lidi – di fatto il ter­reno stesso della Stri­scia con potas­sio, magne­sio, ossidi metal­lici, cal­care e sab­bia, più calce maci­nata e una pic­cola quan­tità di gesso — 27 she­kel (6 euro). Pochi però si fidano di que­sti “mat­toni orga­nici”, come li chiama l’inventore.

A Gaza di fatto non girano più soldi. E’ fermo quasi tutto dalla scorsa estate. I pochi appa­rati pro­dut­tivi esi­stenti sono stati distrutti o dan­neg­giati in gran parte dagli attac­chi aerei e dall’artiglieria israe­liana. E rimet­terli in moto non sarà impresa facile. “Mar­gine Pro­dut­tivo” ha tra­sci­nato l’economia pale­sti­nese in reces­sione per la prima volta dal 2006. Men­tre nel 2014 la Cisgior­da­nia ha visto un’espansione del 4,5%, Gaza al con­tra­rio ha fatto segnare un –15%, secondo gli ultimi dati del Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale. Nel 2015 si pre­vede una lieve ripresa ma molto dipen­derà dalla capa­cità dell’Anp di potere ver­sare gli sti­pendi ai suoi dipen­denti e, natu­ral­mente, anche agli “eso­dati” di Gaza. E se in Cisgior­da­nia la disoc­cu­pa­zione uffi­ciale si aggi­rerà intorno al 19%, nella Stri­scia sarà del 41%, tenendo ben pre­sente che la per­cen­tuale reale di chi non ha un lavoro è molto più alta.

In que­sto con­te­sto i più deboli – ossia le donne e i bam­bini già tra le vit­time prin­ci­pali della guerra — sono tra i più espo­sti alla pre­ca­rietà estrema. A comin­ciare dalle vedove, donne rima­ste sole a pren­dersi cura dei figli, spesso pic­coli. Per molte di esse, senza soldi e senza casa, l’unica solu­zione è seguire la tra­di­zione, ossia spo­sare un fra­tello o un cugino del marito ucciso dai bom­bar­da­menti. Ibti­san, 22 anni di Shu­jayea, il sob­borgo orien­tale di Gaza city mar­tel­lato per set­ti­mane dalle forze armate israe­liane, vive con i due figli super­stiti e il padre anziano tra le mace­rie, in ciò che resta della casa dove hanno tro­vato la morte il marito e un figlio di 8 anni. «Has­san e Tareq (il marito e il figlio,ndr) non fecero in tempo a lasciare la casa quando comin­cia­rono a cadere le bombe» ricorda la gio­vane donna «abbiamo vis­suto per set­ti­mane in una scuola, ora siamo tor­nati qui, nella nostra casa, anche se è in parte distrutta. La notte con mio padre e i bam­bini andiamo ancora in quella scuola, per ripa­rarci dal freddo». Nel futuro di Ibti­sam c’è una sola cer­tezza, un’unica garan­zia. «Spo­serò mio cognato» ci dice «ha già una moglie ma si è detto dispo­sto ad acco­gliermi assieme ai bam­bini e a mio padre. Per me è la salvezza».