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 2015  febbraio 01 Domenica calendario

22 NO PER DIVENTARE LEMAITRE

«Irène» riceveva solo rifiuti, la moglie insisteva «Uomini bassi, madri cattive: narro la mia vita»
«Si sbagliano», disse con calma Pascaline al ventiduesimo rifiuto consecutivo. Era stata lei, lettrice severa e da poco moglie di Pierre Lemaitre, a convincere il marito a mettersi le copie nello zaino e a fare il giro di tutti gli editori parigini per consegnare il manoscritto di Irène , la prima opera letteraria di un insegnante 56enne. Pascaline aveva ragione e Pierre lo ricorda adesso con grande soddisfazione, più o meno dieci anni dopo, seduto in un ristorante di Montmartre: lo scrittore tardivo e inizialmente rifiutato ha vinto il premio Goncourt 2013 con Ci rivediamo lassù , è tradotto in 30 lingue, i primi romanzi polizieschi della «trilogia Verhoeven» vengono ristampati ovunque, dalla Spagna alla Corea agli Stati Uniti e ora in Italia, per Mondadori, a cominciare appunto da Irène .
Tutto merito di sua moglie.
«È stata una vicenda molto curiosa. Io e Pascaline ci siamo incontrati nel 2000, viviamo insieme dal 2004 e dunque nel 2005-2006 siamo una coppia appena formata. Io scrivevo ma sapevo che lei era un’ottima lettrice e non avevo alcuna voglia di rovinarmi l’immagine: amante affascinante, marito piacevole, ma scrittore di m... Però un giorno mi sono fatto coraggio e le ho dato da leggere il manoscritto quasi finito di Irène . Lei mi dice “questo libro merita di essere pubblicato”, mi incoraggia a sottoporlo agli editori. Ricevo 22 lettere di rifiuto. Quando è arrivata l’ultima ero depresso, ma Pascaline dice tranquilla “non preoccuparti, si sbagliano”. Otto giorni dopo uno dei 22 (Éditions du Masque, ndr ) mi telefona: “Ci siamo sbagliati”, e decide di pubblicarmi».
Quali conclusioni ne ha tratto sull’editoria?
«Niente di negativo, un po’ perché quando le cose finiscono bene non si ha voglia di portare rancore, e poi perché la versione iniziale era troppo lunga, 600 pagine invece delle 350 attuali, c’erano piste che non portavano da nessuna parte, insomma mancava davvero un editore. Al posto loro forse anche io avrei rifiutato».
«Irène» è un poliziesco che è anche un grande omaggio alla letteratura. Senza rivelare troppo della trama, lei alla fine del libro ringrazia tra gli altri Bret Easton Ellis, James Ellroy, lo scozzese William McIlvanney e gli svedesi Sjowall e Wahloo.
«Non solo, all’inizio metto in epigrafe una citazione da Roland Barthes: “Lo scrittore è qualcuno che assembla le citazioni eliminando le virgolette”. Per me è importante questa idea che in fondo tutte le storie sono già state raccontate. La frase di Barthes vuole dire anche un’altra cosa: quando si scrive, siamo degli intermediari tra tutto quello che abbiamo ricevuto e la nuova opera. Il tipo di cui faccio il ritratto è un ragazzo che ho incontrato in metropolitana otto anni prima, magari non me lo ricordo consapevolmente ma insomma neppure me lo invento di sana pianta. Io non credo nell’immaginazione. Sono contento di averlo dichiarato sin dalla prima pagina del mio primo romanzo, perché da allora non ho più cambiato idea. Irène è un atto di fede letterario».
Le scene del crimine sono molto forti, truculente. Perché questa scelta?
«Per prima cosa, io faccio quel che so fare. È così che lavoro. Ma c’è anche un’altra ragione. Il lettore ormai è diventato un esperto, la tv, le serie americane gli hanno insegnato come si raccontano delle storie, la gente è super allenata e abituata a una grandissima qualità. E allora non si può esitare. Sei tenuto a essere spettacolare, ad andarci giù pesante. Altrimenti il lettore dice “ho appena visto Breaking Bad , e mi danno da leggere Agatha Christie, che strazio”».
Con questo primo romanzo lei presenta al pubblico il personaggio di Camille Verhoeven, poliziotto atipico: perché è alto solo un metro e 40, e perché non è alcolizzato né divorziato, anzi adora la moglie, Irène.
«È vero, il mio protagonista è diverso dal cliché del poliziotto che porta sulle spalle il peso del mondo. Volevo allontanarmi dallo stereotipo, sapevo che cosa non volevo fare, ma che cosa fare invece? Non sono andato a cercare troppo lontano. Mio padre era un uomo molto basso. Ho sofferto molto di avere un padre anormale, ma mio padre è stato il grande uomo della mia vita, anche in questo momento non posso parlare di lui senza commuovermi. Il libro è dedicato a Pascaline e a lui, che non c’è più da tempo. Quanto al carattere del protagonista Camille, è piuttosto il mio. Volevo un uomo in collera, come me. Io sono molto veemente, vede come parlo...».
Ma lei con chi è in collera?
«Con il mondo intero, da sempre. Non so perché. Forse anche questo deriva dalla faccenda di mio padre, una collera contro il suo destino e anche contro il mio, avere avuto un padre con quel problema. È complicato. Un’altra cosa importante è che in tutto il mio lavoro c’è sempre una madre cattiva. Camille è così piccolo perché sua madre fumava senza controllo durante la gravidanza. Anche in Ci rivediamo lassù Albert ha una madre cattivissima. In questo libro ci sono molte cose che vengono dalla mia vita».
Signor Lemaitre, perché un giorno si è convinto a mettersi a scrivere?
«L’età. Ho insegnato la letteratura agli adulti per tanto tempo, sono un lettore abbastanza esperto, e quando si è letto Tolstoj, Dumas o Proust bisogna essere degli incoscienti per dire “voglio provarci anch’io”. E io invece sono sempre stato piuttosto lucido e modesto, quindi per tanto tempo ho pensato che non era proprio il caso. Poi, con l’età, ho cominciato a dirmi “ma insomma in fondo perché no”, e quindi mi sono buttato. Poi c’è questa Pascaline che arriva e cambia la situazione, e poi la novità del piacere che provo a scrivere. Non ho niente da dire sul mondo, non ho un messaggio ideologico, ho il mio universo, i miei valori, non sono un uomo di destra, non avanzo mascherato, ma non ho un’interpretazione dell’esistenza da offrire... Scrivo semplicemente perché raccontare storie mi dà una gioia immensa. È un piacere infantile. Gli scrittori e gli sceneggiatori in fondo sono dei bambini che giocano a “tu eri lo sceriffo”, “e se facessimo accadere questo o quello...”. Scrivere mi ha ringiovanito, mi ha reso felice. Mi sono detto che ne avevo diritto».
Quindi all’inizio è stato il «pantheon» a frenarla.
«Mia madre, grande ossessiva, faceva la collezione dei Livre de Poche , i tascabili. A metà degli anni Cinquanta le persone hanno un po’ più di tempo e di soldi, il livello di vita si alza, si comprano gli elettrodomestici, e i tascabili diventano fondamentali per le persone che vogliono acculturarsi. Un romanzo ogni 15 giorni, una specie di messa per la generazione dei miei genitori tra proletariato e piccola borghesia. Quando anche i miei romanzi sono stati pubblicati nei Livre de Poche ho partecipato a riunioni editoriali nelle quali dicevo “potete pure lavorare in questa maison , ma qui dentro solo io posso citarvi i primi cento libri della collezione senza fare un errore”. Li sfidavo e vincevo sempre. Comunque, i miei genitori glorificavano la letteratura, gli scrittori erano come delle divinità, diverse da noi comuni mortali. I miei speravano per me un futuro da quadro superiore, non certo da scrittore. Alla loro morte, io sono entrato in un’altra fase dalla mia vita, più libera».
E ha vinto il Goncourt.
«Una cosa stravagante. Cominci a pubblicare a 56 anni, 7 anni dopo vinci il più importante premio letterario francese, tutti i tuoi libri sono venduti per il cinema. Ho avuto davvero molto fortuna».
Lei è davvero troppo modesto.
«No, non è falsa modestia, penso di essere stato bravo a cogliere l’occasione che passava, ho scritto il romanzo di avventure, ambientato nella Prima guerra mondiale, che tutti in quel momento avevano voglia di leggere».
Trova che «Ci rivediamo lassù» e i polizieschi appartengano a due anime diverse?
«No, direi di no. Anche Ci rivediamo lassù è fabbricato con false piste, colpi di scena, suspense, indizi: ci sono tutti gli ingredienti del poliziesco. La cassetta degli attrezzi di tutti i miei romanzi è sempre la stessa. Sono sempre lo stesso scrittore».