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 2015  febbraio 01 Domenica calendario

RENZI, IL DIARIO DEL COLLE: “COSÌ HO GIOCATO LA PARTITA PIÙ DIFFICILE”

«Ti ringrazio di averci creduto. Ora ti passo una persona...». L’applauso in aula è appena scattato. Sergio Mattarella è il nuovo presidente della Repubblica. Lo spoglio delle ultime schede prosegue. Nella sala del presidente del consiglio, di fianco all’emiciclo, però, Matteo Renzi non vuole aspettare. Lo chiama subito. Un saluto. Una battuta («ora puoi anche non essere prudente») e poi gli auguri si trasformano in una sorta di conference call istituzionale. Il cellulare infatti va nelle mani di Giorgio Napolitano. Che idealmente gli passa il testimone.
Ecco, l’ultimo round della partita per il Quirinale è questo. Il match è stato lungo. Lo start risale a 16 giorni fa, alle dimissioni di Napolitano del 14 gennaio. E nella stanza al primo piano di Montecitorio il leader Pd ne rievoca i passaggi fondamentali.
Quando la prima chiama ha inizio, con lui ci sono i vertici del partito: da Orfini, alla Boschi, da Speranza a Zanda, da Lotti a Guerini. Quasi tutti entrano e si siedono nei tre divani sistemati alla sinistra del salottino. Il premier è dietro la scrivania. Davanti uno schermo che trasmette i lavori dell’assemblea, di lato l’orologio a pendolo dell’800 che segna qualche minuto di ritardo. Dietro la scrivania un quadro del ‘600: natura morta con un cocomero aperto in due da un coltello. Al centro dei tre divani un tavolino basso. Verso le 13 arriva un vassoio con grissini e prosciutto crudo.
Renzi si alza spesso in piedi, cammina avanti e indietro. «Ve l’avevo detto — ripete a ogni piè sospinto alla delegazione che ha condotto le trattative in questi giorni — ve l’avevo detto che la strategia fondamentale si fondava sull’unità del Pd. Ora abbiamo una responsabilità pazzesca. Anziché passare il tempo a farci le pulci, dobbiamo sapere che possiamo fare un salto avanti enorme. Magari anche con qualche compromesso come sui temi etici o sulla riforma della pubblica amministrazione. Noi siamo l’infrastruttura fondamentale del sistema repubblicano ». Ma prima che si arrivasse all’accordo, il negoziato più di una volta ha rischiato di saltare. Gli incontri segreti e pubblici sono stati una specie di montagna russa. «Se penso a come eravamo messi male lunedì, mi vengono i brividi... ».
LUNEDÌ26
«Vi ricordate? — chiede il segretario democratico ai suoi — Lunedì scorso eravamo incartati. Non riuscivamo a prendere una decisione. Quelli insistevano per Amato e Casini, noi non avevamo in campo Mattarella. In molti spingevano per altri. Poteva starci tutto. Ma fortunatamente la progressione delle trattative è andata avanti a imbuto. Quando il canale si è stretto, tutti gli altri sono stati bloccati dal setaccio».
La prima telefonata con il candidato prescelto arriva proprio quel giorno. I due non si conoscevano. Il contatto è stato mediato da un ministro e da Graziano Delrio. Le prime parole, le garanzie del premier. Il giudice costituzionale ascolta. Non chiede nulla. La conversazione si è chiusa con un «risentiamoci». La giornata invece è terminata con una telefonata a Bersani.
MARTEDÌ 27
Nella saletta di Montecitorio Renzi continua a scandire le tappe del negoziato. I capigruppo Speranza e Zanda, il presidente del partito Orfini e i due vicesegretari sono ancora nella sala della presidenza del consiglio. Aspettano la chiama per andare a votare (ad eccezione della Serracchiani che non è parlamentare). «La giornata di svolta — ricorda — è stata quella di martedì». Il capo del governo prima vede Pierluigi Bersani a Palazzo Chigi, poi Silvio Berlusconi. «Ho detto a Pierluigi: io vorrei partire dal nostro interno. Vorrei un candidato nostro. Il mio nome è Mattarella». L’ex segretario dem dà l’ok. Ma aggiunge: «Io ci sto. Sergio era il mio candidato nel 2013. Ma se serve, io ci sto anche su Amato». «Ma su Mattarella — risponde Renzi — è più semplice portare tutto il partito».
Il faccia a faccia con il Cavaliere, invece, si mette subito su un terreno sdrucciolevole. La tensione si alza. Il presidente del consiglio avanza la carta dell’ex ministro della Difesa. «Sai Silvio, è un ex dc, un moderato. A voi andrebbe benissimo». Il capo forzista perde la pazienza. E poi fa una battuta che l’inquilino di Palazzo Chigi considera quasi una minaccia. «Ma c’è Amato. Ho già parlato con D’Alema. Mi ha chiamato lui, ormai ci diamo del tu. Mi ha detto che su Amato ci stanno tutti. Vedi? La minoranza del tuo partito, te la porto io...». «D’Alema? E che c’entra lui? Il segretario sono io. Mi dispiace per te e per D’Alema ma il candidato è Mattarella».
MERCOLEDÌ 28
Nella sala da cui il premier ora segue lo spoglio delle schede, escono un po’ tutti. Restano solo il ministro della Giustizia Orlando e il sottosegretario Delrio. A sorpresa, però, entra il presidente emerito Napolitano. Renzi lascia la poltrona dietro la scrivania e la cede all’ex capo dello Stato. Si siede sul divano («ho le gambe appesantite, stamattina ho fatto jogging») e prosegue a sfogliare l’agenda della settimana trascorsa. Mercoledì mattina ha visto in gran segreto proprio Mattarella. In una sede riservata del governo. «Ti chiedo la disponibilità a usare il tuo nome. Credo ci siano le condizioni perché tu venga eletto. Ma ti chiedo la disponibilità non solo per il quarto scrutinio. Anche per il quinto e per il sesto e così via. Perché deve essere chiaro che dopo Mattarella, c’è solo Mattarella ». «Sono onorato — è la sua risposta — e a vostra disposizione. Se poi riterrete che non ci sono più le condizioni, io mi farò da parte». Lo stesso atteggiamento — notano a PalazzoChigi — adottato da Napolitano nel 2006.
GIOVEDÌ 29
Nella stanza a Montecitorio rientra il ministro Boschi e il capogruppo al Senato Zanda. «All’assemblea di giovedì — riprende il presidente del consiglio a sfogliare il suo diario — ho capito che era fatta». Un incontro con Rosy Bindi che non trattiene l’emozione e soprattutto il colloquio con Giuliano Amato. Quello più difficile. «Tu saresti un ottimo presidente della Repubblica — gli spiega il premier — ma a mio giudizio non ci sono le condizioni per la tua elezione». L’ex premier è seccato. Non gradisce la versione del suo interlocutore. «Io invece — replica con decisione — penso di potercela fare. Anzi ne sono sicuro. E comunque non mi disturba tanto l’idea di non affrontare questo impegno, quanto l’immagine che viene data di me e il fatto che miei amici non mi stiano difendendo».
VENERDÌ 30
Nel salottino di Montecitorio rientra il sottosegretario Lotti. Squilla il cellulare del premier. Poi riprende il filo del discorso. I ricordi vanno alla sera precedente. La tensione è ai massimi livelli. Nella maggioranza tutto rischia di precipitare. L’Ncd di Alfano non ci sta. «Così — protesta il ministro dell’Interno — si spacca tutto. Non ho niente contro Sergio. Figurati che il mio primo comizio l’ho fatto per lui. Ma il metodo...». Il capo del governo è secco: «Non hai colto la fase. Non farti imbrigliare da chi nel tuo partito vuole fare il sindaco di Milano. Dovresti essere tu il primo a buttarti a pesce su Mattarella. Tu devi sciogliere il nodo: devi decidere con chi stai. Tanto si vota nel 2018, ma fai la tua scelta. Non puoi rimanere nel guado». I centristi fibrillano. Telefonata con Casini. In nottata la partita si chiude. Con un’ultima telefonata tra Angelino e Berlusconi.
«La verità — prosegue nel racconto il presidente del consiglio — è che con Mattarella abbiamo compiuto un’operazione che assegna al Pd una sorta di “stato di grazia”. Dobbiamo mantenerlo per i prossimi anni. Sicuramente per i prossimi tre». In tv la presidente della Camera Boldrini proclama l’elezione. «Al Nazareno — insiste — stanno arrivando decine di lettere di nostri militanti entusiasti. Con altri candidati tutto questo non sarebbe avvenuto». Renzi è convinto che questo passaggio assegni una nuova centralità al Pd. «È come se — spiega — fossimo diventati noi l’infrastruttura del sistema repubblicano. E questo riguarda anche la minoranza dem. Perché ho dimostrato che l’idea del complotto dietro il patto del Nazareno non esiste».
Ma, appunto, quel patto sembra più che acciaccato. A rischio di rompersi definitivamente. Con lui le riforme, sia quella elettorale sia quelle costituzionali. «Berlusconi, però, non può pensare di convivere con un’ambiguità: condividere le riforme e poi accedere alla tesi brunettiana di scambiarle con altro. Questo non esiste». Saluta Napolitano che va prendere un caffè al Bar Giolitti. A quel punto Renzi apre l’agenda dei prossimi giorni. «È chiaro che sulle riforme se anche Forza Italia ci sta, è meglio. Ma noi andiamo avanti lo stesso». Anzi, proprio in virtù del caos che ormai avvolge Forza Italia, il governo pensa di accelerare. Il Cavaliere, del resto, sa che i “fittiani” hanno votato per Mattarella e che altre due fazioni sono pronte al singolare tenzone: i lealisti e i falchi. «Adesso — allarga le braccia il premier — accusano Verdini di aver fatto un piacere a me. Ma è Berlusconi ad avere tutto l’interesse a passare alla storia come padre della Patria, come player della nuova Costituzione. E non andare dietro a Brunetta, Toti e alla Rossi». «Ora — saluta tutti — mi riposo. Stasera vado a Firenze, ho promesso di vedere la partita di calcio di mio figlio».
Claudio Tito, la Repubblica 1/2/2015