Giuliano Ferrara, Panorama 29/01/2015, 29 gennaio 2015
PERCHÉ PUNTO SU QUEI DUE
All’amore non si comanda. Senza l’idea regolativa di questa passione non si capisce niente dell’intreccio tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Le evoluzioni acrobatiche del patto del Nazareno, a ridosso dell’elezione del presidente della Repubblica, in ballo la legge elettorale e la riforma costituzionale, cioè la ridefinizione del potere in Italia, sono numeri da circo fuori della portata immaginativa dei pigri, degli ortodossi di tutte le scuole, dei propagandisti che non capiscono il profondo della politica, il suo significato autentico.
Quei due fanno impazzire il Palazzo, i partiti, gli osservatori della lotta politica, gli amici e gli avversari, e faranno incuriosire alla follia gli storici di domani. Compromessi tra uomini di Stato se ne sono visti, di natura strategica o opportunistica. Si è visto quel patto tra Camillo Benso di Cavour e la sinistra (1852) che portò all’unità d’Italia; si è visto viceversa il trasformismo, a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, una rete pattizia che offriva geometrie mobili alle classi dirigenti del regime succeduto al governo della Destra storica sabauda; gli italiani del Novecento furono spettatori del concordato tra il leader anticlericale Benito Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri, eppoi della svolta filomonarchica di Palmiro Togliatti che tradì i programmi massimi e ingenui delle organizzazioni insurrezionali al culmine della guerra di liberazione nazionale; per non parlare del compromesso storico tra Enrico Berlinguer e Aldo Moro, che infinite speranze e infiniti lutti addusse alla Patria.
Ma una storia di agnizione, di reciproco riconoscimento e di adulazione, ammirazione, mista di sentimenti paterno e filiale, più o meno confessabili date le circostanze, questo non si era mai visto. Mai visto che un’eredità gigantesca, compreso il patrimonio elettorale, lo charme, l’aura carismatica, fosse in un certo senso trasmessa dal capofamiglia al rampollo della famiglia rivale, a patto che si mettesse fine alla faida, una volta riconosciutala per tale.
Questa vicenda non è banalizzabile. C’è di sicuro un incontro di convenienze che si è riprodotto da oltre un anno, da quando gli uffici del Pd a largo del Nazareno ospitarono il pregiudicato, a sorpresa, e determinarono la caduta del governo Letta, l’ascesa di Renzi alla guida dell’esecutivo, gli atti fondativi della cosiddetta terza Repubblica. C’è la tiritera del negoziato, un passo avanti due passi indietro tre passi avanti, che si prolunga, mostra stanchezza, riprende vigore, si focalizza ora su questo ora su quello. Di questi giorni la prova del Quirinale. Ma non c’è ragione di credere che questi passaggi, compreso il tema apparentemente ostico dell’agibilità politica per Berlusconi siano destinati al vivolo cieco. Anzi, a occhio e croce la via è percorribile se non spianata.Ed è percorribile non solo per l’intreccio delle convenienze, ma per l’affinità elettiva di cui stiamo cercando il filo in queste righe. Quando precisamente sia nata la loro avventura, che si prolunga ora in amplessi politici tali da sollevare lo scandalo dei benpensanti e da nutrire la consapevolezza ironica delle persone con la testa sulle spalle, questo non si sa. Certo ha cominciato a circolare presto una strana aria d’intesa, fatta di stupori prima che di sentimenti. Berlusconi fu impressionato dalla faccenda del sindaco self-made. Lo confidò ai suoi. Nel giardino di casa sua piante simili non crescevano. A un’età verdissima, un ragazzo di Firenze (anzi, di Rignano) decide di ribellarsi alla nomenclatura del suo partito e al suo più arcigno custode giudiziale, il fiero Massimo D’Alema. Conquista prima il partito, poi la città. Al Cav, che sa come sia conveniente dovere del potere consolidato moderare le attese degli aspiranti a poteri nuovi e costituenti, arrivano notizie intriganti: quel boy-scout che piacerebbe alle sue zie suore è un mostro della caccia al consenso; adora le telecamere, senza la cui compagnia non fa un passo perché intuisce che è perdita di tempo; parla spedito e vivace un linguaggio fatto apposta per sacralizzare la leadership di un solo uomo al comando; se ne impipa dei divieti e dei pedaggi che gli apparati vogliono fargli pagare; è in odore di pragmatismo se non di riformismo; l’ambizione è sfrenata e il business model va al contrario delle tendenze diffuse tra la gente di sinistra. Non odia il suo avversario, non lo tratta da Arcinemico, non ha o non affetta alcuna incompatibilità ideologica o morale, si comporta da competitore, uno che vuole vincere una gara non far stramazzare a terra il nemico in una lotta mortale.
Così Berlusconi prende a dire delle cose che parevano insensate a tutta prima. Lo avrebbe voluto con lui, nel suo schieramento, un tipo così. Ha trasformato la sinistra in una effettiva socialdemocrazia, insomma ha preso atto della fine della tradizione comunista e postcomunista, bloccando le trame dei suoi testimoni ancora attivi. Tutti erano stupiti per tanto ardimento, ma si tendeva a pensare che quella del Cav fosse una manovra per sottolineare una divisione di principio che faceva soffrire gli avversari, si poteva pensare fosse l’effetto di una sensibilità non patologica, tipica del Berlusconi sano e più autentico, un modo di dire una verità psicologica senza curarsi troppo delle conseguenze politiche del motteggiare. Quante volte Berlusconi aveva stupito, stupor mundi, comportandosi con una specie di supremazia regia, esprimendosi in una lingua flessibile e meravigliosa, priva delle colle e degli impacci del parlato politico tradizionale?
Invece era simpatia, un complemento decisivo di ogni amicizia amorosa, e non poteva non essere anche il prodotto del suo stilnovistico riflesso reciproco (amore a nullo amato amar perdona). Il giovane Matteo, infatti, si espose in modo azzardato a quella simpatia e gli chiese di essere ricevuto ad Arcore, per parlare di finanziamenti al Comune di Firenze, ma anche di calcio e di altre «supercazzole», nelle migliori tradizioni narrative della commedia all’italiana (dicembre 2010). Lo fece nel momento di più incandescente e blindata consegna della residenza di Berlusconi al guardonismo malato dell’opinione di sinistra, fanatizzata dalle inchieste sulla sua vita privata, elettrizzata dalla possibilità di sfondare il muro della vittoria berlusconiana del 2008 con un nuovo terremoto politico, che poi si produrrà nel 2011 con le dimissioni dell’ultimo premier eletto dal popolo.
Renzi rischiò. Il premier di allora, il Cav, disse «un po’ mi somiglia», fissando per primo la natura di un rapporto inedito e inaudito con l’ex concorrente o competitore della Ruota della fortuna, sotto la supervisione stilistica di un Mike Bongiorno. Il sindaco affrontò il rischio dell’incomprensione a sinistra, i pettegolezzi e le berciate dell’opposizione forte che incontrava nel suo partito, e tenne duro, ritornò sul punto, ne scrisse, formulando la sua «dottrina Berlusconi» che fu poi il connotato politico vero della serie delle sue Leopolde, i convegni che hanno dato la base culturale o retorica al renzismo: voi lo volete in galera da una vita, lo combattete con mezzi extrapolitici, vi imbruttite in una contesa assoluta, in un clash di stilemi ideologia, e così vi condannate all’irrilevanza, mentre io voglio sostituirlo, emularlo se necessario e dove necessario, magari pensionarlo, ma con tutti gli onori dovuti a un inventore di politica e di scena pubblica, uno di cui siamo anche noi di sinistra figli e figliastri, lo vogliamo o no.
Nell’interesse della stessa sinistra, per promuovere una nuova generazione politica e un cambio nella gestione del potere italiano, io voglio rottamare voi nomenclatura del Pd, voi vecchi quadri di una lotta ventennale contro l’usurpazione berlusconiana, e rottamarvi con tutto il peso delle vostre ipocrisie e delle vostre impotenti rabbie. A Berlusconi, che ha aperto la strada al giovane royal baby, nel sottosuolo della politica scenica, battendo uno a uno coloro che starà poi a lui mettere in soffitta, verrebbe da dire semplicemente con Shakespeare, Hegel e Marx: ben scavato, vecchia talpa.