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 2015  gennaio 29 Giovedì calendario

INTERVISTA A KATIA RICCIARELLI

Non so perché il direttore di Panorama abbia mandato proprio me a parlare con Katia Ricciarelli del suo nuovo libro, considerato che s’intitola Da donna a donna (in uscita da Piemme il 3 febbraio). Forse avrà pensato che fra veneti, a dispetto del genere, ne sarebbe scaturita qualche verità in più. In effetti la prima e unica volta che cenai con la soprano, anni fa, lei mi elargì un giudizio inaspettato e molto terragno sull’ex marito Pippo Baudo: «Xe un gambo de sedano». Che fra i contadini della Serenissima equivale a «lòngo e s-ciào», detto con perfida indulgenza dell’uomo che abbia la sua dote migliore nella statura ragguardevole.
È questa cristallina genuinità a fare della cantante lirica, nata il 18 gennaio 1946 a Rovigo, la candidata ideale per un’intervista senza reticenze. «Ieri tornavo da un concerto in Puglia. Renato mi fa: “Ti vedo stanca, fila subito a letto!”. Mi alzo che è già sera e dice: “Ti porto al ristorante”. Apre la porta: mariavergine! C’erano il vescovo di Verona, Giuseppe Zenti, il prefetto Perla Stancari, mia sorella Anna, i miei nipoti, gli amici più cari. Tutti lì per festeggiarmi. Io manco mi ricordavo che compivo 69 anni. Sarei scappata nel Far West. Anche sua eccellenza voleva andarsene subito, senza cenare. Ho insistito così tanto che alla fine ha dovuto cedere: “E va ben, ’na féta de soprèssa la magno”».
Renato di cognome fa Castioni. Nell’autobiografia la sua identità non viene svelata. Pippo Baudo è stato compare d’anello del figlio Simone. È proprietario della trattoria Ciccarelli di Dossobuono. Fu lì che Katia trovò rifugio dopo aver lasciato il marito. Scelta deleteria per la dieta: i piatti forti del locale sono le fettuccine ai tre sughi e il carrello dei bolliti con la pearà. Ormai si conoscono da più di 30 anni. «Amici amici, eh. Non so neppure che tipo di mutande porti, mai visto in déshabillé. Magari avessi trovato un uomo così da sposare! Però voglio lo stesso celebrare con lui le nozze d’oro dell’amicizia, che è l’espressione più alta dell’amore». Melomane dai modi aristocratici, Castioni gestiva il bar dell’aeroporto di Villafranca. Un giorno il caposcalo della Meridiana chiese disperato il suo aiuto: la soprano stava dando i numeri perché le avevano cancellato il volo per Olbia. Lui la ammansì con un tè caldo. «Gli era da poco morta la moglie Bruna. Da allora siamo inseparabili. Ma ognuno a casa propria».
Quella di Katia si trova a Bardolino. Analizzata dall’esterno con Google earth e Street view sembra una magione hollywoodiana: tre ingressi, tre piani, terrazzi coperti e scoperti, patio, piscina, parco delimitato da fitta siepe, una dozzina di posti auto. In realtà sono sette appartamenti. Lei occupa con Dorothy soltanto il pianterreno, 120 metri quadrati, vista sul lago di Garda. La sua compagna figura anche sul passaporto: Dorothy Benjamin Park in Ricciarelli. È una cagnolina. L’ha salvata dalle auto che stavano per arrotarla a Nola, dove la cantante recitava in un musical su Enrico Caruso. Le venne perciò naturale chiamarla come la moglie del leggendario tenore. Sul campanello all’ingresso si legge «Ka. Ri.». Sulla cassetta della posta la privacy va subito a farsi benedire: «Ricciarelli K.».
Catuscia, all’anagrafe.
Sì, senza la «i». Mia madre voleva chiamarmi Katiuscia, come la protagonista di Resurrezione di Lev Tolstoj, ma il parroco si oppose: «No xe un nome cristian». Così fui battezzata Catuscia Maria Stella.
Festeggio il giorno di Santa Caterina.
Ha preso il cognome dalla mamma.
Molara Ricciarelli, toscana di Rosignano. Sposò Mariano Pepi, che andò a farsi accoppare in Russia come volontario con l’Armir, lasciandola da sola con Maria Luisa e Anna, le mie sorelle. Dovette emigrare in Germania. Raccoglieva patate. Conobbe un veneto che la mise incinta e le promise di sposarla. Invece, tornati in Italia, ad attenderlo alla stazione di Rovigo c’erano moglie e figlio. Mia madre non ha mai voluto farmelo conoscere. L’unico ricordo che ho di lui è una foto che mi fu scattata da quindicenne mentre cantavo in sanatorio per un’iniziativa benefica del Comune di Rovigo: vi era ritratto un uomo emaciato, steso nel letto. Mio padre.
Mica facile farsi largo, per una ragazza nata nel Polesine.
Devo tutto a Ludovico Petrolini, un bancario appassionato di lirica. Sentì cantare l’Ave Maria di Schubert, bussò alla porta e mi vide alla pianola in cucina. «Ma questo è un angelo!» esclamò. Volle pagarmi gli studi al conservatorio Benedetto Marcello di Venezia. Avevo 17 anni, ero commessa alla Upim. Rinunciai alla liquidazione per non perdere l’anno di studio.
Torna spesso sulla tomba del suo benefattore?
Mai. Non so neppure dove si trovi. Non temo la morte, ma ho un pessimo rapporto con i cimiteri. Mi paiono così assurdi: i fiori, la foto nell’ovale, la lapide, e sotto non c’è più nulla. Mia madre è sepolta dal 1991 a Milano. Sono andata a trovarla solo due volte. Però ci parlo insieme ogni giorno. Voglio farmi cremare.
Il tema non mi pare d’attualità.
Ma, sa... Ho sempre davanti la fine che fece la mia sorella maggiore una domenica del 1961. Con il marito e i loro due bambini stava raggiungendo a piedi la nostra casa. La figlia Stefania chiese al padre: «Mi allacci la scarpa?». Maria Luisa, con istinto materno, lo anticipò. Si chinò e fu falciata da un’auto.
Il dolore ha bussato presto alla sua porta.
A Venezia conobbi un benedettino, mi dava lezioni di canto gregoriano. Io avevo 18 anni, lui 33. Mi trattava come una figlia. Finì per convincermi che la mia vocazione era per la vita monastica. Volle addirittura farmi fotografare vestita da suora. Ben presto mi resi conto che s’era innamorato e, non potendo possedermi fisicamente, pretendeva che nessun altro mi avesse. Mi sentii tradita. Lui reagì facendomi passare per matta. Diceva delle cose che poi si rimangiava, sostenendo che erano un parto della mia fantasia.
Come finì?
Tentai il suicidio con i sonniferi nel mio alloggio di Campo San Canzian, vicino al ponte di Rialto. Fu mia madre a ritrovarmi esanime e a salvarmi.
Anche Carlo Bernini, il dc che fu per una decina d’anni presidente della Regione Veneto e poi ministro, mi parlò di lei come di una figlia adottiva.
E infatti volle persino farmi da testimone di nozze.
Si direbbe che la giovane Katia cercasse in persone più anziane il padre che le era mancato.
È così. Non m’è mai interessato il bonazzo. Il mio primo uomo fu il figlio del proprietario della fabbrica di giradischi dove lavoravo a Rovigo e aveva una decina d’anni più di me. Ce ne misi quasi due a capire che per lui ero solo una delle tante. Un giorno che mi aspettava sulla sua Giulietta azzurra, invece di salire tirai dritto ed entrai nella Giulietta nera di un altro spasimante, il figlio del farmacista. Entrambi più rivisti.
Poi s’invaghì del basso Ruggero Raimondi.
Con le mie compagne di conservatorio andavo a sentirlo in loggione alla Fenice. Una volta mi spinsi a telefonargli in albergo, fingendo di chiamarmi Barbara. Una reminiscenza di Desdemona nell’Otello: «Mia madre aveva una povera ancella, innamorata e bella. Era il suo nome Barbara».
Poi entrò nella sua vita Giovanni Battista Meneghini.
Avrebbe voluto fare di me un’altra Callas. Ma quando, durante l’ennesima passeggiata, con un lapsus freudiano mi chiamò Maria, ebbi un brivido: mi vedeva come possibile moglie.
Poi Paolo Grassi.
La sua dichiarazione fu esplicita: «Vuoi sposarmi?». Mi scriveva decine di lettere d’amore, segnando giorno e ora. Invece di spedirmele, me le consegnava a mano. Di uomini come lui e come il maestro Gianandrea Gavazzeni non ne nascono più.
Poi Mario Del Monaco.
Adorabile pazzo. M’invitò nella sua villa di Lancenigo, nel Trevigiano. Il successivo appuntamento fu in piazza San Marco a Venezia, dove si presentò, in pieno agosto, con calzamaglia nera, stivali fino al ginocchio, cappello a larghe tese e bastone con il pomolo tempestato di pietre preziose. Girava su una Rolls-Royce che aveva le maniglie d’oro alle portiere. Nel 1974 accettò che comparissi al suo fianco nell’Otello. Alla prima venne giù il teatro. «Esci tu da sola a prenderti gli applausi, te li sei meritati» mi spronò. Il tempo di tornare commossa sul palco e lo sentii inveire da dietro le quinte perché gli stavo rubando la scena. Vabbè, poi mi chiese scusa. Mal tollerava i rivali. Un giornalista gli chiese del giovane «tenore spagnolo» che s’era messo con me e lui rispose: «Carreras? Se sta con la Ricciarelli, di carrieras ne farà pocas».
Ecco, parliamo di José Carreras.
Io sono negata per le date, ma questa me la ricordo: 5 gennaio 1972. Il nostro primo incontro alla vigilia della prima di Bohème al Regio di Parma. «Si tagli quella barba, la invecchia» lo apostrofai. L’indomani si presentò con il viso rasato. Era sposato da sei mesi. Dopo altri sei aveva già lasciato la moglie per me. Fu passione a prima vista. Eravamo pazzamente innamorati l’uno dell’altra, come due liceali. Fra alti e bassi, lo siamo stati per 13 anni. Poi arriva il momento che ti stanchi di fare l’eterna fidanzata.
Nel suo libro Baudo è citato 15 volte, Carreras 24. Significa che ha amato José un 60 per cento in più di Pippo?
È sempre stato un simpatico cialtrone. Però gli voglio ancora bene. Mi raccontava un sacco di balle. Ricordo un furioso litigio per strada a Londra: dalle sue tasche era saltato fuori il bigliettino di una corteggiatrice che gli diceva «omait», cioè «ti amo» alla rovescia. Un’altra volta baruffammo a Ravenna e al ritorno in albergo mi fece trovare tutti i miei vestiti tagliati con le forbici a striscioline. Scenate terribili, perché io, come Carmen, accetto l’amore libero, ma resto sempre fedele a quello. Purtroppo si sa come sono fatti i tenori.
No, non lo so. Come sono fatti?
Le più fanatiche si gettano ai loro piedi. Pensi che subiva gli assalti persino uno come Luciano Pavarotti, sia detto con tutto il rispetto.
Sono simboli di potenza sessuale?
Ah, non credo. L’amor ghe picia nel çervèl. Come il do. A New Orleans cantavo La Bohème. In Che gelida manina il tenore diede un do di testa che lo fece cadere a terra svenuto.
Sempre in Da donna a donna la parola amore ricorre 111 volte, canto 28, lirica appena 16. Significa che il lavoro vale un 60 per cento in meno del sentimento?
Sì. Più di ogni cosa ha contato l’amore. Gli avrei sacrificato tutto, anche la carriera. Per fortuna non ho fatto come la mia insegnante di canto, Iris Adami Corradetti. Era una splendida soprano. Abbandonò le scene per stare accanto al marito medico, ma quello scappò con un’infermiera.
Invece la parola gelosia è presente 14 volte, perdono e il verbo perdonare 12. Debbo arguirne che lei è un filino più vendicativa che indulgente?
Ma no, perdonai persino Carreras quando mise incinta la moglie per la seconda volta, dopo che mi aveva giurato e stragiurato di non toccarla più. Però non gli avrei mai chiesto di lasciarla per me.
Che cosa non ha funzionato con Baudo?
Non lo so. Pensavo che fosse l’amore della mia vita. Siamo stati bene insieme, per tre anni. Poi è venuto a mancare il dialogo. Lo dico sempre ai ragazzi che si sposano: parlate, discutete, bisticciate, fate pace. Ma evitate il silenzio, perché alla fine non riuscirete più a parlare, vi diventerà difficile anche augurare la buonanotte.
Vede ancora il suo ex marito?
Dalla separazione ci siamo incontrati solo una volta, per caso, negli studi Dear della Rai a Roma. Già dieci anni fa gli avevo consigliato di lasciare perdere la tv, di dedicarsi ad altro. Non si può durare in eterno. Io l’opera lirica non la faccio più da tempo: solo concerti, eventi e master. Mi hanno chiamato a insegnare canto finanche a Pechino.
Vi sentite al telefono, almeno?
Da allora più nulla, né buongiorno, né buonasera, né buon anno, né vaffanbrodo. Mi dispiace tantissimo. Pensavo che 18 anni di matrimonio lasciassero spazio almeno al rispetto reciproco.
Lo dice al «gambo de sedano»?
Dopo un silenzio così crudele, la battuta acidula viene spontanea.
Forse vi è mancato un figlio.
Ci abbiamo provato due volte con la fecondazione assistita. Prima dal professor Carlo Flamigni a Bologna e poi da un luminare di Cambridge. Il quale ci accolse dicendo: «È il mio ultimo tentativo. Ho un cancro, sto per morire». Il giorno dell’intervento, m’informarono che era deceduto durante la notte. Non volli più fare nulla.
È vero che è ludopatica? La stampa rosa ha lasciato intendere che all’origine del divorzio ci sia stata la sua passione per il gioco d’azzardo.
Che scemenza. Vado al casinò di Ca’ Noghera due o tre volte l’anno. Gioco solo con le slot machine e le prendo a calci se non vinco. È una scarica di adrenalina, mi diverto. Non mi porto né carte di credito né libretto degli assegni. Al massimo avrò perso 5 mila euro. Tanti. Ma spesso sono fortunata.
Non sarà che è sfortunata in amore?
Eh, penso proprio di sì. Tanti smaniavano per me, però alla fine sono rimasta sola. Gli amici insistono: «Devi risposarti». Fosse facile! Gli uomini s’intimidiscono, mi vedono come un personaggio inavvicinabile.
Ma non lo è.
Appunto. Facciamolo sapere a tutti attraverso Panorama.
Si offende se le dico che è quasi più brava come attrice che come cantante?
No, mi fa sorridere. È un complimento, soprattutto a Pupi Avati. La seconda notte di nozze sembrava scritto su misura per me. Anche nei panni della madre del bandito Felice Maniero nella fiction Faccia d’angelo mi sono sentita a mio agio.
E fra Herbert von Karajan, Carlos Kleiber e Claudio Abbado chi l’ha diretta meglio come soprano?
Karajan s’innamorava della voce e su quella impostava una vera e propria regia sonora. Nessun altro direttore d’orchestra ne era capace. Rammento l’audizione a Berlino, maggio 1979. Al termine rimase assorto. Io tremavo di paura. Finché non esalò: «Erano 40 anni che aspettavo una Tosca così».
Nel suo libro confessa «una sottile vena di malinconia che nasce dalla difficoltà a rassegnarmi a vivere in modo normale la quotidianità».
Non ho la patente, non ho l’auto, ho vissuto per 25 anni segregata a Spoleto, in una casa grande come una città, mille metri quadrati. Ma la vita resta la ribalta più bella che il destino ci possa regalare.
Lei non si è accontentata della vita. Ha inseguito la celebrità. Brutta bestia, la celebrità.
Non soffro la vedovanza da successo. L’ho cercato, è vero, ma solo per ripagare mia madre dei sacrifici che aveva fatto per me. Oggi mi accontento di guardare il sole che si corica nel Garda.
«Il sole del tramonto è magnifico ma la notte si avvicina». Dinastia Tang.
Alle 8 di sera sono già a letto con la mia Dorothy. Traccio un bilancio. Penso. Apprezzo il silenzio.
Da donna a donna si chiude con un proposito minaccioso: «Un giorno pubblicherò un libro su tutte le cose che non ho potuto dire per pudore, rispetto o magari semplicemente solo per evitare ire e malumori altrui». Me ne anticipi almeno una.
Sposerei Silvio Berlusconi. El me piase. L’hanno maltrattato troppo. No xe giusto.
Così le ire non le evita di sicuro.
E allora? Non sono né di destra né di sinistra. Lo vede quel ritratto che mi fece Rinaldo Geleng? Il dipinto fu donato dal Cavaliere a Baudo, non a me. E Pippo, pur di non avermi davanti per sempre, lo sbolognò alla mia governante quando la mandai a sgombrare la nostra casa di Roma. A me non ha mai regalato niente nessuno, neppure Berlusconi.
Stefano Lorenzetto

LORENZETTO Stefano. 58 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimi libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio).


LORENZETTO Stefano. 58 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Quindici libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio) i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.