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 2015  gennaio 29 Giovedì calendario

IL RICATTO POLITICO DELLA JIHAD

Il governo giapponese aveva dovuto precisare che «la salvezza del pilota giordano fa anch’essa parte delle nostre preoccupazioni: vogliamo che lui e Kenji Goto tornino nei loro paesi, sorridendo». Che potessero sorridere, soprattutto Goto, era difficile credere. Ma che la loro liberazione, se avvenuta davvero, sarebbe senz’altro una buona notizia è indubbio. Quando ha cambiato il suo ultimatum, rinunciando (almeno pubblicamente) ai 200 milioni ed esigendo la liberazione di Sajida Mubarak al-Richawi, lo Stato Islamico (Is) deve aver pensato di mettere la Giordania – e con lei un Occidente per la quale la sua tenuta è essenziale – in un angolo. Se avesse accettato di cedere in cambio del solo ostaggio giapponese, avrebbe suscitato la ribellione dei propri cittadini, e sarebbe stata sbeffeggiata dai jihadisti come asservita al Giappone e ai suoi alleati. Le cui pressioni d’altra parte erano fortissime, soprattutto dopo che il truce spettacolo dell’uccisione di Haruna Yukawa aveva commosso e indignato straordinariamente l’opinione giapponese. Il ricatto dell’Is faceva leva sull’altro prigioniero, il sottotenente pilota Muath Al-Kasaesbeh, 26 anni, catturato il 24 dicembre nei pressi di Raqqa dopo che il suo F16, in missione per la coalizione, era precipitato. Il governo di Amman aveva ripetuto che «la nostra priorità è fin dal primo momento la salvezza del nostro figlio, il pilota Kasaesbeh». Il vero padre dell’ufficiale, Safi, rompendo la consegna del silenzio in una pubblica manifestazione contro le autorità e lo stesso re Abdullah, aveva chiesto: «Chi è per noi Sajida? Solo un peso: rilasciatela» (argomento scivoloso, il peso della vita di una condannata a morte). «E perché dobbiamo negoziare per un giapponese?». E, più rischiosamente, la madre: «Lui è nell’aeronautica per difendere la Giordania, non per combattere in altri Paesi: non è affar nostro andare là».
La Giordania appariva l’anello debole dello schieramento alleato, dal quale ottenere qualcosa che in un gergo italiano per fortuna inattuale si chiamasse “riconoscimento politico”, da far valere agli occhi del pubblico universale per il quale il programma dell’Is è messo in scena. D’altra parte, strappare alla morte due persone, il giornalista giapponese e l’ufficiale giordano, in cambio di una detenuta condannata a morte già da otto anni, sarebbe apparsa una scelta lodevole. L’attentato di cui Sajida fu in extremis partecipe mancata (quanto involontariamente?) ha lasciato una ferita insanata in Giordania, per la sua studiata ferocia – quasi 60 morti innocenti in tre grandi alberghi di Amman – e tuttavia il suo rilascio sarebbe stato largamente bilanciato dallo scambio.
Sul piano dei principi – della nostra accanita contrapposizione fra trattativa e fermezza – il governo di Israele è l’esempio di una fermezza provvisoriamente subordinata all’urgenza, fino allo scambio di molti e pericolosi detenuti per un solo uomo, e addirittura per un cadavere: salva la rivalsa. Piuttosto, veniva da chiedersi perché l’Is (che aveva poi rivendicato la liberazione di un secondo carcerato in Giordania, Ziad al-Karbouli, anche lui legato a suo tempo ad al-Zarqawi) tenesse tanto a Sajida al-Richawi, che chiama “sorella imprigionata”. Quarantaquattro anni, vera sorella di Thamer Mubarak Atrous, braccio destro di al-Zarqawi, e di altri due giovani qaedisti, venerati come martiri, tutti uccisi dagli americani nella provincia di al-Anbar, oggi in mano al Califfato, e moglie di uno dei tre attentatori suicidi del 2005 ad Amman, Sajida fallì nella sua missione, e con un errore, o una dimenticanza tecnica («aveva dimenticato in auto un congegno essenziale per l’esplosione»), che forse celava un desiderio di sottrarvisi.
Forse è troppo anche per l’efferatezza distillata dell’Is immaginare che si volesse togliere la donna al boia di Amman (la Giordania ha rotto proprio il 21 dicembre scorso una moratoria della pena capitale durata otto anni) per consegnarla al proprio. Gli esperti curdi con cui seguo le notizie a Erbil – tutti i curdi sono esperti di Daesh e di jihad araba – dicono che l’Islam, anche nella interpretazione superstiziosa, perdona le colpe commesse quando vince la paura. Piuttosto, si mostrano sorpresi che il Daesh promuova una figura di donna combattente, che è per loro meno usuale, anche se negli ultimi tempi ci sono stati segnali di cambiamento. Che non si siano più nominati i soldi, dicono, non vuol dire che non siano corsi sottobanco. La vera sconfitta per la Giordania e gli alleati, per loro, sta nel cedimento a un ricatto tradotto nella decapitazione di un uomo, e nella sua esibizione. Se un ammazzato serve a vendere un vivo alle proprie condizioni, il gioco diventa una divisione per due, a tutto vantaggio del Daesh. La risposta è che un ammazzato non può diventare la ragione di un altro ammazzato. Ma è evidente che si ripete qui, su un altro registro, l’alternativa fra pagare per salvare una vita oggi e minacciarne altre domani, o lasciare un ostaggio in balia dei carnefici: certo l’ostaggio di oggi, e dal viso noto – Kenji Goto, che «non ha fatto niente contro l’Islam», come ripete sua madre – incerti quelli di domani, o almeno ancora senza volto.
Riferendo nel 2005 sulla strage qaedista ad Amman, un articolo del New York Times , ora utilmente ripubblicato, scriveva: «La Cia ha avvertito di recente che una nuova generazione di jihadisti si sta addestrando nella guerra in Iraq, e che i suoi combattenti potrebbero presto trasferire la loro causa in altri Paesi». Si sapeva, e si sa che si sapeva. È anche questo che porta malauguratamente un numero enorme di persone, la netta maggioranza della gente comune, nel Medio Oriente (e troppi anche da noi) a ritenere che il Califfato e la bufera che attraversa i suoi paesi sia il risultato di un complotto anglo-americano-sionista. Storie concorrenti di apprendisti stregoni, e di stagisti della paranoia.