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 2015  gennaio 24 Sabato calendario

PIEDI BUONI, CATTIVI AFFARI

Fa comodo essere titolari di una ditta di tessuti: diventa più facile avere a disposizione un asciugamani per tamponare le lacrime, se le cose dovessero andar male. Gigi Buffon rischia però di dover ricorrere all’intero corredo se la Zucchi di cui è proprietario al 57% – per un valore delle azioni pari a 14 milioni di euro – continuerà a rotolare sulla china lungo la quale si è pericolosamente avviata, tanto da essere costretta a chiedere aiuto alle banche creditrici per far fronte al rosso in bilancio che ha superato un terzo del capitale (a fine ottobre i debiti ammontavano a 90 milioni).
Non proprio un affare, dunque, quello concluso 5 anni fa dal portiere della Juventus, possessore, all’atto del suo ingresso nell’azienda, di poco più dell’11% delle azioni. Mai però sanguinoso per le tasche dei protagonisti come quello che vide coinvolti Christian Vieri e Cristian Brocchi e che nel 2011 si risolse in un fallimento da 14 milioni per i due calciatori e amici, i quali avevano creato una società di commercio all’ingrosso dall’acronimo abbastanza criptico – la BFC&Co – che nelle intenzioni avrebbe dovuto importare prodotti a basso costo, casalinghi e articoli da giardino soprattutto, per poi rivenderli in Italia. Sorte ancora peggiore quella dei milanisti Giovanni Galli, Tassotti e Donadoni, che nel ’91 affidarono cifre variabili tra i 300 e i 500 milioni di lire alla fantomatica Safimi, gruppo di semisconosciute società finanziarie di cui non ebbero più notizie. Succede quando si impegnano cifre consistenti in affari che alla prova dei fatti non si rivelano tali. Né vale ricordare come Vieri, Brocchi e Buffon di mestiere facciano, o abbiano fatto, i calciatori, non gli imprenditori: come riconosce il suo legale. Marco Valerio Corini, SuperGigi «passa spesso notti insonni a studiare grafici di Borsa e bilanci di società quotate. La sua è una passione». Comune a quella di molti calciatori 2.0, che – potendo ovviamente permetterselo – creano ex novo società o immettono i loro capitali in aziende già esistenti per investire, e possibilmente far fruttare, i loro lauti guadagni. Una tendenza, questa, che non rappresenta una novità in assoluto: «Ho giocato col primo agente di Borsa che ha fatto pure il calciatore», racconta divertito a SportWeek Beppe Bergomi, colonna ventennale dell’Inter (dal ’79 al ’99) e campione del mondo nell’82. «Era Corrado Verdelli, è stato mio compagno dall’88 al ’90, e contagiò con la sua passione per i mercati Giampiero Marini e Riccardo Ferri. Io? Mi sono sempre tenuto bene alla larga».
Altri tempi, perché, poco alla volta ma in maniera costante e sempre più massiccia, la passione per la finanza creativa ha contagiato i calciatori. L’ex milanista Billy Costacurta è considerato un vero maestro del ramo: «Mi diverto un po’ con il trading on line e preferisco gli investimenti a lungo termine», diceva a Il Sole 24 Ore. «In particolare scelgo fondi azionari e bilanciati». All’epoca – era il 2006 – in cui era alla Juve, Giuliano Giannichedda spiegava alla Gazzetta la sua filosofia di trader, un operatore finanziario che effettua compravendita di azioni, obbligazioni e derivati: «Ai compagni più giovani ripeto sempre che l’importante è non perdere. Meglio poco e sicuro che tanto e incerto. Ma alla Borsa ho dedicato solo il 5-10 per cento del patrimonio. Il grosso l’ho investito in maniera sicura, in immobili e in assicurazioni vita a capitale garantito». Proprio le assicurazioni sulla vita sono uno dei capisaldi delle forme di investimento scelte oggi dai calciatori per far fruttare i loro soldi: il 90% ne possiede una.
Alla base resta però l’investimento sicuro: quello sugli immobili. Detto che, parola di un dirigente di banca, «il 40% del mensile di un calciatore, specie se giovane e single, va via in macchine, abbigliamento e donne», di ciò che rimane viene investita in prodotti immobiliari una percentuale variabile tra il 30 e il 50%. È sempre stato così, a maggior ragione quando il calcio (e la vita) erano più sostanza e meno apparenza. «La prima cosa che si faceva ai miei tempi era comprare la casa», ricorda a SW Sandro Mazzola, 4 scudetti e 2 Coppe dei campioni all’Inter dal 1960 al ’77. «Io non mi limitai a quella ma, col tempo, acquistai e ristrutturai appartamenti in palazzine ormai fatiscenti nella zona di Milano in cui ero cresciuto. Porta Ticinese. Mentre ancora giocavo aprii anche, insieme a un amico, un’agenzia di pubblicità che andò avanti bene per un bel po’ di anni. Ci lavorava gente in gamba e sfruttammo la mia notorietà per acchiappare clienti importanti come Galbusera, quello dei biscotti...». Alla casa di proprietà punta oggi Marco Benassi, ventenne centrocampista del Torino. «Fino a ora i soldi li ho tenuti in banca. Ora, dietro consiglio del mio procuratore Francesco Romano, ho deciso di prendere casa a Modena, dove sono nato. Ristrutturo quella di papà, poi penserò a dei piani di investimento». L’importante, quando si comincia a progettare in grande, è affidarsi a professionisti seri per evitare le solenni fregature prese in passato per esempio da Roberto Baggio, mica uno sprovveduto qualunque, che però si fece infinocchiare da un faccendiere che lo spinse ad acquistare una miniera di marmo nero in Perù (!), rivelatasi inesistente; o quella di cui fu vittima ancora Vieri, convinto da Bruno Bartoli, faccendiere di Siena poi rinviato a giudizio insieme alla compagna e ad altri personaggi, a partecipare ad aste giudiziarie per l’acquisto di immobili in Piazza di Spagna a Roma. Per convincere Vieri, Bartoli simulò al telefono di essere di volta in volta un magistrato fiorentino, il capitano Ultimo – sì, quello dell’arresto di Totò Riina – e addirittura il cardinale Camillo Ruini. Morale della favola: Bobo ci rimise 3 milioni di euro, consegnati al broker e mai più rivisti.
«La mia fortuna è stata quella di avere un fratello bancario», chiosa Bergomi. «Ho affidato a lui la gestione dei miei risparmi. E comunque non mi sono mai lanciato in avventure strane, anche se qualche fregatura l’ho presa. Quello che è certo è che i miei, parlo degli Anni 80 soprattutto, erano davvero altri tempi: al massimo, in un anno ho visto l’equivalente di 500 mila euro. Come potevo permettermi un ristorante?».
«I primi soldi che ho guadagnato, un milione e mezzo di lire nel ’79 col Lecce, li consegnai pari pari a mio padre», interviene Pasquale Bruno, ex Juve e Toro, ritiratosi nel 2003. «I guai cominciarono a Como, quando l’ingaggio lievitò a 120 milioni, e alla Juve, dove triplicò: è in quel momento che diventano tutti amici. Ringrazio Dio di aver smesso col calcio proprio per questo motivo, perché mi sono liberato di certa gente. Una volta diedi un assegno di 50 milioni a un amico che me li aveva chiesti con la promessa di restituirmeli. Era uno che aveva dormito a casa mia, e io, di qualcuno che ha dormito nel mio letto, mi fido. Insomma: questo si presenta in banca e per fortuna il cassiere, che mi conosce, chiama al telefono un amico comune, mio e dell’altra persona, che gli dice: “Non paghi questo assegno se no Bruno quei soldi non li rivede più”. Il problema è che il calcio è una centrifuga e tra i calciatori c’è parecchia ignoranza. Mi ci metto anch’io, per carità. Ti scatta nella testa la voglia di mantenere alto il tuo tenore di vita anche una volta che avrai smesso e allora ti lanci in investimenti azzardati. Hai paura di ritornare una persona normale. Di non poter più chiamare alle 2 di notte il dottore perché tua figlia ha un banale mal di denti, e quello scatta».
«È giusto però fare delle differenze», dice Guglielmo Stendardo, 33 anni, difensore dell’Atalanta e avvocato. «Noi calciatori di Serie A siamo dei privilegiati, però bisogna anche dire che al Milan, alla Juve, all’Inter, alla Roma ci sono parametri economici diversi dall’Atalanta o dal Chievo, anche negli stipendi. E, a maggior ragione, le differenze sono più marcate tra chi gioca in A e chi in B o in Lega Pro, dove a volte si fatica pure ad arrivare a fine mese. Perciò gli investimenti grossi li fanno soltanto quelli che guadagnano milioni. Gente come me pensa innanzi tutto a garantire una proprietà ai figli, e la prima cui punti è ovviamente una casa».
Storia diversa per Francesco Totti, titolare della Numberten, la cassaforte di famiglia che rimanda al suo numero di maglia. Oltre a proporsi per la gestione dell’immagine degli atleti professionisti e per l’organizzazione di eventi sportivi, Numberten è a capo di una rete di piccole società immobiliari. Per il capitano della Roma si è rivelato meno redditizio il filone dell’abbigliamento: come Paolo Maldini e Bobo Vieri che avevano creato la linea Sweet Years (il secondo, con Cristian Brocchi, anche quella ribattezzata Baci&Abbracci, uscita nel 2011 dalla loro sfera di influenza), Totti, insieme alla moglie Ilary Blasi, aveva dato vita alla Never Without You, una società poi andata in liquidazione nel 2012 con una perdita di oltre 37 mila euro.
Tanto vale, insomma, affidarsi a investimenti più tradizionali: il mattone, come detto (l’ex juventino Ale Del Piero ha comprato una serie di immobili nel suo Veneto) o i ristoranti. Interisti e milanisti (ex soprattutto) in questo senso vanno alla grande: a Milano sono ormai un must il Botinero di Zanetti o il Finger’s di Seedorf. Nel settore alimentare, ma in maniera diversa, ha investito anche l’ex rossonero Gattuso, che ha aperto un’azienda ittica nella sua Calabria e una pescheria a Gallarate. In tema di originalità, l’argentino ex interista Javier Zanetti acquistò a suo tempo a Buenos Aires una stazione di benzina. Cibo e carburante, due cose di cui la gente non può fare a meno: due beni, dunque, che dovrebbero evitare al giocatore di pallone, una volta finita la carriera, di finire come tanti colleghi della Premier inglese; 3 su 5 dei quali, secondo uno studio condotto qualche anno fa, finiscono sul lastrico entro 5 anni dal ritiro per colpa (anche) di investimenti sbagliati.