Silvia Nucini, Vanity Fair 28/1/2015, 28 gennaio 2015
LA SENTI QUESTA VOCE. INTERVISTA AD ANTONIO CONTE
All’oratorio di San Fulgenzio di Lecce il campetto da calcio faceva abbastanza schifo, ma c’erano due porte e tanto bastava per trasformarlo in un Maracanã. E non importa se per avere il permesso di giocare dovevi servire messa con la tonaca: che cos’è un sacrificio, grande o piccolo, se poi, dopo, arriva un premio?
Antonio Conte, dopo tanto tempo, la pensa ancora così. Quarantacinque anni, ventinove sotto i riflettori del calcio in diversi ruoli e squadre: centrocampista, allenatore e ora c.t. della Nazionale, ma per tutti sempre e solo uno juventino, quello che della Juve presidiava il campo e quello che poi l’ha portata a conquistare 3 scudetti di fila.
Quel bianco e quel nero adesso, forse, vorrebbe toglierseli un po’ di dosso, e ricordare a tutti che ora la sua bandiera è il tricolore «che l’Italia dovrebbe amare sempre, non solo quando vinciamo».
È anche per ricompattare la fede calcistica patriottica che lo vedremo al prossimo Festival di Sanremo. Ma non è la sua prima volta: ci andò con la Juve per raccogliere fondi per l’Ospedale Gaslini di Genova. «Cantammo Il mio canto libero di Battisti. Stavolta invece sto zitto. Mi piace molto cantare, ma la mia voce si è irrimediabilmente rovinata da quando alleno e mi sgolo dalla panchina».
Ma c’è davvero bisogno di urlare tanto?
«L’allenatore è il dodicesimo uomo in campo. Non c’è con i piedi, ma può esserci con la voce. E poi urlare o meno è anche questione di carattere: ci sono dei c.t. che arrivano, si siedono in panchina e guardano la partita come in Tv. Io li stimo tantissimo».
Chi è stato il suo primo allenatore?
«Papà mio (lo chiama sempre così: non “mio papà”, ndr). Alla Juventina Lecce, la squadra amatoriale dove ho iniziato, lui è stato, a seconda dei periodi, allenatore, presidente, magazziniere e preparatore del tè al limone che si beve tra il primo e il secondo tempo. È stato un padre, ma anche e soprattutto un educatore, a volte severo. Finché ho abitato con lui – e l’ho fatto fino a 21 anni – dovevo rientrare alle 10 e mezzo di sera. Papà non voleva che si dicesse in giro che ero un poco di buono».
Quando ha cominciato a stare fuori fino a mezzanotte?
«Quando mi sono trasferito a Torino, ma non ero contento. Era una città difficile, allora, e poi io ero solo, faceva freddo e c’era la nebbia. Pensavo al mare di Lecce, ai bagni che facevamo anche a ottobre inoltrato, e mi veniva voglia di scappare, di tornare a casa. Solo un pensiero mi teneva lì: l’idea che se fossi tornato, lo avrei fatto da sconfitto. E questa cosa non la potevo proprio accettare. Allora ho stretto i denti».
Di lei si dice che è uno che non molla mai. È vero?
«Se penso alla mia vita la vedo come una serie di salite. Le ho fatte tutte, nessuna esclusa. Le salite, se sei abituato a vedere solo quelle, alla fine ti sembrano discese. E non stai più a pensare all’inclinazione: sai che devi andare e vai. Quando arrivi in alto è normale che aumentino le aspettative e la pressione. Hai due modi di reagire davanti alla pressione: o ti lasci sopraffare – e lei ti uccide – oppure impari a portarla dalla tua parte, a fartela amica e usarla a tuo vantaggio. Io credo di avere imparato a fare questo».
Però fa vivere sotto pressione anche i suoi giocatori: si dice non comunicasse mai gli orari degli allenamenti del giorno successivo per tenerli sempre pronti. Ha mai visto qualcuno soccombere?
«Quando ero ragazzino sì: c’erano dei talenti pazzeschi, gente infinitamente più brava di me che però non andava da nessuna parte perché non aveva la testa vincente. Magari la colpa era anche dei genitori che gli buttavano addosso tutte le loro ansie. Sa come si dice, no? Che i calciatori dovrebbero essere orfani perché solo così possono seguire il loro cuore».
Anche a livelli altissimi c’è chi non regge lo stress?
«Se arrivi in serie A e in Nazionale il talento non ce l’hai solo nei piedi».
Ma lei non si agita mai?
«Il giorno peggiore è il giorno prima. Vado a dormire e penso: avrò fatto tutto? Avrò detto tutto? Poi mi sveglio ed è “il giorno”, allora la tensione diventa grinta. Dico solo una preghiera appena prima della partita, in solitudine. La fede è una cosa personale».
Che cosa le dà forza?
«Vincere. Ma è un verbo di cui ho grande rispetto e che uso poco. Quelli che lo pronunciano troppo spesso sono quelli che non vincono mai. La vittoria è un viaggio lungo e difficile, un percorso fatto di sudore, lacrime e a volte anche sorrisi. Se sai quanto è faticoso non ne parli a vanvera».
Qual è stata l’esperienza che le ha insegnato di più?
«La strada. E non voglio dire la strada nel senso di droga e criminalità: ai tempi miei queste cose non c’erano. Intendo la strada come posto in cui te la devi cavare un po’ da solo, nel bene e nel male. Magari le prendi anche e impari presto che non puoi andare a casa a piangere da mamma e papà. La strada è stata un’esperienza importante, una maestra i cui insegnamenti mi sono utili anche adesso. Mi ha dato la forza di conquistarmi tutto solo grazie alle mie mani. Non devo ringraziare nessuno, nemmeno le botte di fortuna. Solo me e la mia famiglia».
Meglio calciatore o allenatore?
«Come calciatore non avevo un grandissimo talento, mentre penso di averlo come allenatore. Si dice che i c.t. migliori siano quelli che hanno giocato a centrocampo, come me, perché è il posto in cui vedi tutto».
E quale sarebbe il talento che sente di avere?
«Le idee, non difensive ma offensive. Io penso che ci si possa difendere attaccando».
Lei è un allenatore amato dalla squadra? Ma soprattutto: un allenatore deve essere amato dalla sua squadra?
«L’allenatore deve essere amato dai tifosi, non dalla squadra. La squadra deve avere stima e rispetto, ma l’amore no».
Esiste l’amicizia nel calcio?
«So che ci sono grandi amicizie, ma la mia esperienza è diversa. Chi fa questo lavoro si sposta spesso, cambia squadra, città, a volte nazione. Magari un anno ti frequenti tantissimo con le famiglie e l’anno dopo non ti parli nemmeno più. Forse è un po’ amaro, ma è così. Il calcio è un lavoro in cui ci sono di mezzo tantissimi interessi. Gli unici calciatori che sono davvero miei amici sono quelli che ho conosciuto alle giovanili del Lecce, da ragazzino».
La Puglia è sempre casa?
«Sono un uomo meridionale, con valori e anche ostinazioni da meridionale. Ma gli anni passati al Nord ormai superano quelli trascorsi al Sud, per cui adesso forse sono un uomo del Centro. In Puglia torno spesso, appena posso, ma vivo a Torino da 24 anni e lì sto facendo crescere Vittoria, mia figlia».
Che bambina è?
«Normale: scuole pubbliche, vita semplice. Quando siamo in giro insieme e mi chiedono una foto, lei si fa da parte. Un paio d’anni fa, aveva cinque anni, viene da me con carta e penna e mi dice: “Scrivi”. Vedeva che facevo sempre autografi, non capiva cosa fossero».
Della sua vita sentimentale non si sa niente: come ha conquistato sua moglie Elisabetta?
«Conoscevo la sua famiglia da anni, perché eravamo vicini di casa. Elisabetta è più giovane di me di sette anni e poi era sempre fidanzata, quindi non l’ho mai guardata diciamo con quell’occhio. Poi, quando ho smesso di fare il calciatore, abbiamo iniziato a incontrarci negli stessi locali e finalmente una sera siamo usciti insieme da soli. Per fortuna non era fidanzata».
Un figlio era nei suoi progetti?
«Sì, perché sapevo che sarebbe stata una bella cosa, anche se non immaginavo ancora quanto. Un figlio ti insegna davvero che cos’è l’amore. Prima, e senza di lui, non lo sai».
E perché allora non ne ha fatti prima?
«Perché non avevo incontrato la donna giusta. Anche se io sono sempre stato uno da storie serie: tre anni, cinque anni. Anche di convivenza. Sa com’è quando vivi da solo: una sera la riaccompagni a casa, ma quella dopo sei stanco e allora dici: dai, fermati. Poi lei si ferma una volta, due volte, alla terza lascia lo spazzolino e un minuto dopo stai già convivendo».
Lei ha paura di perdere?
«Io preferisco fare e sbagliare. Quelli che vivono al minimo sindacale non mi piacciono per niente».