varie 28/1/2015, 28 gennaio 2015
L’elezione del presidente della Repubblica. Dodici articoli
1. MARCO GALLUZZO, CORRIERE DELLA SERA -
Berlusconi diceva di mangiare banane acerbe, perché antiossidanti, Matteo Renzi smentisce di mangiare banane, nel numero di due al giorno. In una giornata confusa, in cui il premier incontra gran parte delle forze parlamentari, dalla Lega ai Popolari, da Forza Italia al partito di Alfano, chi gli sta accanto smentisce sia le ricostruzioni sul profilo del nuovo capo dello Stato che il capo del governo avrebbe tratteggiato agli interlocutori, sia il fatto che per mantenere il ritmo di lavoro di questi giorni mangi, appunto, banane.
Fra smentite ed incontri l’unica certezza è che Renzi non fa ancora il nome, non scioglie la riserva, cosa che avrebbe anche fatto indispettire Berlusconi, stanco di attendere chiarezza. E anche di essere solo uno dei tanti interlocutori, mentre l’aspirazione sarebbe quella di avere un ruolo più visibile, in omaggio al patto del Nazareno. Ieri però almeno una cosa è filtrata con certezza, la rivendicazione da parte del premier di una sorta di primazia: «Rappresento il 47% dei grandi elettori e questo significa che nessuno può avere un diritto di veto, sia dentro che fuori la maggioranza», sarebbe stato il ragionamento, fatto in primo luogo alla delegazione azzurra, alla quale ha partecipato anche Paolo Romani, che poi assicurerà: «Siamo d’accordo che il gruppo pd e l’area moderata possano essere determinanti alla quarta votazione».
L’ex Cavaliere vedrà solo oggi Renzi, probabilmente all’ora di pranzo, ma Renzi oggi rivedrà quasi tutti. E se tutti hanno in qualche modo creduto di capire che si sta orientando su un politico, Renzi stesso fa dire al suo staff che non è escluso nulla, nemmeno il nome di un tecnico.
Nei confronti di ieri, iniziati di prima mattina Renzi avrebbe anche ventilato una crisi di legislatura se si dovesse imporre in Parlamento un’indicazione contraria a quella gradita ai vertici pd. Anche questa indiscrezione, però, è stata smentita con un comunicato ufficiale del Pd. Anna Finocchiaro, Sergio Mattarella, Pier Carlo Padoan e Piero Fassino: i nomi che continuano a circolare, e che gli interlocutori di Renzi attribuiscono ad una rosa di gradimento del premier, sono questi. Ma almeno il terzo sarebbe in posizione defilata se è vero quello che hanno compreso quasi tutti gli interlocutori del presidente del Consiglio: un orientamento più deciso verso la figura di politico; lo dice il ministro Stefania Giannini, che rappresenta Scelta civica, lo ripete il ministro Angelino Alfano, anche lui dopo essere stato a colloquio con il capo del governo. Alfano fa anche previsioni: il giorno decisivo è sempre sabato, ma potrebbe essere alla quinta votazione. «Non ha fatto alcun nome e nessuna ipotesi», ha invece detto Matteo Salvini, uscendo dal Nazareno, «e questo mi preoccupa». La Lega è orientata, ha aggiunto, a votare un nome di centrodestra nelle prime votazioni, poi si vedrà. In serata, dopo la delegazione di Forza Italia, il capo del governo incontra anche i Popolari e Sel. Avrebbe dovuto incontrare anche i fuoriusciti dell’M5S, bloccati però all’esterno della sede del Pd da una contestazione dei grillini che hanno urlato agli ex compagni «Venduti, ridateci i nostri voti!».
«Lavoro così tanto che nemmeno sento la stanchezza, sono sul pezzo almeno 14 ore al giorno», avrebbe detto Renzi nel corso degli incontri, dettaglio questo non smentito. Oggi si ricomincia, dalle 8 del mattino il premier incontrerà di nuovo i suoi parlamentari, prima i deputati, poi i senatori, poi di nuovo gli alleati della maggioranza, poi Berlusconi, a meno di colpi di scena.
Marco Galluzzo
*****
2. MARIA TERESA MELI E FRANCESCO VERDERAMI, CORRIERE DELLA SERA -
È stallo. Nel gioco dei veti incrociati la trattativa sul Quirinale si arena. Il premier dovrà cercare di uscire oggi dalle difficoltà: decisivi saranno gli incontri con Bersani stamattina e con Berlusconi a pranzo. Per il leader del Pd la partita ruota attorno a tre quirinabili: «Amato, Mattarella e Padoan». Per ora sono questi i nomi su cui si concentra la mediazione. Ma proprio su questi tre nomi i kingmaker non riescono a mettersi d’accordo. Il premier si oppone all’ex braccio destro di Craxi: «Non posso accettare che mi venga imposta la candidatura di Amato sulla quale c’è già l’accordo tra Berlusconi e D’Alema». È il segno che Renzi sta cercando di bloccare un’operazione parallela e ostile al suo disegno.
Perciò proverà a rompere l’assedio cercando di convincere l’ex Cavaliere a cambiare verso, e partirà dal nome di Mattarella per verificare se ci saranno poi margini per altre soluzioni. Sarà solo la mossa di apertura ma si capisce che Renzi è ancora intrappolato nel gioco della rosa dei nomi, con le quotazioni dei candidati che variano ogni giorno. L’attenzione ieri si è concentrata su Finocchiaro, che la Lega sostiene in un’evidente manovra d’interdizione, per tentare cioè di rompere l’asse tra Renzi e Berlusconi. Non è chiaro in che modo il premier pensi di trovare un’intesa con il leader di Forza Italia, che da giorni gli fa sapere di essere indisponibile a votare per un candidato di area Pci—Pds—Ds-Pd. Dopo aver sostenuto le riforme e la legge elettorale, Berlusconi chiede un dividendo politico sul nome del prossimo capo dello Stato e non gradisce la lista che gli viene offerta. Non è un caso se persino Verdini, il più filorenziano in Forza Italia, sposa la linea del capo, chiede a Palazzo Chigi segnali di apertura, ed è critico con il premier: «A tutto c’è un limite».
«Sono stretto tra tecnici, comunisti e cattocomunisti», si lamenta il Cavaliere, che ieri è andato su tutte le furie dopo la dichiarazione del ministro Boschi, lieta che l’Italicum fosse passato «con i voti della maggioranza». L’idea di una «autosufficienza» del governo sul nuovo sistema elettorale gli è parsa come un avvertimento di Renzi in vista della corsa al Colle. E per certi versi è così: «Berlusconi sta tirando la corda — sostiene Renzi — ma non conviene nemmeno a lui romperla». Questo clima testimonia del muro contro muro tra il segretario del Pd e il capo degli azzurri, che in questa partita gioca all’unisono con Alfano.
L’asse tra Berlusconi e il leader di Area popolare sembra resistere. E agli amici di partito che continuano a dubitare dell’ex Cavaliere, il presidente di Ncd oppone una granitica sicurezza: «Tiene, il dottore tiene». Per questo ieri Alfano si è incaricato di tagliare la strada all’ipotesi Padoan, sostenendo che «il successore di Napolitano dovrà essere un politico, non un tecnico». Se l’opzione Amato è invisa a Renzi, Padoan era (e per certi versi ancora resta) il candidato su cui puntava (e punta) il presidente del Consiglio, perché la sua ascesa al Colle gli garantirebbe un doppio successo: controllare contemporaneamente il Quirinale e il ministero dell’Economia, da affidare a un fedelissimo.
Renzi però non può pensare di stravincere con i voti altrui, cioè con i voti di Berlusconi e di Alfano. Ma nemmeno con quelli di Bersani, che ha in mente una griglia di candidature: nella prima fascia si trovano Amato e Mattarella, ai quali darebbe il proprio consenso; nella seconda fascia ci sono i vari esponenti del Pd, che — in competizione tra loro — rischierebbero di dividere ulteriormente il partito; nell’ultima fascia c’è proprio il titolare dell’Economia, contro cui la minoranza interna esprimerebbe un pubblico dissenso, con effetti drammatici nella «ditta».
Ecco il pericolo che Renzi vuole scongiurare, per questo cercherà un appeasement oggi con Bersani: «Voglio fare un lavoro di coinvolgimento, che è l’unico modo per portare a casa il risultato senza spaccare il Pd». Non si capisce però come mai non abbia abbassato prima la tensione. O forse è chiaro. Il premier confidava in una sorta di caos ordinato dal quale trarre vantaggio per raggiungere l’obiettivo all’ultimo momento, giusto per non smentire il soprannome che gli hanno affibbiato in Consiglio dei ministri: «Last minute».
Il rischio ora è di dover trovare davvero «last minute» una soluzione, che nelle trattative per il Colle non è mai un buon viatico. Però è questa la prospettiva, se oggi non riuscisse a stringere un’intesa con Berlusconi e Bersani. Lo si capisce dal modo in cui il premier ieri ha avvisato i suoi interlocutori nei colloqui al Nazareno: «Sia chiaro, se non si arriva all’elezione del presidente della Repubblica entro la quinta votazione, dalla sesta saremmo liberi tutti». Una minaccia o un segno di difficolta? Il fatto è che il premier ha adottato diversi tipi di approccio nelle consultazioni. E se per un verso ha rassicurato la delegazione di Forza Italia, sostenendo che «non aprirò un altro forno con i grillini», per un altro ha messo sull’avviso i compagni di Sel: «Preparatevi, perché i vostri voti potrebbero diventare indispensabili».
Tre nomi e altrettanti veti. Come se nella sfida per il Colle mancasse ancora il vero quirinabile. O forse questa è la speranza di Renzi, che nonostante le difficoltà ieri spiegava agli alleati la strategia di comunicazione che ha in mente: «Se la scelta cadrà su un candidato popolare, che ci farà conquistare punti nei sondaggi, annuncerò il suo nome giovedì. Altrimenti lo farò venerdì». «Allora ci vediamo venerdì», si è sentito rispondere...
*****
3. PIERLUIGI BATTISTA, CORRIERE DELLA SERA -
S i dice sempre: mai fare nomi per non bruciarli. Dunque, per bruciarli tutti, se ne fanno mille. Mai come in questa lunga attesa per il nuovo presidente della Repubblica si sono nominate schiere di quirinabili, legioni di presidenziabili, eserciti di candidabili. Per non bruciarli, ovvio. Le volte precedenti, anche nelle elezioni più combattute, i nomi in lizza saranno stati quattro o cinque. Sembra un’era geologica fa (2013, nemmeno diciotto mesi) quando si proponevano «terne» di nomi. Poi certo i giornali si scatenavano nel toto Quirinale, ma mai con questa incontrollabile bulimia. Il conte Mascetti, indimenticabile personaggio di Amici miei del grande Monicelli, era ancora uno scherzo di una scheda beffarda da franco tiratore. Oggi Giancarlo Magalli è in testa alle classifiche dei quirinabili tracciate dal pubblico del Fatto quotidiano. Uno dei mille, forse, ce la fa.
Stiliamolo almeno in parte, questo interminabile elenco. Tra i politici politici sono affiorati i nomi di Walter Veltroni, Piero Fassino, Paolo Gentiloni, Romano Prodi, Pierluigi Castagnetti, Francesco Rutelli, Giuliano Amato, Sergio Mattarella, Pier Ferdinando Casini, Pier Luigi Bersani, Dario Franceschini. Senza volerli bruciare sono stati fatti poi i nomi di Gustavo Zagrebelsky, Gino Strada, Stefano Rodotà, Ferdinando Imposimato, Mario Draghi, Ignazio Visco, Antonio Martino. Milena Gabanelli torna per la seconda volta. Matteo Salvini ha optato per il trio «Ostellino-Feltri-Panebianco». Gettonato Umberto Eco, ma anche Claudio Magris. Molto si è discettato su Sabino Cassese, su Ugo De Siervo (che dicono molto amico di Matteo Renzi, e dunque quirinabilissimo sebbene non conosciutissimo alle grandi folle), su Giuseppe De Rita, sulla giurista Marta Cartabia.
Per le quote rosa citatissima Anna Finocchiaro e, fino al momento del suo drammatico annuncio della malattia che la affligge, Emma Bonino. Si è fatto il nome della scienziata Elena Cattaneo, senatrice a vita e spavalda combattente contro le ciarlatanerie su Stamina. Anche Renzo Piano, architetto di fama planetaria e senatore a vita, è entrato nella rosa infinita. Anche Lorenzo Ornaghi, ex rettore della Cattolica ed ex ministro della Cultura del governo Monti (anche il nome di Mario Monti è affiorato qui e lì, sempre per non bruciarlo, per carità). Molti punti e nomine hanno conquistato Pier Carlo Padoan (e si fanno anche i nomi di suoi eventuali sostituti al ministero dell’Economia) e Graziano Delrio.
Si procede spesso per categorie di nomi, al fine di tastarne la credibilità: categorie di genere, di religione, di appartenenza (politico politico o politico della società civile?). Se ci vuole una donna, la Finocchiaro accresce le sue possibilità e il nome decolla.
Se si sceglie «la necessità di un cattolico al Quirinale», si spazia da Casini a Ornaghi a De Rita a Castagnetti. Poi ci vuole un identikit: uno che non sia di primo pelo ma nemmeno troppo coinvolto, di sinistra ma non feroce con la destra, con qualche esperienza amministrativa, tipo un sindaco. E allora ecco il nome last minute: Sergio Chiamparino. Poi si fa il nome istituzionale: Pietro Grasso. Se deve essere istituzionale e donna il nome d’obbligo è Laura Boldrini. E ogni volta pronunciano il nome come se fossero tutti al corrente delle cose più segrete del Palazzo. Oggi un nome, domani un altro nome. E così via. Un giorno sembra che sia Roberta Pinotti, ministro del governo Renzi ma senza nemici a destra. Un altro giorno, sempre che l’indicazione sia «donna», si impone con forza il nome di Paola Severino, che però il giorno dopo scompare (per la legge che porta il suo nome non la vorrebbe Berlusconi).
Un gioco a somma zero: troppi nomi significa nessun nome. Per aumentare l’attesa poi si dice che, non paghi delle legioni di nomi, Renzi starebbe per mettere sul tavolo il Nome risolutivo, la sintesi di tutti i nomi, politici e della società civile, donne e uomini, tecnici e non tecnici, di sinistra e di destra. Certo, non potrebbe essere Dario Fo, che pure è stato nominato. Ma manca pochissimo e il Nome non è ancora uscito. Basta avere pazienza e non credere pessimisticamente che ci sarà la bolgia dell’ultima volta. Se no, altro che conte Mascetti.
*****
4. GOFFREDO DE MARCHIS, LA REPUBBLICA -
Due incontri decisivi per capire se reggono i numeri dalla quarta votazione, se intorno al voto per il Quirinale si stanno costruendo manovre contro di lui. Matteo Renzi vede oggi Berlusconi e Bersani. Il primo colloquio è confermato ufficialmente dalle due parti. Il secondo, delicato quanto il primo, viene tenuto per il momento nascosto, ma il premier ha confidato ai suoi collaboratori: «Cercherò Pierluigi nelle prossime ore». Tocca a Renzi scoprire le carte, fare una proposta, eppure il suo obiettivo è anche svelare un’operazione che lo sta preoccupando non poco. «C’è un pressing fortissimo per Amato — racconta agli interlocutori —. La verità è che a favore di quella candidatura si è saldato un’asse di ferro tra Berlusconi, D’Alema e Bersani. Vediamo se nei colloqui decidono di battezzarlo ». Per il premier Amato è più di un fantasma. È un’ombra che si allunga sul suo futuro. Se è vero che sta diventando il candidato di alcuni suoi “avversari”, più interni che esterni, è vero dunque che al momento giusto un presidente della Repubblica frutto di tale accordo potrebbe tessere una trama alle spalle del suo governo. Basta un inciampo, un braccio di ferro con l’Europa e Amato sarebbe in grado di organizzare un cambio di fase per sostituire l’attuale presidente del Consiglio. È un incubo certo molto dietrologico, ma «l’assedio» che Renzi denuncia stimola la sua innata diffidenza. «A quel punto io devo subito contrapporre un’alternativa», spiega infatti il premier. Lui giura di tenersi «tutte le strade aperte». Due schemi però stanno prendendo il sopravvento. «Nel primo blocco di miei candidati metto Mattarella e Padoan». Ipotesi non semplici da realizzare. A Mattarella si oppone Berlusconi con un veto motivato come una sentenza. «È uno Scalfaro 2.0», ha detto il Cavaliere durante una cena qualche giorno fa. Scalfaro è stato il presidente più odiato dalla galassia berlusconiana. Padoan invece, secondo Renzi, sconta i dubbi della minoranza Pd: «Non vogliono un tecnico ».
Il gioco dei veti incrociati è quindi nella sua fase acuta. Negato da tutti eppure pienamente funzionante. Questo è il gioco che Renzi deve spezzare. Il secondo blocco di nomi mette insieme Piero Fassino e Graziano Delrio, due dirigenti del Pd in carica, mentre Veltroni, a Palazzo Chigi, viene descritto come un nome con poche chance. Il premier, non a caso, vedrà il sindaco di Torino oggi, tra Berlusconi e Bersani. Con Delrio non c’è bisogno di appuntamenti perché sono a contatto tutti i giorni. Nonostante le smentite su contatti e telefonate, Bersani è a conoscenza di questo schema perché da qualche giorno ripete agli amici: «Renzi gioca su due tavoli. Sul primo ci sono Mattarella e Padoan. Sul secondo Chiamparino, Delrio, Bassanini e altri». Ovviamente l’ex se- gretario preferisce lo schema numero uno. Il problema è che Berlusconi sta alzando l’asticella, forte del ruolo decisivo sulle riforme, dei numeri che al Senato hanno salvato l’Italicum. Può permettersi di dire dei “no” forti e chiari, di immaginare garanzie e salvacondotti che lo riguardano direttamente. Anche se a chi lo va a trovare ad Arcore racconta di aspettarsi subito un segnale dal nuovo presidente. «Abbiamo degli amici in carcere - è il suo ragionamento -. Un gesto di pacificazione? La grazia per uno di loro». Chi lo ascoltava ha subito pensato alla notizia fatta filtrare in questi giorni dagli avvocati di Marcello Dell’Utri: «L’ex senatore sta male, ha perso 12 chili». Richieste impossibili, forse, ma sono parole che fanno capire l’aria che si respira in Forza Italia. Ovvero l’aria di chi si sente determinante, di chi vuole far sentire tutto il suo peso nella scelta di un dominus della politica che non teme crisi di governo o elezioni.
È un peso inaccettabile per il premier. Che non nasconde il desiderio o la tentazione di smarcarsi. Alla delegazione dell’Ncd ieri ha chiesto a bruciapelo: «Ma voi rompereste l’intesa con Berlusconi per il Colle? ». Mettendo a rischio le riforme, sfasciando il patto del Nazareno? Non è un problema, a sentire Renzi: «Ormai l’Italicum va in porto». Come dire: e dopo si può anche andare a votare in pochi mesi. Matteo Salvini, racconta Renzi ai suoi collaboratori, sorridendo lo ha pregato: «Fate Amato. Così noi vi massacriamo per 3 mesi». A Ignazio La Russa, che era nella stessa delegazione della Lega, l’ex sindaco di Firenze ha domandato un parere legale: «Tu che sei avvocato: è vero che la regola del decreto fiscale sul 3 per cento non si applica a Berlusconi? ». La Russa ha risposto con una battuta: «È vero ma a Silvio piace lo stesso e sai perché? Vuole continuare a evadere tranquillamente ». È stato questo il clima del giro di consultazioni. I giochi veri si fanno da oggi e possono andare avanti fino a sabato, il giorno della quarta votazione.
*****
5. CARMELO LOPAPA, LA REPUBBLICA -
«Noi i patti li abbiamo rispettati, l’Italicum è passato coi nostri voti determinanti. Ora Matteo dovrà tenerne conto e rispettare gli impegni». Silvio Berlusconi catechizza i capigruppo Brunetta e Romani, con Toti, la Bergamini, Gelmini e Bernini, prima che raggiungano Renzi per la consultazione al Nazareno. Alle 19 vanno loro, lui non si presenta: non è quella la sede migliore e il contesto ideale per entrare nel vivo della trattativa. Perché «ora è il momento di scoprire le carte, non possiamo più restare al buio» ammonisce il leader di Forza Italia quando a ora di pranzo riunisce a Palazzo Grazioli lo stato maggiore del partito. Ecco perché chiede e ottiene dall’inquilino di Palazzo Chigi un faccia a faccia più ristretto, che avverrà oggi a ora di pranzo nella sede neutra del governo con i compagni di summit più fidati, Verdini e Letta con l’ex Cavaliere, Guerini e Lotti col presidente del Consiglio.
Renzi al Nazareno avrebbe rassicurato i forzisti: «Il presidente voglio eleggerlo con voi, ma ricordate che ho pur sempre il 47 per cento dei grandi elettori ». Come dire, massima apertura al confronto, ma niente veti. Quando lo hanno raccontato a Berlusconi, il leader è sbottato: «Lui non vuole veti, ma noi non vogliamo imposizioni». Ed è ripartito con l’arringa sull’identikit: «Dopo tre presidenti di sinistra, vorremmo che il presidente non appartenesse alla sinistra militante e che fosse di alto profilo, riconosciuto all’estero ». Nel faccia a faccia di oggi si appresta a rilanciare su Giuliano Amato. Con l’outsider Pier Ferdinando Casini in seconda battuta. Raccontano che i tre nomi usciti dal frullatore delle consultazioni di ieri al Nazareno non piacciano per nulla al leader forzista. Non il «tecnico » Padoan, non più di tanto l’ex segretario ds Fassino, non il pur moderato Mattarella, «che rischierebbe di trasformarsi per noi in un nuovo Scalfaro e non possiamo più permettercelo». Si dice non veda male Anna Finocchiaro, in quanto donna e in quanto non renziana di stretta osservanza. «Siamo abbastanza d’accordo con Renzi sul fatto che il prossimo presidente dovrà essere una personalità di alto profilo e arbitro, che abbia dimestichezza politica, non un tecnico» racconta Romani al termine del colloquio col premier. «E vogliamo che ci sia un nuovo capo dello Stato alla riapertura delle borse lunedì», as- sicura Renato Brunetta, augurandosi una chiusura tra sabato e domenica. Questa mattina l’ex Cavaliere incontrerà Angelino Alfano, i due insistono sulla necessità di «fare squadra» e far valere i loro 210 grandi elettori. Il fatto è che il segretario pd sul piatto mette i suoi 460 (al netto dei potenziali franchi tiratori).
Berlusconi sa che Amato non è in cima alla lista di Renzi, tanto più che viene sponsorizzato da lui e Bersani. Detto questo, starà attento a non porre veti, oggi a Palazzo Chigi. Consapevole, come va ripetendo Giovanni Toti, che nella partita si entrerà sul serio venerdì, alla vigilia del voto «decisivo». E che il capo forzista se la dovrà giocare al telefono da Arcore (rientro obbligato giovedì sera). Certo è che qualcosa oggi pomeriggio alle 16, nella sala dei gruppi di Montecitorio, Berlusconi dovrà pur dire ai 140 parlamentari grandi elettori convocati a 24 ore dalla prima votazione. Per lui l’assemblea rischia di trasformarsi in una fossa dei leoni. Ieri al Senato in 18 forzisti, dopo aver incontrato Raffaele Fitto, hanno rotto col resto del gruppo e sono usciti dall’aula in dissenso sull’Italicum. E ora? Rompete le righe anche sul Quirinale? Coi suoi il capocorrente pugliese, che in serata ha visto anche i deputati, è schietto: «Di certo, Berlusconi può scordarsi questa quarantina di voti se pensa di comunicarci il nome via sms sabato mattina». Ormai, sostiene Augusto Minzolini, il leader si può salvare «solo se riesce a strappare Amato o Casini, qualsiasi altro nome sarà un’imposizione di Renzi e lui ne uscirà sconfitto».
*****
6. CARLO BERTINI E UGO MAGRI, LA STAMPA -
Il braccio di ferro continua. Da una parte Renzi, che ha in testa un identikit di Presidente molto solido ma altrettanto rispettoso dei propri limiti costituzionali. La sua attenzione si concentra sempre più su Sergio Mattarella, sebbene anche Padoan gli piacerebbe (meno al grosso del Pd), senza bocciare definitivamente una donna nella persona di Anna Finocchiaro. Dall’altra parte del tavolo si oppone il centrodestra nelle sue varie connotazioni. All’unisono come ai vecchi tempi, Berlusconi e Alfano insistono per insediare sul Colle un «moderato» a scelta tra Amato e Casini. Lì eravamo e lì siamo quando mancano 72 ore alla quarta votazione, quella che potrebbe essere decisiva.
Tenaglia pro Amato
Nella narrazione che rimbalza tra i palazzi, il premier soffre il pressing sempre più asfissiante a sostegno del «Dottor Sottile». Ai suoi occhi lo vogliono in tanti, anzi in troppi, al punto da insospettirlo. Come mai, si domandano al Nazareno, i «compagni» sono così scatenati per Amato? Tutto questo favore nel giro dalemiano, unito alle indicazioni che giungono dal socialismo d’oltre confine, per non dire delle lobbies di alto profilo europeo e occidentale già entrate in azione, tutto questo dà a Renzi la sensazione di un vero assedio. Ma più quelli insistono, e più lui si irrigidisce. «Il Rottamatore che accetta di proporre Amato, proprio non ce lo vedo», sussurra un dirigente Pd.
La risposta del premier
Fa perno su un altro giudice costituzionale: anziché Amato, Renzi punta semmai su Mattarella. Ragiona a voce alta un ministro che peserà nella conta dei voti: «Serve una figura con una storia e un’esperienza che lo mettano in grado di superare indenne gli stress test del Quirinale». Il premier sa che l’anima democristiana sarebbe tutta con lui, che la «ditta» bersaniana non avrebbe da obiettare e perfino la sinistra di Sel (con propaggini grilline) sarebbe disposta a convergere su Mattarella. In Transatlantico sono stati visti confabulare in crocchio Franceschini, Fioroni, Enrico Letta e la Bindi: segno che il ferro è rovente. «Se si sceglie bene, alla quarta votazione il candidato passa alla grande, altrimenti per noi cattolici si ricomincia dalla sesta», scherza ma non troppo Fioroni.
Pressione sul Cav
Forte di questi convincimenti, oggi Renzi tenterà di mettere Silvio con le spalle al muro. È previsto un faccia a faccia tra i due, dopo che ieri sera Berlusconi aveva snobbato l’incontro tra le delegazioni ufficiali: lo considera un teatrino fastidioso, laddove a lui piacciono i vertici decisivi. Ma c’è chi ha colto nell’ex premier anche un certo fastidio, un malumore crescente (non lo ha certo rasserenato la zampata del pm che non vuole abbreviargli di 45 giorni la pena ai servizi sociali). Berlusconi già sa che Renzi gli confermerà il no ad Amato e cercherà di fargli digerire Mattarella. Il Cav resisterà, e non è solo: Alfano lo spalleggia nella speranza che la roulette si fermi quantomeno su Casini. Ieri mattina, con Renzi, Angelino ha sviluppato un ragionamento che mira alla persuasione: «Nel referendum confermativo, tra un anno, dovremo difendere nelle piazze una riforma costituzionale che porta il tuo nome. Dovrà farlo anche un partito come Forza Italia, che non fa parte della maggioranza. Sarebbe giusto tenere conto del sostegno che ti giungerà dall’intera area moderata...».
Se la maionese impazzisce
«Allora in quel caso potrei fare una “renzata”», va minacciando il premier. Ad esempio, se sabato non arriverà la fumata bianca, potrebbe estrarre dal cilindro personalità come Grasso, presidente del Senato, o il capogruppo Zanda. Oppure capaci di spiazzare l’opinione pubblica. Tipo Raffaele Cantone, «il censore» anti-corruzione.
*****
7. MARCO TRAVAGLIO, IL FATTO QUOTIDIANO -
Può darsi che, come dice Renzi senza precisare la settimana esatta, “sabato avremo il presidente”. Nel qual caso il premier avrà vinto la partita, chiunque sia il nome del prescelto. Che, comunque, sarebbe frutto del Patto del Nazareno, dunque un impresentabile: Amato (e ho detto tutto), o Fassino (quello del giro Quagliotti-Greganti e del “siamo padroni di una banca?”), o Finocchiaro (zarina di tutti gli inciuci, con marito imputato), o Chiamparino (che negli anni pari fa il politico e nei dispari il banchiere), roba così. Se invece, al quarto scrutinio, il Renzusconi non superasse il quorum, inizierebbe il massacro. Renzi, a quel punto, potrebbe giocare un’altra carta, sempre con B. Oppure rivolgersi ai 5Stelle. I quali, questa volta, non avranno un candidato di bandiera, come nel 2013 fu Rodotà per la proterva insipienza del vertice Pd. Per non ridursi al ruolo di spettatori e giocare fino in fondo la partita, Grillo, Casaleggio e il direttorio chiedono al Pd una rosa di nomi da sottoporre agli iscritti. Renzi non li degna neppure di risposta, confermando ciò che abbiamo sempre sostenuto: è lui, non loro, a rifiutare il dialogo. Però alcuni spiriti liberi del Pd alla email hanno risposto col nome di Prodi. È probabile che il Prof – sebbene sia un padre dell’euro – risulti, agli occhi della loro base, il meglio o il meno peggio della compagnia cantante (è quel che non capiscono i nove sciocchini che ieri si sono sfilati per andare a chiedere, bel belli, a Renzi “un presidente fuori dal Nazareno”: roba da perizia psichiatrica). A quel punto, per Renzi, sarebbe un bel problema: come potrebbe giustificare dinanzi alla sua base un No al padre del Pd per non dispiacere al Caimano? L’uomo è capace di tutto, ma a tutto c’è un limite. E quel limite potrebbe essere Prodi, molto più popolare o meno impopolare delle suddette muffe.
Se alla fine il Prof salisse al Quirinale, Renzi potrebbe comunque intestarsi la vittoria, si riconcilierebbe con gli elettori del Pd che da mesi ingoiano guano, ricompatterebbe il Pd e il centrosinistra, metterebbe in sicurezza la maggioranza del suo governo e relegherebbe B. nell’angolo. Per sempre. Il Caimano fiuta il pericolo: infatti ieri ha fatto il ritrosetto, non certo per rompere, ma per alzare la posta del ricatto. Se Renzi invece perseverasse col Nazareno, la resurrezione di Lazzaro sarebbe completa. E tutti capirebbero finalmente che il Patto è ben più inossidabile e inconfessabile di quel che si racconta in giro. Un patto di mutuo soccorso fra il Pregiudicato e lo Spregiudicato, ma anche di mutuo governo e mutui affari (condono fiscale con salvacondotto a B., regali a Mediaset sulle frequenze, legge-regalo a Banca Etruria & famiglia Boschi). Ai tempi di D’Alema, Guido Rossi paragonò Palazzo Chigi a una “merchant bank dove non si parla inglese”. Stavolta l’inglese lo si parla eccome, viste certe fughe di notizie in quel di Londra. Così, alla fine, potrebbe chiudersi questa partita cruciale: B. che, di nuovo a piede libero (i servizi sociali scadono a marzo), entra ufficialmente nella maggioranza e forse nel governo in attesa dell’“agibilità politica” (salvacondotto fiscale o grazia dal nuovo presidente scelto anche da lui). E intanto regolare i conti a destra. L’orrendo Italicum votato ieri al Senato, checché se ne dica, gli sta a pennello: il premio di maggioranza alla lista che arriva al 40% costringerà i partitini, Ncd in testa, a rientrare precipitosamente all’ovile di Arcore per non sparire; e gli consentirà, se arriverà secondo, di nominarsi tutti i deputati (i capilista bloccati, a cui solo chi arriverà primo aggiungerà qualche decina di eletti con le preferenze). Ma, di questo passo, non è neppure escluso che arrivi primo. Pare un film horror, della saga Il ritorno dei morti viventi, ma è così. Complimenti al regista.
*****
8. WANDA MARRA, IL FATTO QUOTIDIANO –
Dobbiamo concentrarci su un politico vero. Magari un ex segretario”. Durante una pausa delle consultazioni (quelle ufficiali) ieri al Nazareno, Matteo Renzi ragionava così con la “delegazione” Democrat (i vicesegretari, Guerini e Serracchiani, il Presidente Or-fini, i capigruppo, Zanda e Speranza). Un ragionamento, uno dei tanti. Una pista, una delle decine disseminate nelle ultime settimane. Il premier-segretario sta giocando una partita a poker, nella quale coltiva le aspettative di molti (che potrebbero rivelarsi troppi), non scopre davvero le carte con nessuno, accarezza il sogno di una figura il più incolore possibile al Colle. E siccome il gioco rischia di farsi sempre più duro, stamattina ha convocato di nuovo, prima i deputati (alle 8) e poi i senatori (alle 9 e 30). “Ci coccola un po’”, ironizza un senatore dem. Non farà nessun nome, fanno trapelare da Palazzo Chigi. E dunque è solo tattica: un modo perché nessuno possa dire di non essere stato coinvolto. Almeno formalmente. “Matteo decide tutto da solo”, ribadiscono i più disincantati.
Ma ieri è stata la giornata in cui il gioco ha mostrato le corde. Con tutte le correnti e le sotto correnti del Pd pronte a contarsi. A partire, appunto, dagli ex segretari. Piero Fassino è arrivato ieri sera a Roma, con una valigia carica di vestiti. Oggi andrà al Nazareno. Possibilità? “Ha un pessimo carattere”, ricordano i renziani. Pier Luigi Bersani ha fatto sapere che stamattina sarà alla riunione dei deputati Pd. Poi, dovrebbe incontrare Renzi. Il suo fedelissimo, Davide Zoggia, ieri contava i voti. Per chi? Forse per lo stesso Pier Luigi? Walter Veltroni è sparito. Una tattica vincente, in genere. Ma c’è un folto gruppetto (anche di renziani) che lavora per lui. Per ora, Matteo non lo vuole: troppo ingombrante. Dario Franceschini ha cominciato a muovere i suoi ufficialmente.
Lo schema, a un certo punto della giornata, sembrava quasi fatto. “Che ne dite di Amato? Di Padoan? Di Mattarella?”. L’sms dal cellulare di Renzi è arrivato negli ultimi giorni a vari parlamentari di seconda e terza fila. Per lusingarli, per controllarli. I nomi che circolavano a metà giornata, erano 5: oltre a Fassino, Chiamparino, considerato però troppo debole. E poi Amato, Mattarella e Prodi. Tutte figure di peso, che i voti li avrebbero. Ma Amato, Renzi non lo vuole: è il candidato di Bersani e Berlusconi e non piace all’opinione pubblica. Prodi è il vero cavallo di Troia che a Matteo non piace, ma potrebbe trovarsi sulla sua strada, se M5S e minoranze si coalizzano. Per stopparla, il modo più sicuro sembrerebbe quello di Sergio Mattarella, “il pareggione”, come per scherzo lo spiegavano a Montecitorio. Uno che non entusiasma nessuno, ma non inquieta davvero nessuno. Un cattolico, che piace a Fioroni e ex Dc. Molto meno agli ex Ds. A ringarbugliare la matassa, arrivano, infatti, i Giovani Turchi (la falange del Presidente Orfini) a metà pomeriggio. “Mattarella? Berlusconi non lo vota. Amato? Per noi va bene”, avrebbe riferito un esponente di rilievo a chi sta facendo i conti. Il loro candidato originario era Padoan, che però sembra tramontato, in favore di un politico. In alternativa Amato. O la Finocchiaro, gradita a B., votabile dalle minoranze, spinta dalla Boschi. Un nome a cui si sta lavorando, proprio su input di FI. Ma davvero Renzi può proporre il nome che bruciò due anni fa? E soprattutto, sembra poco aggirabile il processo in arrivo per il marito, agli occhi di Matteo. E allora? “Se Renzi ci fa un nome, noi lo votiamo. Veltroni? Votiamo anche lui”, spiega un Giovane Turco di peso. La sfida è questa: Renzi si decida. Ma anche proponga un nome che tenga conto delle volontà di tutti.
Sullo sfondo Graziano Delrio, che per molti resta la vera carta coperta del premier. Rientrerebbe in un gioco di accordi, che vedono la Boschi al suo posto a Palazzo Chigi, Ettore Rosato, luogotenente di Franceschini, al ministero delle Riforme, Valentina Paris, in ascesa nei Giovani Turchi, al posto della Lanzetta, al ministero degli Affari regionali. Ma non è un nome che Renzi può spendere con facilità. Troppo “renzino”, anche se B. dice di sì. Allora, alla quarta, quinta votazione, potrebbe arrivare pure Veltroni: “Matteo il suo nome non lo fa girare. È un modo per non bruciarlo”, spiega un fedelissimo del premier. Se la matassa s’ingarbuglia, potrebbe diventare una scelta obbligata. Berlusconi lo voterebbe, la minoranza dem difficilmente potrebbe dire di no, Renzi subirebbe un po’ d’ombra mediatica, ma condurrebbe comunque il gioco.
****
9. ALBERTO GENTILI, IL MESSAGGERO -
Chi ha parlato con Matteo Renzi lo descrive «sereno, tranquillo, ma anche preoccupato». Impegnato, minuto dopo minuto, ad aggiornare le quotazioni di ogni candidato in funzione della girandola d’incontri celebrati nella sede del Nazareno e dei numeri elaborati da Luca Lotti e da Lorenzo Guerini. Per chiarire il clima, viene riportata una battuta del premier: «Se sabato, alla quarta votazione la maionese dovesse impazzire, arriverà Jack lo Squartatore. E io potrei fare una renzata...». Come dire, scorrerà il sangue e io farò di testa mia.
Ma se davvero Renzi dovesse decidere il candidato per il Colle rinunciando alla mediazione, chi gli è molto vicino scommetterebbe che punterebbe sul ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, «che tecnico non è, visto che fa la politica economica del governo». Oppure sul capogruppo in Senato, Luigi Zanda, anche lui ex Margherita, uno di cui ha imparato a fidarsi. O ancora sul suo sottosegretario alla Presidenza, Graziano Delrio.
Ma secondo molti renziani, la prima scelta del premier sarebbe l’ex capogruppo del Pd in Senato, Anna Finocchiaro. Perché piace a Silvio Berlusconi, perché ha esperienza politico-istituzionale e porterebbe in dote il marchio della Ditta (è ex Pci, ex Ds) caro a Pier Luigi Bersani. E, cosa non da poco, permetterebbe a Renzi di passare alla storia «come il primo ad aver portato al Quirinale una donna». Tant’è, che a palazzo Chigi c’è chi è pronto a scommettere che oggi, prima a Berlusconi e poi a Bersani (il tanto atteso faccia a faccia tra i due si terrà in giornata), proporrà di azzerare tutte le candidature e di puntare, appunto, sulla Finocchiaro.
Renzi, anche se dalla sua ha un patto blindato con Berlusconi «a prescindere dal nome», con la sola eccezione di Romano Prodi, è però ambizioso e non si accontenta di incassare un Presidente figlio soltanto del Patto del Nazareno. Tanto più che una scelta del genere potrebbe innescare, o accelerare, una massiccia scissione a sinistra. «Il problema di Matteo e il suo obiettivo», spiega il capogruppo centrista Pino Pisicchio, «è trovare un nome che metta insieme l’ex Cavaliere e l’intero Pd».
Verissimo. Così nelle prossime ore, prima della riunione di domani del Parlamento in seduta comune, Renzi farà di tutto per imbarcare la minoranza guidata da Bersani. Anche se a conti fatti, avrebbe i numeri per farne a meno, grazie al sostegno di Forza Italia, di Area popolare di Angelino Alfano e dei 35 transfughi grillini.
Per riuscire nell’impresa di ricompattare il Pd, lasciando fuori irriducibili come Pippo Civati o Stefano Fassina «di cui a Matteo non frega un bel nulla», dicono i suoi, per forza di cose Renzi potrebbe essere costretto a rinunciare ai candidati invisi alla sinistra intera. Ad esempio Padoan e Delrio, ritenuti «troppi vicini a Renzi» e «non si è mai visto un Presidente che risponda al premier», ha confidato Bersani.
IL NODO DEGLI EX LEADER
Difficile, molto difficile, però che il premier ripieghi su qualche ex segretario della Ditta. Walter Veltroni, pur quotatissimo tra i parlamentari, è ritenuto troppo autonomo e ingombrante. Piero Fassino, apprezzato da Renzi, non godrebbe dello stesso seguito di Veltroni, al pari di Dario Franceschini. «E Bersani è un avversario e Matteo al Quirinale non ce lo metterebbe neppure morto», dice un renziano doc. E c’è da dire che nel gioco al massacro delle esclusioni, gli ex segretari stanno dando una grossa mano al premier: tra i quattro è scattato un velenosissimo carosello dei veti incrociati.
La minoranza, che non ha per nulla gradito il vis à vis di oggi con l’ex Cavaliere, comunque non sta a guardare. Per mettere in difficoltà Renzi, continua il forte pressing a favore di Giuliano Amato, graditissimo anche a Berlusconi. «Per Matteo sarebbe un disastro, vedrebbe rinnegati il cambiamento e la rottamazione che predica da anni», spiega un altro renziano di stretta osservanza, «in più si ritroverebbe al Quirinale un Presidente troppo autonomo, senza contare che la gente penserebbe che il vincitore della partita sarebbe Berlusconi».
Tutte ragioni, le sue, per stoppare il pressing scongiurando la saldatura tra Bersani e l’ex Cavaliere, individuando una terza via apprezzata dalla minoranza del Pd. E qui rispunta un nome ancora sulla breccia, quello di Sergio Mattarella. E’ vero che l’ex ministro dc, una persona dall’indiscusso spessore morale ed esperienza politico-istituzionale, non è gradito a Berlusconi. Ma trova consensi trasversali dentro il partito democratico. L’altra carta è quella del presidente del Senato, Piero Grasso. Sullo sfondo resta la candidatura di cerniera Pier Ferdinando Casini, un nome in grado di saldare i due fronti.
Alberto Gentili
*****
10. MASSIMILIANO SCAFI, IL GIORNALE -
Il Cile non è proprio dietro l’angolo ma per fortuna hanno inventato il telefono. Così l’altro giorno, quando Giorgio Napolitano l’ha chiamato, Walter Veltroni ha capito che era ora di tornare a casa. «Ti conviene abbreviare il viaggio - gli ha spiegato l’ex presidente - devi arrivare il prima possibile, al massimo giovedì». Ovviamente Veltroni gli ha subito dato retta. Del resto, lì dall’altra parte del mondo, aveva già fatto tutto: la visita alla casa di Nedura, l’incontro con la Bachelet, la proiezione del suo film su Berlinguer. L’ultima volta, nel 2013, Romano Prodi fu impallinato dai 101 mentre si trovava in Africa, si addormentò presidente e si sveglio pensionato. Meglio non ripetere l’errore, gli assenti hanno sempre torto.
Dunque, al di là delle schermaglie di questi giorni, delle cortine di fumo, dei tanti nomi sparati, le quotazioni dell’ex vicepremier ed ex sindaco di Roma devovo essere davvero ancora alte se a muoversi è un kingmaker come King George. Se infatti il nuovo presidente dovrà essere un personaggio del Pd, Veltroni è in prima fila. Abbastanza renziano, votabile dalla minoranza, potabile pure dal centrodestra: non fa parte del governo come altri candidati tipo Delrio e Gentiloni, non è mai stato ferocemente antiberlusconiano, non è un tecnico, anzi, nonostante si sia fatto parte dopo aver lasciato la segreteria, non ha mai rinnegato «la passione».
Un altro che ha buone speranze, se i tecnico sono davvero fuori gioco e se il Cavaliere toglierà il veto sugli ex segretari Ds-Pd, è Piero Fassino. Non è un caso che il sindaco di Torino si faccia vedere più a Roma che nella sua città. In ribasso invece quelli dell’area popolare, Dario Franceschini e Pierluigi Castagnetti, mentre la corsa di Sergio Mattarella, ex ministro con Andreotti e Prodi, giudice costituzionale, incontrà delle difficoltà: Berlusconi non lo vuole perché teme che sia «un altro Scalfaro» e Renzi nemmeno.
Resta in pista Anna Finocchiaro, che in teoria è un ottimo candidato di mediazione tra le diverse esigenze. Una donna al Quirinale: per il rinnovatore Renzi sarebbe un successo d’immagine. Ex magistrato, presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, parlamentare da tanti anni vicina a D’Alema e poi a Bersani, entrata nelle grazie del premier per l’aiuto dato alla Boschi per far approvare l’Italicum e la riforma di Palazzo Madama, in buoni rapporti con i capigruppo del centrodestra e con Napolitano, il che ha il suo peso. Ma secondo alcuni la Finocchiaro è frenata dai problemi giudiziari dell’ex marito.
Poi c’è Giuliano Amato, il preferito di Napolitano, che piace a tutti quelli che contano, dall’America alla Ue, dal Vaticano ai grandi mandarini di Stato, ma non agli italiani. Berlusconi e Alfano si sentirebbero garantiti da lui, a Bersani andrebbe benissimo, potrebbe essere eletto già giovedì pomeriggio, al primo scrutinio, però Renzi non è ancora convinto a dare il via libera. Il dottor Sottile non solo è un personaggio altamente impopolare per le pensioni e il prelievo forzoso, ma è anche forte e poco docile. Gli incontri di oggi tra il premier, il Cav e Alfano chiariranno molte cose. Ma a sinistra c’è chi spera ancora di rilanciare di nuovo Prodi, votandolo nei primi scutini e costringendo Renzi ad accodarsi. Però i grillini, fondamentali perché la manovra riesca, nicchiano. E attenzione, se la maionese impazzisce, Matteo è «pronto a fare la renzata».
*****
11. ANTONIO SIGNORINI, IL GIORNALE -
Dalla maggioranza avvertono: in questi giorni meglio non dare troppo peso alle parole di Matteo Renzi. Potrebbe avere messo in scena una di quelle tattiche che a Palazzo Vecchio conoscevano bene. Carte coperte fino alla fine, informazioni con il contagocce e contraddittorie, poi una sorpresa. Al netto di questo rischio, le parole che il presidente del Consiglio ha pronunciato ieri ai leader di partito che ha incontrato non lasciano scampo a diversi nomi finiti nella giostra delle candidature al Qurinale. In particolare quello del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Ieri impegnato in un’altra lunga giornata a Bruxelles tra appuntamenti europei - l’Ecofin - e gli inevitabili rimbalzi romani del toto-presidente della Repubblica.
Le novità sono uscite dalle consultazioni. Mentre Padoan faceva un’audizione al Parlamento europeo sulla governance. Prima l’incontro tra il premier Renzi e Alfano, al termine del quale il ministro dell’Interno ha fatto l’identikit del prossimo capo dello Stato come di «un uomo politico, che abbia solida esperienza nelle istituzioni, uno standing internazionale e niente scheletri nell’armadio». Poi la notizia, non di prima mano, della rassicurazione di Renzi: giusto, il prossimo presidente della Repubblica sarà un politico. A partire dalla quarta votazioni, arriverà un «politico europeo», precisava il viceministro Riccardo Nencini, capo della delegazione Psi e politico più vicino al premier di tanti esponenti Pd. Conferme da due gruppi minori, il Gal e il Maie. Un solo nome che arriverà giovedì e sarà di un uomo con un pedigree da politico.
Fuori Padoan, quindi. Rientra negli altri requisiti, prestigio internazionale e niente scheletri nell’armadio, ma non è di certo un politico doc, come i suoi principali concorrenti: Anna Finocchiaro Giuliano Amato, Sergio Mattarella, Piero Fassino.
Lo stesso Padoan - tra una dichiarazione sugli effetti della vittoria di Tsipras, un’altra sulla flessibilità e sulla affidabilità del debito italiano - si è tirato fuori dalla contesa: «Sono il ministro dell’Economia ed ho tanto da fare». Linea che in realtà Padoan tiene da tempo. Al ministero hanno impostato il lavoro sul medio-lungo termine e Padoan ha fatto di tutto perché fuori si sapesse. Nel suo ufficio di via XX Settembre non ci sono valigie pronte per un trasloco.
Che non ci abbia mai pensato, però, non è vero. Intervistato da Sky, alla domanda «voterebbe per se stesso» ha risposto: «Questa è una domanda che non si fa». Comunque «è un grande onore essere considerato per questa carica».
Resta anche il dubbio che il premier lo abbia veramente voluto escludere. C’è il fattore prestigio internazionale e l’autorevolezza, che sono requisiti che restringono la scelta - come ha ricordato ieri Corrado Passera, leader di Italia Unica: «Dei nomi che circolano ora, ben pochi superano la prova. Non si contano nemmeno sulle dita di una mano». Il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi parla di un «presidente della Repubblica autorevole, con competenze politiche ed economiche e con prestigio internazionale».
L’esperienza da ministro potrebbe essere sufficiente a considerare Padoan come parte del mondo della politica. Poi è stato direttore esecutivo del Fondo monetario internazionale per l’italia. E al premier fa sicuramente comodo avere al Quirinale un personaggio conosciuto negli ambienti economici internazionali.
Valutazioni di questo tipo ieri si facevano in ambienti della maggioranza. Segno che il nome di Padoan «non politico», non è ancora scomparso dalla lista dei potenziali presidenti della Repubblica da eleggere a maggioranza assoluta.
*****
12. MARIOLINA SESTO, IL SOLE 24 ORE -
I nove fuoriusciti del Movimento 5 Stelle che accettano di essere consultati da Renzi e che fanno arrivare a quota 35 i transfughi pentastellati, i 184 voti a favore dell’Italicum al Senato (quando la scorsa settimana l’emendamento Esposito aveva ottenuto solo 175 sì): questi due numeri ieri hanno fatto tirare un sospiro di sollievo agli uomini della maggioranza di governo che aggiornano il pallottoliere in vista del voto per l’elezione del successore di Napolitano. Le due cifre, infatti, danno un duplice segnale: da una parte si ingrossano le file dei possibili sostenitori del candidato che farà il Pd dopo le consultazioni con i partiti, e dall’altra si assottiglia il gruppo dei dissenzienti all’interno dei principali partiti, Pd e Forza Italia in primis.
Il peso degli schieramenti
Ricapitolando, sulla carta i grandi elettori del Patto del Nazareno (448 del Pd, 142 di Forza Italia e circa 200 dell’area centrista) contano su 750 voti quindi 77 in più del necessario alla prima votazione quando serve la maggioranza dei due terzi, quindi 673 voti. Ma le fratture all’interno di democratici e azzurri sconsigliano di rischiare, più sicuro aspettare la quarta votazione quando il quorum scenderà a 505 voti. Allora, sempre sulla carta, il “Patto del Nazareno” potrà contare su poco meno di 250 voti in surplus rispetto al necessario. Questo significa che l’alleanza potrà “permettersi” 250 franchi tiratori. Insomma un voto che dovrebbe essere blindato a meno di fronde dell’ultima ora che il voto segreto aiuta a manifestarsi.
I frondisti
Chi infatti in questi giorni sta tenendo sotto controllo i numeri che ciascun candidato potrebbe portare in dote guarda con apprensione a quel “Fronte del no” che potrebbe essere sottovalutato o sottostimato e comportare un doloroso insuccesso. Sommando i grandi elettori dei partiti di opposizione (Cinque stelle, Lega, Fratelli d’Italia, Gal e Sel) e i dissidenti del Pd, di Forza Italia e dei centristi si potrebbe arrivare ad una quota di 440-460 voti. Ma la performance ottenuta ieri in Senato sulla legge elettorale, insieme allo sgretolamento del M5S indurrebbero ad assottigliare questi numeri. I senatori dissidenti di Pd e Fi ieri in Senato sulla legge elettorale si sono fermati a quota 36 (24 democratici e 12 azzurri). Un numero che autorizza a immaginare scenari ben diversi rispetto a quelli che lasciavano prefigurare i 140 parlamentari raccolti da Bersani nella sua adunata della scorsa settimana.
Sembra che, al momento del voto, la fronda dei dissidenti tenda a ridursi inesorabilmente. Vero è che sull’Italicum il voto è palese mentre sul Quirinale esso sarà segreto ma, al momento, i segnali sembrano più di distensione che di tensione. Ovviamente, anche le ultime trattative di oggi tra i leader avranno il loro peso e potranno cambiare gli esiti della votazione finale. Il pallottoliere rimane un’incognita fino alla fine.
L’area centrista
Il quadro dei numeri nel puzzle dei grandi elettori si esaurisce con la componente di area centrista composta da una quantità di mini-gruppi: si va da Ncd all’Udc, da Scelta civica agli ex montiani, dai socialisti a Tabacci, dagli autonomisti a Gal. Piccole ed anche piccolissime formazioni che però messe insieme esprimono una quantità davvero rilevante di grandi elettori, 200 per l’esattezza, assai più dei Cinque stelle o di Forza Italia (130 circa). In teoria i centristi dovrebbero tener fede all’accordo con Renzi, ma anche qui alcuni voti potrebbero mancare. Soprattutto da Gal, ma non solo: ieri sull’Italicum al Senato si sono manifestati anche 4 dissidenti Ncd: non hanno partecipato al voto Antonio Azzollini, Paolo Bonaiuti, Luigi Compagna e Carlo Giovanardi.