Guglielmo Longhi, La Gazzetta dello Sport 28/1/2015, 28 gennaio 2015
CASSANO, UN DESTINO SEMPRE UGUALE
Cassano è andato via con i suoi progetti di cassanate non realizzate: l’ultima immagine che resterà a Parma è lui che parla con il capo ultrà dopo la sconfitta col Cesena. Faccia a faccia e quel dito più o meno minaccioso. Ma la storia era finita da tempo, game over: gli stipendi non pagati sono stati la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso di veleni e incomprensioni. Sembra che la settimana scorsa Donadoni volesse comunque mandarlo in panchina e Fantantonio non avesse gradito: da qui la lettera di sollecito, poi la rescissione del contratto. Antonio è così: prendere o lasciare. Molte squadre l’hanno preso per poi pentirsi, lui ha lasciato senza grandi rimpianti dopo 18 mesi, 56 partite e 18 gol. La ciliegina sulla torta acida di una stagione fallimentare. E ora? Cassano ha fatto perdere le tracce ieri in tarda mattinata a Collecchio dove ha pranzato con alcuni compagni. Aveva traslocato un paio di mesi fa, lasciando la casa in viale Rustici, zona elegante vicino allo stadio, dopo che un tifoso aveva ripetutamente attentato alla sua privacy: il paradosso di un animo inquieto che ama gli eccessi ma anche la riservatezza. In città si vedeva poco, di più nei primi mesi quando abitava in centro. Via dunque. Per andare dove? Dietro c’è un’altra squadra? Non il Toro o la Samp: Ventura e Mihajolivc temono che spacchi tutto. Forse il Bari, o il Genoa, o l’Inter di Mancini. «Ho fatto questo non per accasarmi altrove», ha spiegato dribblando anche l’ipotesi degli Usa. E quindi potrebbe pure fermarsi.
CITTà DIVISA Cassano era stato il regalo per il centenario della società, estate 2013. «Una stella ha scelto di venire qui e questo è motivo di orgoglio», disse l’allora presidente Ghirardi. Adesso a Parma qualcuno lo paragona a Schettino, altro che stella: «Un comandante che lascia la nave non è un bell’esempio». Ma c’è chi lo giustifica: «Non lo pagavano, ha fatto bene». Innocentisti e colpevolisti si dividono, basta fare un giro nelle sedi storiche del tifo, come il bar Gianni. Angelo Manfredini, presidente del coordinamento dei 44 club organizzati, prova a fare una sintesi: «Dispiace perdere un talento del genere, ma il rapporto era deteriorato. Più che per la retrocessione, che diamo per scontata, siamo stupiti dal comportamento della società». Già, oltre alla rassegnazione per la classifica, ci mancavano gli albanesi e i soldi promessi mai arrivati. Il sindaco Pizzarotti è preoccupato: «La città ha il diritto di sapere, la squadra non è solo affare privato». E poi: «Anche a una giornata di volo da qui milioni di persone non sanno dov’è Parma, ma conoscono Verdi, il prosciutto, il Parmigiano, il Parma calcio». Nostalgia delle buone cose e rabbia per le cattive: «Sono stato sollecitato a mettere in mora la società. Non posso farlo, ma chiedo al presidente un incontro».
IL PASSATO L’altra domanda che gira in città: questa rescissione si può considerare l’ennesima cassanata? Di certo è l’ultima trovata di un campione da sempre bipolare: belle parole all’inizio, polemiche alla fine. E sotto traccia la voglia di scappare davanti alle responsabilità. Roma è la prima grande piazza dove brucia il genio di Bari vecchia. Nella finale di ritorno della Coppa Italia 2003 col Milan insulta e poi fa il gesto delle corna all’arbitro Rosetti che lo ha espulso. Poi Madrid, dove Fantantonio sarà ricordato per i chili di troppo e le imitazioni. E dove entra in collisione con Capello che lo mette fuori rosa. Il destino è questo: rinascere e distruggersi, per poi rinascere. Come accade a Genova nel 2010, sponda Samp, che trascina fino ai preliminari di Champions. Poi inciampa ancora in un arbitro, Pierpaoli, contro il Torino. Proteste, secondo giallo, espulsione. Ma prima di rientrare negli spogliatoi Cassano gli lancia la maglia, minacciandolo: «Ci vediamo dopo, ti aspetto qua». Il peso specifico della cassanata raggiunge il punto più alto nel 2010 quando insulta il presidente Garrone che lo aveva invitato alla festa di un club. Parole terribili: «Non ci vengo, vecchio di merda!», urla davanti a Pazzini e altri giocatori. Fuori rosa, game over di nuovo. Non è finita. Il Milan lo cerca, Antonio fa le valigie di corsa. Durante la presentazione dice: «Se sbaglio qui, sono da rinchiudere al manicomio». Al Milan va tutto male, nel novembre 2011 scopre di avere un grave problema cardiaco. Striscione dei tifosi davanti all’ospedale: «Fantantonio non mollare, sotto la Sud torna a segnare». Anche la società lo aspetta dopo l’operazione. Ma questo non basta per farlo restare, uno come lui non si sente in debito con nessuno. E così nel clima da fine impero dell’estate 2011 (via Ibra, via Thiago Silva) Antonio attraversa il Naviglio. Si presenta all’Inter a modo suo: rinfaccia ad Allegri di essere stato poco utilizzato. Anni di tormenti. Lui se n’è andato portandosi dietro una specie di maledizione: l’incapacità di accattare la normalità, la voglia di fuggire. Dove rinascerà stavolta?