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 2015  gennaio 27 Martedì calendario

RIQUELME, L’ULTIMO DIECI LASCIA IL CALCIO

Se Paul Pogba è una scheggia di futuro piantata nel nostro presente – il prototipo di come saranno disegnati i grandi centrocampisti che verranno – Juan Roman Riquelme è un raggio di luce che ci arriva dal passato, e si spegne al capolinea di una carriera piena di spigoli e di rime, impastata di poesia e indolenza. A 36 anni, Riquelme lascia il calcio e ci perdiamo tutti qualcosa. Era l’ultimo numero 10 rimasto, un dinosauro di livello mondiale capace di raccogliere l’eredità degli Schiaffino e dei Rivera, di Platini e di Zidane. L’evoluzione della tattica ha portato all’estinzione del vecchio 10, che di solito era il giocatore più prezioso di una squadra: sinonimo di talento e creatività, distillato di tecnica e di genio, capacità di segnare ma anche arte dell’ultimo passaggio. Naturalmente continuano a esistere campioni con queste caratteristiche: ma vengono dirottati in altri ruoli, spesso da giovani, perché altrimenti non servono e non trovano spazio. Prendi Andrea Pirlo o Francesco Totti, per rimanere in Italia. Anche Leo Messi, del resto, è molto di più ma anche qualcosa di diverso dal 10 che porta sulle spalle.
In Argentina esiste una parola precisa per definire il vecchio 10. Si chiama «enganche», che vuol dire trequartista, e indica l’uomo che aggancia, cioè collega, cuce e tiene uniti il centrocampo con l’attacco. Riquelme non era un fulmine in campo, si sarebbe potuto sentire comodo in un match degli anni Trenta o Cinquanta. Siccome copriva poco, ha dovuto anche fare i conti con qualche allenatore che preferiva tenerlo decentrato, magari schierarlo all’ala, perché era lento. Ma la verità è che nessun uomo riesce a correre veloce come il pallone quando attraversa le linee. Riquelme sapeva fare questo, molto bene: attraversare le linee, con traiettorie che noi facevamo fatica solo a immaginare. Le sue visioni ci hanno riempito gli occhi.
Nato in una famiglia povera della periferia di Buenos Aires alla vigilia del primo Mondiale vinto dall’Argentina, Juan Roman è il maggiore di undici fratelli. Non è un marziano, ma si capisce che è un predestinato e le sue qualità non sfuggono a Carlos Bilardo che, nel 1996, da allenatore del Boca Juniors, lo va a prendere nell’Argentinos Juniors dov’era cresciuto, seguendo lo stesso percorso di Diego Maradona. Gli allenatori e El Diez, sono due capitoli molto importanti nella storia calcistica di Riquelme. Se Bilardo è quello che l’ha mandato in orbita, Hector Vieira – il successore – è il tecnico che ha relegato Juan Roman all’ala destra. Niente di memorabile. Carlos Bianchi, invece, è stato l’allenatore che ha esaltato il talento del trequartista, facendolo crescere in campo e fuori com’era successo a Rivera con Nereo Rocco. Tra il 1998 e il 2002 il Boca conquista una definitiva dimensione mondiale, vincendo ogni titolo possibile. In quella squadra ci sono Samuel e Burdisso, Basualdo, Tevez e Palermo e tutto ruota attorno al genio di Riquelme, che schianta anche il Real Madrid galactico, in una finale Intercontinentale a Tokio: due assist per Palermo, ed è fatta.
Nel viaggio da predestinato, non si può trascurare la tappa a Barcellona. Il trasloco comincia male. Doveva essere un viaggio in tandem con Carlos Bianchi, invece Riquelme parte da solo e in più sopporta lo stress del rapimento di un fratello, a scopo di estorsione. Il presidente blaugrana Gaspart è troppo debole per osare la carta Bianchi. Così al Camp Nou Juan Roman trova Louis van Gaal che lo porta nello spogliatoio e gli mostra un tavolo pieno di videocassette. «Sei il miglior giocatore quando tieni la palla – gli dice l’olandese – ma quando la perdi lasci la squadra con un uomo in meno; qua abbiamo un sistema e tu devi giocare da attaccante sinistro». Riquelme non ci sta, il divorzio è scontato. Il rilancio in Europa passa attraverso il piccolo Villarreal che l’Ingeniero Pellegrini costruisce attorno a Juan Roman. Il sottomarino giallo diventa uno squadrone, Riquelme lo trascina in Champions oltre all’Inter di Mancini e Ibra, fino a una semifinale con l’Arsenal. E là, sbagliando un rigore decisivo, l’argentino consegna al mondo la latitudine dei suoi limiti. Anche con Pellegrini, poi, finisce male. «El Mudo» parla poco e non si allena troppo. Per sua fortuna il Boca è una squadra dove può sempre tornare.
Nell’ottobre del 1997, Riquelme aveva sostituito Maradona nell’intervallo dell’ultima vera partita giocata da Diego, un superclasico col River. Alla fine del primo tempo il Boca perdeva 1-0, con Riquelme ha vinto 2-1. Un dozzina di anni dopo, Juan Roman aveva deciso di non giocare più in nazionale, finché l’allenatore sarebbe stato Maradona perché non gli piacevano le sue scelte e il modo di mettere in campo l’Argentina. C’è sempre stato un rapporto di amore e odio tra i due Diez, che ha come sfondo i milioni di tifosi del Boca, la loro religione. Per gli Xeneizes, ancora oggi, il dio non è Maradona ma Riquelme perché è con il suo genio che hanno goduto per anni, fino a diventare la squadra più titolata del mondo (in coabitazione col Milan). Dev’essere per questo che nel giorno in cui ha annunciato il suo addio al calcio, Riquelme ha lasciato le porte aperte alla prospettiva di tornare un giorno alla Bombonera da presidente del Boca. Come ha scritto Diego Latorre, in uno delle migliaia di tweet seguiti all’annuncio dell’addio, bisogna augurarsi che la vita restituisca a Riquelme la felicità che Roman ha trasmesso a tutti quelli che amano il calcio.