varie 27/1/2015, 27 gennaio 2015
Vigilia del voto per l’elezione del presidente della Repubblica. 12 articoli
1. FRANCESCO VERDERAMI, CORRIERE DELLA SERA -
Fidarsi o non fidarsi? Questo è il dilemma dei tanti kingmaker impegnati nelle mediazioni alla vigilia della corsa per il Colle. E nelle ultime ore le trattative sul prossimo capo dello Stato sembrano ricalcare per un verso certi canovacci delle opere shakespeariane, per un altro il copione del film La stangata . Perciò ogni considerazione e ogni espressione del volto dei protagonisti può significare una cosa e il suo opposto. Per esempio, cosa voleva davvero dire Renzi ieri, quando — nei suoi contatti riservati — ha previsto che «il nuovo presidente lo avremo tra la quarta e la quinta chiama»? E il dettaglio gli è sfuggito o è stato offerto di proposito ai suoi interlocutori?
Far scivolare l’elezione anche solo di una votazione, può far trasparire da parte del premier un segno d’incertezza, a sostegno della tesi che sia in difficoltà nella vertenza. Oppure il leader del Pd vuole far capire che non dispera di riuscire a convincere Berlusconi, deciso al momento a far valere i suoi tanti voti con altrettanti veti: su Padoan, su Mattarella, su Finocchiaro e su tutti gli ex segretari del Pci-Pds-Ds-Pd, compreso Fassino. Guarda caso proprio i nomi che stanno nella Renzi’s list.
Dall’altro lato della barricata, Bersani osserva lo sviluppo della situazione, e al pari del Cavaliere sembra per ora intenzionato a non offrire sponde: «Non si era mai visto un premier che avoca a sé le trattative per il Quirinale. Ma visto che ha deciso così, tocca a lui la soluzione». E Renzi dovrà trovarla prima di incontrare proprio Berlusconi e Bersani, gli unici che vedrà al riparo delle formali consultazioni con i partiti, e che — guarda caso — hanno un nome in comune nelle loro liste: quello di Amato, a favore del quale si sta esercitando sul premier una forte pressione.
Scartando l’opzione della «rosa di candidati», Renzi sta tentando di rompere l’assedio. Ma ci sarà un motivo se ieri la forzista Mariarosaria Rossi — fedelissima del Cavaliere — ha detto che «se si trovasse l’intesa su un nome condiviso, si potrebbe eleggere il capo dello Stato al primo voto»: era un chiaro «sì» ad Amato e un indiretto «no» alle proposte finora avanzate dal leader dem. Che nel frattempo ha cambiato (ancora) la sua road map. Se la scorsa settimana aveva anticipato di voler rendere pubblico il nome del prescelto «prima dell’inizio delle votazioni», adesso medita uno slittamento, «tra venerdì sera e sabato mattina», cioè a cavallo tra la prima e la seconda chiama, per evitare un’esposizione di quarantott’ore che rischierebbe di bruciare il suo candidato.
Anche questo sembra un segno di difficoltà se legato all’atteggiamento del Cavaliere, che non sembra dar segni di cedimento dinnanzi alle pressioni del premier su Delrio e soprattutto su Padoan. La versione di Berlusconi è che — dopo aver sostenuto le riforme e la legge elettorale — non può dare i suoi voti per il Colle a un ministro di un governo a cui non ha dato la fiducia. Men che meno al titolare dell’Economia. Ora il capo forzista si aspetta un dividendo, non vuole acconciarsi a una svendita che lo esporrebbe all’attacco interno di Fitto.
Ma la versione di Renzi è un’altra, almeno così è stato interpretato quel lampo sul suo volto mentre incontrava alcuni compagni di partito, che gli chiedevano lumi sui suoi pronostici, sul cambio di road map, sull’idea di tenere la carta coperta fino all’ultimo, sulla sua insistenza a puntare su Padoan. Un lampo, nulla più. Ma quel lampo ha fatto rammentare ai presenti cos’è accaduto solo due settimane fa: se sulla legge elettorale Renzi è riuscito a «convincere» il Cavaliere sul premio alla lista, perché non potrebbe riuscirci sul nome del futuro capo dello Stato?
D’un tratto ai dirigenti del Pd i tanti veti di Berlusconi sono parsi troppi perché il premier non riesca a scalfirne uno e giungere così all’obiettivo. Magari con il sostegno degli ex grillini, un drappello che alla vigilia del voto per il Colle si è trasformato in un piccolo esercito, e che Renzi coltiva e incontra, com’è accaduto con il deputato Rizzetti: se così fosse, grazie (anche) a loro potrebbe neutralizzare il veto dei bersaniani sul «tecnico» Padoan e ottenere il voto dei dalemiani. Ma Renzi è disposto a rischiare? Perché Berlusconi (per ora) non demorde, e l’asse con gli alfaniani di Area popolare regge, al punto che ieri il ministro Lupi ha posto pubblicamente il veto sui tecnici: «È stato Renzi a dire che la loro stagione è finita. E ora dovremmo eleggerne uno alla massima carica del Paese?». «Tra la quarta e la quinta votazione», ripete il premier: come avere a tennis due palle per il match-point, sapendo quanto è esile il confine tra un ace e un doppio fallo.
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2. FRANCESCO BEI, LA REPUBBLICA -
«La situazione s’è incartata ». La constatazione, amara e preoccupata, va per la maggiore a palazzo Chigi tra i pochi che hanno accesso davvero alle informazioni. L’ottimismo di maniera del premier ha lasciato il posto a un’analisi disincantata della partita in corso, dove le certezze sono poche e i sospetti aumentano. Renzi è stato costretto a prendere in mano il gioco in prima persona e diversi parlamentari del Pd sono stati svegliati in questi giorni da sms mandati di buon mattino dal capo del governo per chiedere nomi, rose, suggerimenti.
Da questa nebbia emergono quattro personaggi, ormai sufficientemente consolidati. Anzitutto c’è un braccio di ferro in corso su Giuliano Amato, una candidatura che al capo del governo non fa fare salti di gioia. Soprattutto perché si è convinto che, dietro Berlusconi (che ripete in ogni occasione privata quanto sia favorevole all’ex premier socialista), in realtà si muovano nell’oscurità alcuni suoi avversari interni. Dalemiani, lettiani e bersaniani. E proprio Enrico Letta, per dire dei rapporti ancora gelidi nel Pd, ieri alla Camera ha cambiato strada quando ha saputo che in un corridoio avrebbe potuto incrociare il premier. In ogni caso il caos delle correnti dentro al Pd, sottraendo potere negoziale al segretario, ha avuto l’effetto di ringalluzzire Berlusconi. Che si è potuto giovare dell’ulteriore iniezione di forza datagli dalla rinnovata alleanza con Angelino Alfano e l’Udc. Tanto che Renzi, nell’ultima telefonata avuta con l’ex Cavaliere, ha dovuto alzare i toni. «Insieme ad Angelino abbiamo 200 voti», ha scandito Berlusconi. Una prova muscolare a cui Renzi ha risposto così: «Bravi, ma non vi dimenticate che noi siamo in 460, più del doppio di voi». Successivamente, in un colloquio con Gianni Letta, ha ribadito il punto: «Non pensiate di approfittare di una mia debolezza perché sull’Italicum ho già ottenuto quanto volevo ». Per la verità, se Amato è il preferito dall’ex Cavaliere, l’altro uomo in pista per i moderati è Pier Ferdinando Casini. L’opinione del capo del governo sull’ex presidente della Camera non è negativa, anzi. Ma ai suoi ha posto questo quesito: «Perché il Pd dovrebbe rinunciare a esprimere una sua candidatura? Ci dovrebbero essere validi motivi che non vedo».
Tolto Amato, restano in campo altri tre nomi. Sergio Mattarella, giudice costituzionale, profilo istituzionale adatto. A Berlusconi tuttavia non piace, Renzi ha già preso nota sul suo taccuino del «no» del capo forzista. Anche se proprio il veto del leader di Forza Italia potrebbe servire strumentalmente a Renzi per togliere da Mattarella l’ombra oscura del patto del Nazareno e presentarlo alla minoranza Pd come il personaggio che può raccogliere i voti di tutto il partito.
C’è poi Piero Fassino, un altro candidato che potrebbe unire le varie anime del Pd in nome della Ditta. «Io vedo bene per il Quirinale - scherza Cesare Damiano una personalità di profilo alto...e magro. L’unico problema è che sarebbe più alto lui dei corazzieri». Veltroni invece, a giudizio dei renziani, non raccoglierebbe sufficienti suffragi nel Pd.
E arriviamo a Pier Carlo Padoan, l’ultimo petalo della rosa. Benché gli stessi renziani mettano in guardia il premier dal possibile accentramento di potere nella saldatura tra il Quirinale e la tecnostruttura del Ministero dell’Economia, al capo del governo sembra una buona scelta. Specie in un periodo non semplice sui mercati per via della Grecia.
Quanto il capo del governo tenga in conto la situazione internazionale e le ripercussioni dell’elezione del capo dello Stato sulla stabilità italiana è provato dall’indicazione impartita ieri ai suoi collaboratori: se anche il quarto scrutinio a maggioranza semplice dovesse passare invano, il presidente della Repubblica andrà «tassativamente» eletto domenica. «Prima che lunedì riaprano le borse». Un imperativo in nome del quale, se la situazione dovesse davvero incartarsi di brutto, Renzi sarebbe pronto a «tirare fuori una sorpresa». Fuori dal circuito di nomi su cui finora si è discusso. Se questi sono i ragionamenti a favore dell’economista Padoan, sul ministro ci sarebbe però una diffidenza di Berlusconi, tanto che a qualcuno ha confidato: «Se Renzi tira fuori Padoan noi gli facciamo il nome di un altro tecnico ».
Finito l’elenco dei papabili, a palazzo Chigi circola anche l’altra lista. Quella dei sommersi. Un rosario di candidature sparite dai radar, forse definitivamente. Sabino Cassese out, così come Ugo De Siervo. Fuori anche Sergio Chiamparino e Paolo Gentiloni. Il ministro degli Esteri, sostiene il premier, «è stato nominato da troppo poco tempo» per poter fare il gran salto. Lontani dal podio, come s’è detto, anche Walter Veltroni e Anna Finocchiaro. E tutti quei candidati che, anche nel lontano passato, anche a causa di famigliari a loro più vicini, siano finiti nelle pagine di cronaca giudiziaria. I collaboratori del capo del governo fanno notare che, quando ieri la deputata Ileana Argentin, nell’assemblea mattutina del gruppo, ha chiesto a gran voce che non sia scelto «nessuno che sia stato anche indirettamente sfiorato da vicende giudiziarie», Renzi annuisce vistosamente.
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3. STEFANO FOLLI, LA REPUBBLICA -
Oggi il Senato approva la riforma elettorale, il cosiddetto Italicum, e per il presidente del Consiglio si tratta di un successo indubbio. Nel corso delle settimane la rete degli oppositori ha prodotto il massimo sforzo per impedire o ritardare la legge, ma alla fine ha prevalso il patriottismo di partito. Fra i dissidenti qualcuno è rientrato nei ranghi, come sempre accade quando il risultato della battaglia è ormai deciso.
Renzi ha quindi vinto, ma non senza ferite più o meno profonde. Il Pd è scosso, logorato da una lunga tensione, e fra il premiersegretario e la minoranza il rapporto politico è più o meno inesistente. Come si dice in questi casi, il fuoco cova sotto la cenere. Quel che è certo, il giorno in cui il centrosinistra si è spaccato, permettendo a Forza Italia di rendere decisivi i suoi voti, qualcosa è cambiato nella complessa costruzione politica di cui Renzi vuole essere l’architetto. Berlusconi è diventato più forte e il presidente del Consiglio invece lo è meno. Oggi arriva il successo del voto finale sulla riforma, ma il quadro in ogni caso non cambia.
D’altra parte il patto con il leader di Forza Italia, che in apparenza ha retto alle scosse, non sembra più granitico come poche settimane fa. La spiegazione è semplice: il Nazareno vorrebbe essere un sistema di potere, ma in realtà è soprattutto un’intesa su singoli punti; per funzionare ha bisogno che l’elemento guida sia Renzi, con Berlusconi in un ruolo subalterno. Se il rapporto cambia, cominciano i problemi. Lo si è visto sulla questione fiscale, quando Palazzo Chigi non è riuscito a far passare la famosa clausola del 3 per cento e ha dato l’impressione - magari solo l’impressione - di essere indotto ad agire da una volontà esterna e impaziente.
In altre parole, se Berlusconi è capace di rimettersi al centro del palcoscenico, il patto si rivela tutt’altro che inattaccabile: oltre un certo limite Renzi non può seguire il suo partner e quando lo fa il contraccolpo è tale da vanificare il risultato. Lo vedremo in questa settimana, ora che la riforma elettorale viene archiviata, almeno al Senato, l’attenzione e l’incertezza si spostano al Quirinale, il crocevia cruciale della legislatura. E qui, a maggior ragione, si ripropone il nodo: se il patto fosse quella cornice rigida che molti descrivono, non ci sarebbe alcun dubbio: il presidente sarebbe eletto alla prima o seconda votazione. In realtà si naviga in alto mare e con molta nebbia attorno.
Il fatto è che Berlusconi, forte anche dell’alleanza con Alfano, non resiste alla tentazione di alzare il prezzo poiché vede in qualche difficoltà il suo interlocutore (e sarebbe strano il contrario, con un Pd diviso, gonfio di frustrazione, e sei o sette candidati eccellenti alla presidenza che si guardano in cagnesco). Così i nomi continuano a girare in modo vorticoso, ma in forme sempre meno credibili. Risultato, si crea una curiosa contraddizione.
Da un lato, c’è l’ottimismo conclamato del premier che garantisce il presidente eletto sabato prossimo: quarto scrutinio, quorum più basso. Dall’altro non è chiaro come si arriverà al traguardo, visto che non s’intravede una verosimile griglia di accordo trasversale intorno a un nome e un volto. Quello che si vede è un patto del Nazareno che regge, sì, ma in cui Berlusconi chiede di più, ossia un capo dello Stato non espressione della sinistra. E in cui Renzi non è ancora sicuro di riuscire a riunire i democratici dietro la sua leadership. I malumori sono diffusi, benché silenti, e dopo la conclusione della riforma elettorale sembrano attendere l’occasione per manifestarsi. A questo punto, delle due l’una: o il premier è in grado di presentare entro pochi giorni un candidato del Pd in grado di suscitare la minore ostilità possibile, oppure gli serve un’idea per uscire dalle sabbie mobili che lentamente cominciano ad agguantarlo.
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4. MARCO GALLUZZO, CORRIERE DELLA SERA -
Gli aggiornamenti su una partita che sta conducendo senza apparenti incertezze sono almeno tre: la conferma che il Pd voterà scheda bianca nelle prime tre votazioni, l’auspicio di avere già sabato, alla quarta, il nuovo presidente della Repubblica, soprattutto il fatto che il Pd «proporrà agli altri partiti non una terna, ma un nome solo, secco».
Renzi parla davanti ai senatori pd e fissa le tappe delle prossime ore: il dissenso interno c’è ancora, ma appare in qualche modo ingabbiato nello schema che sciorina davanti ai suoi. Cerca di spersonalizzare il percorso, che pure sta conducendo in parallelo con Berlusconi, dice che l’elezione del capo dello Stato, se qualcuno l’avesse scambiata per tale, «non è un referendum né sul governo né su di me». Si giocherà a viso aperto, e proprio per il fatto che su un tema così «non esiste disciplina di partito», chi non condividerà il nome che verrà scelto «dovrà dirlo in modo aperto».
Nel discorso focalizza il ruolo del primo partito di maggioranza, dice di «non scommettere sulla vostra fedeltà, ma sulla vostra intelligenza, sulla capacità di essere gruppo dirigente», con i corollari che ne conseguono: niente lotte personali, nessuna scelta per secondi fini, anche perché c’è da superare «la figuraccia» del Pd di fronte alla scelta di un capo dello Stato, quando in 101 bocciarono la candidatura di Prodi: esiste «un’esigenza di riscatto generale, come classe dirigente di questo Paese».
Tuttavia il premier non scommette sull’unità, sa già che in molti marcheranno una differenza, ricorda che per Ciampi si registrarono 180 franchi tiratori, mentre per Cossiga furono 170. «Ma i nomi dei candidati non li facciamo perché poi decidano altri»: il richiamo è ancora all’assunzione di una responsabilità che due anni fa non fu esercitata.
Infine, la scelta del nome non sarà «contro nessuno, nemmeno contro il patto del Nazareno». È probabile che il velo Renzi lo alzerà solo sabato mattina, prima della quarta votazione. Emerge l’ipotesi che la scelta possa cadere su una donna: «È un’anomalia che non ce ne sia mai stata una, ma non è dirimente, non so se ci sarà lo spazio, verificheremo». Di sicuro «deve essere una persona capace di resistere a stress test». Napolitano ne ha superati tanti, il successore non potrà non avere esperienza e polso in abbondanza.
In serata, alla Camera, incontra alcuni parlamentari 5 stelle, che finora hanno rifiutato il dialogo (secondo lui) o accusato Renzi di rifiutarlo (secondo loro): «Se volete venire a discutere nella sede del Pd, venite. Ma direi che non volete metterci piede...». A uno di loro, Alfonso Bonafede: «Ehi, biondino... Com’è andata col Csm?», riferendosi a un dialogo che, in quel caso, fu proficuo. E a fine giornata, mentre va in onda Piazza Pulita , twitta: «Trame, segreti, finti scoop, balle spaziali e retropensieri: basta una sera alla tv e capisci la crisi dei talk show».
Marco Galluzzo
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5. ALESSANDRO TROCINO, CORRIERE DELLA SERA -
«Vedrete, saremo spregiudicati, stavolta potremmo votare candidati a sorpresa: pure Prodi o Bersani. Però non abbiamo ancora deciso che fare». Il peone a 5 Stelle, nella sua esagerata concitazione, rende bene il clima che si respira nel Movimento. Clima frenetico, molto nervoso. Ieri Grillo e Casaleggio si sono sentiti più volte con il direttorio, che già oggi potrebbe essere a Milano. Saltate le Quirinarie, non è stata convocata l’attesa assemblea plenaria. Verticismo esasperato e reiterato che è il detonatore di un nuovo esodo di massa: per oggi alle 10 è fissata una conferenza stampa, preludio a un annuncio: l’abbandono della scialuppa per una decina o più di parlamentari. Annuncio clamoroso, visto che già in 26 hanno preso il largo. E visto che sarebbe in libera uscita anche il loro voto per il Quirinale. Il che renderebbe ancora più complicato il quadro del voto extra Nazareno. Grillo e Casaleggio ieri hanno inviato una lettera aperta, con questo incipit: «Cara/caro parlamentare del Pd». Visto che Renzi non risponde, i due si rivolgono direttamente ai parlamentari chiedendo di «esprimere le loro preferenze». I nomi proposti «saranno votati online».
Un appello chiaro alla minoranza del Pd per provare a trattare. I contatti con Sel e minoranza pd si sono fatti frenetici. Il fronte anti Nazareno è variegato ma lavora per convergere su un nome al primo turno. E i molti nomi di candidati che girano tra i velluti del Transatlantico si condensano in uno solo: Romano Prodi.
L’ex premier è la vera carta da giocare. Il capogruppo di Sel Arturo Scotto è sicuro: «Solo Prodi è in grado di creare un varco vero dentro l’asse Pd-Forza Italia». Tutti i 35 grandi elettori della sinistra vendoliana sono pronti a votare compatti per Prodi. Soluzione apertamente rivendicata da Pippo Civati, primo a rispondere ai 5 Stelle dal suo blog: con un link al suo post mattutino, che conteneva un’altra lettera aperta al gruppo pd, con la proposta di votare Prodi. Nome che potrebbe fare breccia anche nel cuore di bersaniani e cuperliani.
A quel punto, se ci stessero anche i 5 Stelle, il pacchetto di mischia sarebbe abbastanza consistente da mettere in imbarazzo Renzi: come dire di no a Prodi? Ma non è affatto detto che andrà così. Un membro del direttorio spiega: «Noi potremmo pure votare Prodi, ma chi ci assicura che non saremo quattro gatti? Che la minoranza Pd non ci lasci soli?». Il direttorio è spaccato: più favorevoli alla soluzione Prodi sarebbero Alessandro Di Battista e Carlo Sibilia. Scettici gli altri, anche in considerazione del fatto che Prodi è sinonimo di euro, contro il quale i 5 Stelle stanno facendo una battaglia.
Diffidenza che resta sul terreno, anche se da fonti Sel assicurano che i democratici pronti a votare Prodi sarebbero una settantina. Nel caso in cui il Professore finisse fuori gioco, la partita cambierebbe segno. A quel punto l’iniziativa sarebbe dei 5 Stelle che, come farà Renzi per la maggioranza, proporranno un nome, invitando gli altri a convergere su una figura fuori dai partiti, come Gustavo Zagrebelsky, Nino Di Matteo o Raffaele Cantone.
E i nuovi fuoriusciti? Potrebbero votare il candidato renziano, ma non sono un fronte compatto. Tra loro si fanno i nomi di Rostellato, Rizzetto, Prodani, Baldassarre, Bechis, Tancredi Turco, Segoni, Barbanti, Cariello, Mucci e Molinari.
Alessandro Trocino
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6. MONICA GUERZONI, CORRIERE DELLA SERA -
«Basta con le bazzecole, parliamo di Tsipras piuttosto...». Quando approda in Transatlantico, Pier Luigi Bersani vuole discutere di Grecia e schiva le domande sul Quirinale. Perché ha disertato l’assemblea con Renzi? «Sono rimasto bloccato a Linate». Di più l’ex segretario non dice, perché alla vigilia del voto l’esperienza consiglia di tenersi alla larga dai boatos parlamentari.
Con i suoi, però, Bersani ha ribadito la linea: «Non poniamo veti, ma in quarta votazione non ci portino un nome scelto nel chiuso del Nazareno». Il secondo tema che sta a cuore al leader della minoranza è una questione che lui chiama di «cultura politica e democratica». Il fatto cioè che, per la prima volta, è il premier che si trova a indicare il capo dello Stato e non viceversa. «Ecco perché bisogna allargare il campo — è il suo chiodo fisso —. Altrimenti nascono i problemi».
Votare tre volte scheda bianca e poi puntare alla quarta su un nome secco non lo convince e Bersani lo lascia capire, citando ironicamente il «Discorso sul metodo» di Cartesio. Miguel Gotor è più esplicito: «Così si pongono le condizioni perché il candidato sia scelto dal Patto del Nazareno». Il timore è che dal cilindro di Renzi spunti un uomo (o una donna) dal profilo basso, magari un ex ds al quale sarebbe difficile voltare le spalle. Per questo Bersani si sta mostrando, nei contatti con Renzi, responsabile e dialogante. Come Matteo scommette sull’intelligenza del predecessore, Pier Luigi scommette sull’intelligenza di Renzi. E quando si troveranno finalmente faccia a faccia — incontro che sembrava imminente e che invece potrebbe slittare a domani — gli chiederà di trovare l’intesa con la minoranza e, soltanto dopo, cercare il via libera di Berlusconi.
In aula Bersani vuole arrivarci con un accordo pieno e dunque offre lealtà, sperando di essere ricambiato con la stessa moneta. Alla buvette l’hanno visto in diversi richiamare all’ordine il fedelissimo Zoggia per quell’uscita all’assemblea del gruppo, che aveva fatto imbufalire i renziani: «Fare il nome sabato mattina è tardi, se poi la quarta votazione va male non ci si può lamentare...». Una formula che espone Bersani al sospetto di nascondere nella propria compagine potenziali traditori e costringe Stefano Fassina a chiarire: «Non saremo franchi tiratori, ma franchi interlocutori».
Sui nomi Bersani si tiene cauto e aspetta la proposta di Renzi. Ma l’identikit è chiaro: «Una personalità politica autorevole e soprattutto autonoma, anche dal governo». Una figura che venisse dal ristretto giro renziano non sarebbe ritenuta potabile, «il Quirinale non può essere un prolungamento di Palazzo Chigi». È il punto chiave, sul quale convergono i 140 parlamentari che si sono contati nella sala Berlinguer.
Inutile dire che, dopo i nove anni di Napolitano, agli ex ds piacerebbe molto se sul Quirinale continuasse (metaforicamente) a sventolare il vessillo della «ditta». Ma qui Bersani non si impunta, un uomo della statura di Giuliano Amato gli andrebbe benissimo. L’ostacolo è che nessuno ha voglia di intestarsi un nome poco gradito dall’opinione pubblica... Su Finocchiaro e Mattarella non ci sono preclusioni e nemmeno su Fassino, il quale però non sembra convincere l’ala più barricadera dei Pierluigi Boys.
Ieri a Montecitorio girava voce di un incontro con Walter Veltroni, che gli uomini vicini a Bersani hanno però smentito. Attorno al già sindaco di Roma i bersaniani si muovono con diverse gradazioni di entusiasmo. Ugo Sposetti è stato visto scherzare con il veltroniano Martella: «Andrea, ti dico io a chi dare il tuo pacchetto di voti se Walter non ce la fa...». Ma è un altro il personaggio che, paradossalmente, rischia di spaccare la sinistra e mettere in seria difficoltà Bersani: il fondatore dell’Ulivo. Pippo Civati lo ha lanciato con tanto di lettera ai parlamentari e Zoggia si è subito incaricato di stoppare l’operazione: «Noi siamo completamente contrari a usare il nome di Prodi in modo strumentale, per poi bocciarlo in quarta votazione. Se lo mettiamo in pista, deve andare a segno». Parole che confermano come una parte dei bersaniani medita di confluire su Prodi già dal primo voto. «Come Bersani, io riparto da lì — sembra tentato Miguel Gotor —. Autonomia e lealtà vanno insieme, mentre la fedeltà va col tradimento».
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7. FRANCO BECHIS, LIBERO -
A forza di fare circolare nomi di possibili «quirinabili», qualcuno dei favoriti deve essersi perso per strada. Forse non è tornato più a casa, e i familiari disperati lo stanno cercando. Deve essere per aiutarli che ieri intorno a Montecitorio è improvvisamente apparsa una troupe televisiva del celebre programma “Chi l’ha visto?”, condotto da Federica Sciarelli: «Giriamo un servizio per la puntata di venerdì», assicuravano i cameramen. Chi sia il candidato scomparso, non si sa. Ma nelle redazioni dei principali media una certa preoccupazione si nota: avendo raggiunto ormai quota 50 la lista dei «papabili», il vero rischio è che il prescelto sia il numero 51, un po’ come capitò al conclave quando nessuno o quasi nei borsini della vigilia aveva incluso il nome di Jorge Mario Bergoglio. Per non rischiare una figuraccia, probabilmente appariranno alla rinfusa nuovi nomi nei borsini dei prossimi giorni. A Palazzo a dire il vero non sono tanti quelli di cui si chiacchiera in queste ore. Non c’è timore di bruciare i nomi: ormai tutti o quasi sono stati fatti. Quel che si nota è invece il movimento di piccoli manipoli, quelli che un candidato del cuore ce l’hanno davvero, e fanno di tutto per farlo avanzare. Soprattutto cercano di bruciare gli avversari spargendo sale su ferite aperte da tempo. IL PRESCELTO Non pochi renziani vaticinano una scelta secca che il presidente del Consiglio Matteo Renzi farà sul nome del suo ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Non ci sono truppe però a fare campagna elettorale. I veri renziani aspettano solo un sospiro del Capo e poi diligentemente si adegueranno, spargendo tweet di miele e dichiarazioni colme di lodi per il prescelto. Padoan non ha tifosi, ma nemmeno troppi avversari. «Non può dirgli di no la minoranza Pd», spiegava ieri l’ex direttore de l’Unità, Giuseppe Caldarola, «perché lui era consulente di Massimo D’Alema nella Fondazione italiani-europei. E piace anche a chi guarda questa elezione dall’estero». Storceva la bocca invece Silvio Berlusconi, ma gli spifferi di palazzo dicono che avrebbe cambiato idea dopo che lo stesso Renzi gliene ha provato la fedeltà grazie al silenzio assoluto tenuto sulla vicenda del decreto fiscale del 24 dicembre scorso con quella normetta salva-Berlusconi che il ministro dell’Economia ha incassato con largo sorriso. Si stanno muovendo da giorni invece le truppe che portano i candidati ex democristiani: quelli che vorrebbero Sergio Mattarella, e quelli che tifano Pierluigi Castagnetti. Sono fra i più attivi nel contattare la stampa per il gioco del tiro al piattello: spargono notizie che sono proiettili pronti ad abbattere il candidato che in quel momento sembra in volo. Missili e scud sulla candidatura di Giuliano Amato, che ha non pochi estimatori in Forza Italia come dentro il Partito democratico (dove l’unico che storce veramente la bocca è proprio Matteo Renzi). Marco Travaglio è partito in tempo riunendo gli appunti di una vita professionale per «uccellare» il candidato. Bei colpi, che risvegliano i ricordi dell’opinione pubblica. Ma che a palazzo sembrano sortire l’effetto contrario. «Voterei Amato con gusto», confidava ieri il bersaniano Miguel Gotor un po’ scherzando, un po’ no, «solo per fare un dispetto al Fatto Quotidiano». Altri proiettili, questa volta pronti a puntare su Anna Finocchiaro, presidente della commissione affari costituzionali del Senato. Il suo nome appare spesso nelle rose ristrette di candidati: è una delle poche donne papabili, e si sa che sull’argomento il premier è assai sensibile. Con la gestione del pacchetto riforme, la Finocchiaro ha conquistato la simpatia e la stima del ministro Maria Elena Boschi, e anche questo argomento ha sicuramente presa su Renzi. Ha tifosi di primo piano anche in Forza Italia: piace al capogruppo dei senatori, Paolo Romani che ha costruito in questi mesi un buon rapporto con lei, e ancora di più piace a Donato Bruno, che con lei ha fatto coppia istituzionale da molto tempo su alcuni dei provvedimenti più delicati e bipartisan. La Finocchiaro ha chance, dunque. E ecco spuntare immediatamente le noto foto di Chi con lei che usava la scorta per fare la spesa all’Ikea. Poco? Non basta? Ecco confezionato il dossier sui guai giudiziari del marito, Melchiorre Fidelbo: è a processo per truffa e abuso per un appalto di informatizzazione a Giarre, provincia di Catania. Atti giudiziari, deposizioni di testimoni piuttosto pesantine durante il processo, e foto di lui (che assomiglia a un Massimo D’Alema un pizzico più giovane) e lei sorridenti a corredo del dossier. E soprattutto: sentenza prevista per i primi di febbraio, proprio all’indomani della elezione del presidente della Repubblica. TROPPO RISERBO Tiro al piattello centrato. Ma truppe pro-Finocchiaro già ieri in azione, pronte a contattare giornalisti per fare filtrare notizie alternative. «Anna ha fatto un solo errore: il riserbo sulle sue vicende personali», confidava un amico ex parlamentare ieri, «e invece era meglio che si sapesse che lei e il marito sono separati di fatto da molto tempo. Lei non c’entra proprio nulla con gli affari che fa lui...».
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8. ANDREA CUOMO, IL GIORNALE -
Il totoquirinale è un po’ come il calciomercato. Si sparano tanti nomi, alcuni credibili altri tanto per vedere l’effetto che fa. Si sogna (poco), si inorridisce (molto) e poi alla fine i colpi veri sono pochi. In questo caso uno soltanto. Come il calciomercato, poi, vive di umori legati al quotidiano: se la tua squadra la domenica non ha segnato il lunedì si guarda a un bomber. Se ha preso troppi gol, tutti a caccia del centrale difensivo. Questo per dire che il borsino di oggi risente di queste suggestioni di giornata: la vittoria di Alexis Tsipras in Grecia che rimette un po’ al centro del villaggio, come direbbe Rudi Garcia, l’estrema sinistra italiana, finora un po’ trascurata nella contabilità quirinalizia. Il prepotente ritorno in campo dell’idea di Matteo Renzi di far votare ai suoi scheda bianca nei primi tre turni, ciò che difatto fa shiftare il giorno decisivo al sabato (il voto inizia giovedì alle 15, poi ce ne saranno altri due venerdì). Per ultimi ma non ultimi alcuni indizi, espliciti o impliciti, che fanno salire improvvisamente le quotazioni di Pier Carlo Padoa, Sergio Mattarella e Walter Veltroni.
Ecco il ragionamento che tiene alte le insegne di Pier Carlo Padoan. Dopo la nascita virtuale del Partito del Nazareno qualche giorno fa, quando furono i voti di Forza Italia a impedire a Renzi di andare sotto sull’Italicum, il premier è sembrato molto preoccupato di ricucire lo strappo con i malpancisti del Pd, cercando di salvaguardare l’unità del partito almeno su un tavolo così importante come quello dell’elezione del capo dello Stato. E uno dei pochi nomi che sembra in grado di metter tutti d’accordo, o quanto meno di evitare il gioco dei veti incrociati, è quello del ministro dell’Economia, lontano dalle correnti, spendibile sul piano internazionale e garante dell’europeismo proprio nei giorni in cui l’effetto Tsipras potrebbe far tornare in agenda anche in Italia le istanze anti-rigore che il nuovo governo greco sembra voler mettere pesantemente sul piatto. Gli stessi skills che tengono in piedi anche la candidatura del governatore di Bankitalia Ignazio Visco. Quanto a Mattarella, il veto di Berlusconi potrebbe venire meno.
Ma in questi giorni a largo del Nazareno sta crescendo un altro partito: quello che vorrebbe al Quirinale un ex leader del Pd o del centrosinistra. Si tratterebbe di una scelta pesante da un punto di vista politico, poco gradita a Forza Italia e a Ncd - che qualche giorno fa avevano dettato una pregiudiziale verso un nuovo presidente ex-comunista - e che per questo è vagliata con prudenza. Tra gli ex segretari i più spendibili sono Walter Veltroni e Piero Fassino, i meno indigesti a Silvio Berlusconi. Il Cav, infatti, conscio di non avere i numeri per imporre un nome, sta però cercando se non altro di garantirsi un potere di veto. Che ha già manifestato per Romano Prodi, comunque sempre in corsa. Si è invece un po’ offuscata la stella di Giuliano Amato: anche lui paga il trend al ribasso del Partito del Nazareno, del quale è considerato il bomber. E Pietro Grasso, vittima della maledizione di Palazzo Madama (solo Francesco Cossiga arrivò al Quirinale da ex presidente del Senato).
E veniamo alle «quote rosa». Matteo Renzi, quello che, bene o male, ha il boccino in mano: «Non so se c’è lo spazio perché si chiuda su una donna, lo verificheremo». Parole che, pur se caute, ridanno fiato per qualche ora alle speranze di vedere colorato di rosa per la prima volta nella storia repubblicana il Colle più alto. Quindi, quantomeno stabili le quotazioni delle uniche due signore con qualche concreta possibilità di farcela: il ministro della Difesa Roberta Pinotti, e, un passo indietro, la senatrice Anna Finocchiaro.
Dai che manca poco. Al massimo quattro o cinque giorni.
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9. ISABELLA BUFACCHI, IL SOLE 24 ORE -
Renzi vuole un nuovo presidente entro domenica. Questione di leadership e di mercati: lunedì, alla riapertura delle Borse, l’Italia deve aver superato l’esame di stabilità e allontanarsi dalla Grecia.
Lo scenario che si aprirà in Grecia, tra tenuta della “strana” coalizione e nuovi negoziati sul debito con l’Europa, è tutto da scoprire, ma quello che Renzi non vuole è che si replichi in Italia quello che è accaduto ad Atene. Il voto greco di domenica nasce proprio dal fallimento dell’elezione del nuovo capo dello Stato: dunque se anche a Roma il Parlamento non riuscirà a eleggere il presidente della Repubblica in fretta, l’Italia tornerà a essere un problema. E il premier diventerà un pezzo del problema, darà prova di debolezza, sarà un leader che non riesce a farsi ascoltare neppure dal suo partito, insomma, una nuova mina vagante per l’Europa e per l’euro.
Il primo obiettivo di Renzi sarà, quindi, quello di emanciparsi dal paragone con la Grecia e anche se Tsipras sarà un suo alleato per la battaglia anti-rigore, lui questa battaglia vuole farla da una posizione di forza. Per questo è necessario che superi la prova dell’elezione del capo dello Stato che è una prova di leadership ma anche un test di fiducia a beneficio dei mercati e dell’Europa. A differenza del neo-premier greco, Renzi non deve evitare l’uscita dell’Italia dall’euro o rinegoziare un debito: lui ha un altro obiettivo che è ritrovare la crescita per recuperare consensi e per rendere sostenibile il nostro debito pubblico. L’unica via è di riuscire a sfruttare quelle finestre che si sono aperte in Europa tra bazooka di Draghi e primi varchi alla flessibilità aperti da Bruxelles. Il premier ha bisogno dell’Ue per vincere la scommessa e recuperare i consensi che dalle europee di maggio si stanno progressivamente riducendo. Ma l’Unione ha bisogno di vedere che Roma, finalmente, è un sistema stabile e non più una democrazia di serie B che non riesce a dare prova di tenuta nei passaggi istituzionali più cruciali come quello sul Colle.
Le parole di ieri del Governatore della Bce sulla necessità dei Governi di fare le riforme sono la prova che Renzi deve dare: se fallisce con il Colle diventa debole anche il piano di riforme promesso all’Europa, quello scambio che ci consente margini di flessibilità all’esame di marzo. Anche l’endorsement di giovedì scorso della Merkel e quell’annuncio di nuovi investimenti tedeschi in Italia altro non sono che un’apertura di credito di Berlino e dell’Europa sul cambio di passo dell’Italia. Una scommessa che Renzi può perdere se non riuscirà a evitare il caos sull’elezione del Quirinale. A infilarsi in questo scenario sembra essere ancora la sinistra Pd che ieri lanciava messaggi poco rassicuranti. Anzi. Chiedeva a Renzi, prima ancora del test sul Colle, di prepararsi a un passaggio parlamentare se il voto di oggi sull’Italicum confermerà che i numeri non li garantisce più la maggioranza ma Forza Italia. Un avvertimento chiaro: e cioè, se anche il nome per il Colle non sarà gradito, ogni passaggio su ogni legge diventerà un ostacolo per il Governo.
Tranelli nel cammino verso il Quirinale che minacciano la prova dei mercati di lunedì prossimo. Ma che spingono anche Renzi verso la scelta di un candidato per il Colle che sia un politico, verosimilmente del campo del centro-sinistra per arginare i dissensi dentro il partito. E per togliere alibi a quella sinistra che ambisce a fare Tsipras ma consuma il suo tempo e i suoi messaggi politici nelle lotte fratricide.
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10. BARBARA FIAMMERI, IL SOLE 24 ORE -
L’appuntamento ufficiale è per questa sera alle 19, quando Silvio Berlusconi, accompagnato dai capigruppo parlamentari incontrerà la delegazione del Pd guidata da Matteo Renzi. Non sarà però questa l’occasione in cui il premier scoprirà le carte. Ecco perché da giorni si è andata diffondendo la voce di un nuovo faccia a faccia tra i protagonisti del Patto del Nazareno, che ieri la fedelissima del Cavaliare Maria Rosaria Rossi si è invece affrettata a smentire.
Questo però non significa che un incontro non ci sarà successivamente, in prossimità dell’avvio delle votazioni. Anche perché il Cavaliere ha già detto e ripetuto che non accetterà «un nome secco», «un prendere o lasciare» come invece ieri ha detto il premier.
Ancora siamo alla tattica. Renzi non vuole scoprire le sue carte con troppo anticipo e dare tempo ai suoi avversari di preparare le contromosse. Ma Berlusconi non può attendere la vigilia della quarta votazione, che si terrà sabato, per conoscere il vero candidato del premier. Nel frattempo proprio questa incertezza lo ha spinto a dare il via libera alla scheda bianca nelle prime tre votazioni, mentre in precedenza aveva ipotizzato di far votare un candidato di bandiera, l’azzurro Antonio Martino.
Ecco perché al di là delle smentite è assai probabile che il faccia a faccia ci sarà. Anche perché non è pensabile che questa sera, all’incontro tra le delegazioni Pd-Fi, ci siano anticipazioni visto il numero degli ospiti. Berlusconi non farà altro che ripetere quanto già più volte sostenuto in pubblico ovvero che Fi vuole un candidato «autorevole» e di «garanzia». Questo non significa che non possa provenire dalle file del Pd perchè, come ha confermato Giovanni Toti ieri, «non abbiamo messo veti». Tant’è che gli azzurri sarebbero pronti a convergere anche su ex Ds come la presidente della commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro nonché ex segretari quali Piero Fassino o (meglio) Walter Veltroni.
Berlusconi non può tuttavia permettersi di mostrarsi troppo arrendevole nei confronti del premier. Il via libera all’Italicum è un “regalo” che non può essere snobbato anche perché ridarebbe fiato a quanti dentro Fi (l’ala che fa capo a Raffaele Fitto) e anche fuori (la Lega) lo attaccano sul Patto del Nazareno. E poi Berlusconi non si fida di Renzi. L’alleanza con Angelino Alfano in questo senso è funzionale, visto che assieme risultano determinanti per l’elezione del successore di Giorgio Napolitano. Per la stessa ragione lascia che i suoi tengano le linee aperte anche con la minoranza Pd, con la quale ha un comune obiettivo: non concedere a Renzi un Capo dello Stato leggero.
Il nome più gettonato non a caso resta quello di Giuliano Amato. «In realtà noi non abbiamo rapporti con Amato ma certamente la statura del personaggio è una garanzia sia sul fronte interno che su quello internazionale», ripete Berlusconi. E su Amato si ritrova anche la sinistra Dem. Resta invece negativo il giudizio di Berlusconi su Sergio Mattarella che invece è sponsorizzato dai bersaniani.
L’ex premier ieri è rimasto ad Arcore per il consueto scambio di vedute del lunedì con familiari e consulenti. A Roma, in Parlamento, a presidiare il campo c’erano i suoi fedelissimi che, prima alla Camera e poi al Senato, hanno sondato azzurri e non sul Quirinale. La convinzione tra i parlamentari di Fi è che «la vera carta che Renzi si vuole giocare è Padoan», il ministro dell’Economia, o in alternativa il governatore di Bankitalia Visco. Due nomi che avrebbero risonanza internazionale e che allo stesso tempo «non gli creerebbero particolari problemi sul fronte interno». Due nomi su cui Berlusconi non si metterebbe di traverso.
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11. CARLO BERTINI, LA STAMPA -
Le partite decisive, quelle con Berlusconi e Bersani, il premier intende giocarsele a quattr’occhi e quindi tra oggi e domani Renzi li vedrà a tu per tu a prescindere dalle consultazioni. Il gioco si fa duro, le squadre si irrigidiscono, «l’unico che farebbe il pieno qui dentro se avesse il sì di Renzi sarebbe Pierluigi», dicono i bersaniani. Che nelle sedi pubbliche come l’assemblea dei gruppi Pd si mostrano volutamente collaborativi, fantasticando sul colpo di teatro finale. Dal fronte berlusconiano invece il pressing su Amato è forte e si incrocia con quello di parlamentari Pd, ministri e non solo che fanno sapere al premier come questa candidatura non sia «contro» di lui ma di alto profilo istituzionale. «C’è un lavorio minuzioso su Amato del Palazzo che arriva alle orecchie di Matteo, forcing ad ampio raggio», raccontano i renziani quando il premier esce alle sette di sera da Montecitorio, dove è venuto ad annusare l’aria.
Mano tesa ai grillini
«Venite anche voi al Nazareno, non restate gli unici assenti alle consultazioni», è il suo appello ai grillini. È subito ressa alla Camera quando Renzi piomba alla buvette in giacca e maglioncino blu. Scherza con i giornalisti, si ferma a salutare il pentastellato fiorentino Alfonso Bonafede. Gli ricorda come nel caso del membro del Csm si è riusciti a procedere coinvolgendo anche loro. «Ma a che serve vederci se avete già un accordo?», lo provoca la grillina Giulia Sarti. «Lo vedete solo voi questo accordo». «E perché non lo fate alla prima votazione?» «No, alla prima non ce la facciamo», risponde Renzi uscendo. Fa dieci metri e saluta Brunetta, «fate i bravi se potete»; poi si ferma a parlare con Walter Rizzetto, uno dei dieci grillini in uscita, altro segnale di attenzione.
Padoan e il rimpasto
E di questa intemerata nel campo di gioco che aprirà i battenti giovedì, resta quanto raccolto attraverso le confidenze: i candidati davvero in campo ormai sono Mattarella, Fassino e Padoan, con Amato sullo sfondo. Sul primo c’è un tentativo di capire se sono superabili le resistenze di Forza Italia e degli ex diessini: «Silvio preferirebbe Amato, ma non si metterebbe di traverso», spiegano i berluscones. Invece dentro il Pd riaffiora il richiamo della foresta delle antiche famiglie di appartenenza, perché i «compagni» pur disposti a votare Mattarella (e anche Amato) lo vivono come «un democristiano che non rappresenta il nostro mondo», per dirla con una battuta. Dunque l’operazione Mattarella non è semplice anche se meno difficile di altre, assicurano i renziani. Così come quella su Padoan, di cui si parla con insistenza. Una carta che il premier si tiene in serbo, ma che lo obbligherebbe ad un rimpasto di governo su una casella molto sensibile, con Delrio dato in pole per l’Economia e la Boschi come sottosegretario alla Presidenza. Ma a dar retta agli uomini del premier lui deciderà dopo le consultazioni. E farà un nome secco, «non una terna», giovedì ai grandi elettori, ai quali darà indicazione di votare scheda bianca alle prime tre votazioni; o sabato, alla quarta «chiama» che sulla carta dovrebbe esserci la «votazione decisiva».
I bersaniani si tradiscono
Ieri il primo esame al Pd, con i gruppi di Camera e Senato. «Non è un referendum né sul governo né su di me e va tenuta separata dalle riforme o dalla legge elettorale», dice Renzi che poi lancia l’avvertimento alla sua maniera. «La figuraccia del 2013 è nel curriculum di tutti. Oggi abbiamo un’occasione di riscatto. Non scommetto sulla vostra fedeltà, ma sulla vostra intelligenza e per questo scommetto sulla durata della legislatura fino al 2018». Perfino Fassina tende la mano «è sbagliata l’impostazione di cercare un candidato “contro”. Va cercata l’interlocuzione con Forza Italia». Ma Zoggia avverte che non bisogna lamentarsi se alla quarta votazione vi saranno fibrillazioni nei partiti. «È come dire che se ci saranno dei franchi tiratori saremmo noi», sospira irritato un bersaniano.
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12. AMEDEO LA MATTINA, LA STAMPA –
«Renzi ci sorprenderà». In questi giorni Berlusconi ha continuato a ripetere questa sensazione e i suoi interlocutori l’hanno interpretato come la preoccupazioni di chi teme di essere beffato. Ha quindi messo a lavorare sodo Verdini per sapere quale nome per il Colle abbia veramente in testa «il giovanotto». Il Cav non vuole rose da sfogliare e, soprattutto, non vuole essere informato la sera prima della quarta votazione (ovvero venerdì sera). Insomma, il nome, quello vero, deve saltare fuori subito, prima dell’incontro tra Renzi e la delegazione di Forza Italia composta dai capigruppo Romani e Brunetta e da Giovanni Toti. Ci dovrebbe essere anche l’ex premier, che per la seconda volta nella sua vita oggi pomeriggio entrerebbe nella sede del Pd a Largo del Nazareno. Ma gira voce che il Cav voglia incontrare a quattr’occhi Renzi, sempre nella giornata di oggi, per discutere del nome che gli è stato comunicato, quello di Sergio Chiamparino. Ma in giro Renzi di nomi ne ha fatti altri.
L’incontro Verdini-Lotti
Sollecitato dal capo, domenica Verdini ha chiamato Lotti, il collaboratore più stretto di Renzi: gli ha chiesto un appuntamento e ieri i due sono andati a pranzo in un ristorante romano. Davanti a un piatto di spaghetti Lotti gli ha svelato la candidatura che sta accarezzando il premier. Chiamparino, appunto. Finito il pranzo Verdini ha riferito a Berlusconi. Non c’è conferma di una telefonata diretta tra il premier e l’ex premier. Il colloquio ci sarà sicuramente oggi: Silvio dovrà dare una risposta a Matteo.
Berlusconi «freddo»
Berlusconi ha ricevuto la telefonata di Verdini mentre si stava occupando del «disastro Milan» e di cosa fare di Inzaghi (non pensa di esonerarlo). La notizia sul fronte quirinalizio non lo ha messo di buon umore. Il nome di Chiamparino era circolato, ma il premier era riuscito a mescolarlo e continua abilmente a mescolarlo tra i tanti altri. Ora che il gradimento a Palazzo Chigi si è stretto a poche candidature e quella di Chiamparino cresce, il Cav è rimasto «freddo». Non ha detto di no, ma i pochissimi berlusconiani al corrente della trattativa si sono chiesti perché Renzi abbia anticipato questa candidatura sapendo che «il presidente non si tiene un cecio in bocca». Per farla girare e bruciarla? E poi, Chiamparino garantisce il Cav sulla grazia? «Lo vedremo alla prova dei fatti. Renzi è il garante del patto: spetta a lui fare un nome di garanzia», dicono dalle parti di Arcore. Non siamo al via libera al presidente piemontese, ma Berlusconi non vuole che il prescelto vada al Colle senza i suoi voti.
Incontro Renzi-Alfano
Il nome di Chiamparino non è l’unico che Renzi ha fatto girare nel centrodestra. Diverso è quello che ha fatto ieri mattina ad Angelino Alfano. I due si sono visti e il premier ha insistito sul ministro dell’Economia Padoan. Ma il leader di Ncd non vede di buon occhio l’idea di sfilare dal governo una casella così importante. Nessun problema personale con Padoan: il problema è un altro. Il ministro per gli Affari Regionali Lanzetta è andata in Calabria a fare l’assessore alla Cultura: se Padoan venisse destinato a più alto incarico, si aprirebbe un rimpasto pericoloso. Renzi magari non arriverebbe a imbarcare esponenti di Fi, ma aprire le danze di un cambiamento è sempre pericolo.