Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  gennaio 25 Domenica calendario

QUELLA BATTAGLIA PER LE RIFORME INIZIATA DA COSSIGA

Alla vigilia del voto per il Quirinale uno dei nomi più evocati come modello cui i grandi elettori dovrebbero ispirarsi è quello di Sandro Pertini. Resta lui il paradigma del «buon presidente» e se ne ricorda l’integrità, il rigore, il disinteresse, l’autorevolezza che gli permisero di rilegittimare le istituzioni in un’emergenza segnata da terrorismo, collassi dell’economia e questione morale. Qualche nostalgia è insomma comprensibile, anche se di uomini così si è perso lo stampo. Nell’incertezza di questi giorni c’è però un’altra esperienza al vertice dello Stato che vale la pena di riconsiderare, e l’ha vissuta Francesco Cossiga tra il 1990 e il ‘92. Esperienza tormentata, ma utile per un parallelo con il presente, perché proprio allora fu incubata una transizione dalla quale non siamo mai usciti.
Un baedeker per tornare a quei momenti è il saggio-memoriale di Sergio Berlinguer, cugino dell’ex segretario del Pci Enrico e parente dello stesso Cossiga, ambasciatore e consigliere diplomatico di tre premier, che fu segretario generale sul Colle. Come si capisce già dal titolo, Ho visto uccidere la Prima Repubblica (Delfino Editore, 341 pagine, 20 euro) il libro riassume un dramma politico — in realtà più il suicidio di una classe dirigente che un delitto — coinciso con la parabola di un capo dello Stato che fino alla caduta del muro di Berlino aveva optato per una cifra poco interventista e silenziosa per inaugurare infine una stagione ruggente. Grazie a documenti inediti, Berlinguer alza il velo su alcuni snodi cruciali: la crisi con Mosca sugli euromissili, i veleni del delitto Moro, la verità sulla «pazzia» del presidente. Ma ciò che più interessa, al di là di tante contestabili scelte, è la ricostruzione della sua battaglia per le riforme.
Un tema che fu purtroppo soverchiato dalla furia picconatoria di Cossiga per vendicarsi di chi voleva spodestarlo, mentre lanciava una traumatica profezia della catastrofe. Ricordate? Con un messaggio di 82 pagine alle Camere si era fatto promotore di «una rigenerazione istituzionale» attraverso il varo di profonde riforme costituzionali. Altrimenti, avvertiva, «la gente vi prenderà a pietrate per la strada». E quella metafora che estremizzava le conseguenze del distacco tra cittadini e Palazzo fu confermata dal vento dell’antipolitica e dall’astensionismo alle urne.
«Le riforme si possono fare o non fare, ma non è lecito parlarne come di cose indispensabili per poi lasciare tutto come prima»: il suo ammonimento per «un nuovo patto nazionale» che raccogliesse la richiesta di cambiamento che saliva dalla società civile.
«Guardiamoci intorno», si domanda Berlinguer. «Quanto di quella richiesta, già allora pressante, ha trovato risposta? E cosa ha impedito alla Seconda Repubblica di emendare i peccati della Prima e riuscire là dove essa aveva fallito?». Ecco il punto politico che si ripropone adesso, mentre il Parlamento si prepara a votare per il dodicesimo capo dello Stato. Un’urgenza di «discontinuità» che è la stessa sulla quale si concentrò la denuncia di «inconcludenza, omissioni, chiusure, sordità, tatticismi» fatta il 22 aprile 2013 da Giorgio Napolitano, per il discorso del secondo mandato. Certo, il cantiere delle riforme è stato aperto. Ma il suo successore avrà la fortuna di vederlo finalmente chiuso con successo?