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 2015  gennaio 25 Domenica calendario

IL DIRITTO DI CRITICARE LE LEGGI, IL NO A SENTENZE TWEET

MILANO Quando un’esitazione punteggia l’esordio del n.2 della Procura generale milanese Laura Bertolé Viale — «la magistratura deve….resistere» —, in molti nell’Aula Magna scatta il riflesso del «resistere, resistere, resistere» scandito proprio qui 12 anni fa esatti da Francesco Saverio Borrelli in uno dei picchi di scontro sulla giustizia negli anni di Berlusconi. E non è granché più tenero con l’anno uno della giustizia di Renzi il completamento della frase: «resistere…alle lusinghe e alle minacce di altri poteri, come condizione per l’eguaglianza di tutti davanti alla legge» di cui «è corollario il principio di ragionevolezza, e cioè la conformità tra norma punitiva e interesse protetto».
«Ritengo mio diritto — premette infatti Bertolè Viale — «di pretendere nelle leggi questa ragionevolezza, e ritengo mio diritto anche criticarle», alla stregua di «collaudatori di vetture» che ne colgano i difetti. Come ad esempio «la clausola di non punibilità dei reati fiscali, che, se espressa esclusivamente in soglie percentuali, creerebbe una sostanziale differenza di trattamento tra contribuenti maggiori e minori». Anni di «privatizzazione dei reati societari» fanno poi sì che nella Milano centro dell’economia «dal 2009 al 2013 ci siano stati solo 33 casi di falso in bilancio, e solo 5 nel 2014: sarebbe bello — ironizza — credere sia prova della correttezza delle comunicazioni sociali…».
Sulle tangenti il «tanto decantato» (da Renzi) «aumento della pena varrebbe solo per la corruzione semplice: e per le altre forme? — è la domanda retorica del pg —. Per la corruzione in atti giudiziari, per la concussione, per l’induzione indebita a dare o promettere utilità? E che fine ha fatto l’idea di una riduzione di pena per chi collabori e risarcisca?». Richiesto «a gran voce» e introdotto «con battage pubblicitario», pure il reato di autoriciclaggio è «del tutto vanificato dal comma 4» che esime i casi di «godimento personale: non c’è ragionevolezza nel non punire l’utilizzatore finale». E ai francesi Bertolé dice di «invidiare» la Cassazione che ha suggerito al legislatore «di far partire i termini di prescrizione (10 anni da loro) per i crimini dissimulati» (tra i quali tangenti e reati economici) «da quando vengono non commessi ma scoperti».
Neppure il presidente della Corte d’appello, Giovanni Canzio, ci va leggero, ma su altro registro motivazionale. Prendendo le mosse dal «comprensibile umano sconcerto» per sentenze avvertite come «impopolari» e generatrici di «sentimenti di diffusa indignazione» (e cita le assoluzioni a Roma nel processo Cucchi, a Milano nel Ruby-Berlusconi, all’Aquila sugli scienziati e terremoto, in Cassazione per l’amianto Eternit), Canzi addita «il conflitto fra l’attesa di “giustizia” e il “diritto” applicato»: forbice che si allarga quando — altra notazione anticorporativa — «pm o i giudici decidono di intessere un dialogo diretto con i media e, tramite questi, con i cittadini o con il potere politico, anziché con i protagonisti del processo e nel processo». Ma in questo errore, osserva, cadono anche perché sospinti da una società che vive nel «presente continuo» coniato dal sociologo Douglas Rushkoff, «compressa dalla perenne connessione a Internet, schiacciata dall’insostenibile ritmo del qui e ora, dalla contingente istantaneità dell’adesso». E invece la giustizia ha bisogno di «ridare respiro ai momenti della ricostruzione probatoria per la scelta della migliore soluzione e per la trasparente spiegazione delle ragioni»: un processo penale efficiente antidoto al parallelo rito mediatico, «la cultura della giurisdizione contro il populismo giudiziario». Altrimenti, avverte Canzio, «dal pensiero “corto” alla sentenza “tweet” o al verdetto immotivato, il passo è breve». Quanto stracciare «la cultura democratica della giurisdizione».