Leonardo Coen, il Fatto Quotidiano 24/1/2015, 24 gennaio 2015
POLIZIOTTO, CHE STRESS: UN MESTIERE DA SPARARSI
Parigi
Se il 44enne commissario Helric Fredou, vicecapo del Servizio regionale della polizia giudiziaria francese si fosse rivolto alla clinica di Courbat, nell’Indre-et-Loire, sarebbe ancora vivo e vegeto nel suo ufficio di Limoges, a occuparsi di indagini per la Procura, e non in un cimitero. Purtroppo, nella notte tra mercoledì 7 e giovedì 8 gennaio, mentre a Parigi e nell’area attorno alla capitale francese si vivevano le ore drammatiche e convulse della grande caccia ai fratelli Kouachi, i due jihadisti che avevano massacrato la redazione di Charlie Hebdo, il suo corpo senza vita veniva rinvenuto accanto alla pistola d’ordinanza: apparentemente, un suicidio. La notizia rimbalzava a Parigi solo venerdì 9. Qualcuno collegava la morte di Fredou all’attentato. In effetti, il commissario di Limoges era stato coinvolto marginalmente nelle indagini: Chérif Kouachi, uno dei due terroristi aveva frequentato il corso di elettrotecnica del liceo professionale Edouard-Vaillant a Saint-Junien, nella regione di Limoges, aveva proseguito iscrivendosi a Sport-Etudes football, senza però terminare la formazione. Inoltre Fredou aveva avuto il penoso incarico di dover contattare la famiglia di una delle vittime.
Il mistero dura poco. Da Limoges si conferma il suicidio: Fredou da tempo era depresso. Peggio, era in pieno rischio di burn-out. Una sindrome terribile. Colpisce chi esercita una “professione d’aiuto”: soccorritori, vigili del fuoco, psicologi e psichiatri, assistenti sociali, sacerdoti e religiosi, insegnanti, educatori. E poliziotti. Li stronca il duplice stress, quello personale e quello di chi aiutano. Fredou era celibe, senza figli. Un anno prima gli era toccato scoprire il cadavere di un collega che si era sparato in ufficio. Forse il disagio psicologico di aver affrontato il dolore della famiglia che aveva appena visitato lo aveva sconvolto ogni oltre limite. Forse.
Già, forse. Però, se si fosse rivolto alla clinica di Courbat... Funziona dal 1953, fondata dall’Anas (Association national d’Action sociale des Personnels de la Police Nationale et du Ministère de l’Intérieur), destinata ad accogliere funzionari colpiti da dipendenze e spossamento professionali. Nel 2014 ben 53 poliziotti francesi si sono tolti la vita: uno alla settimana. Un record. E centinaia di loro colleghi hanno tentato di farlo. Ogni anno, oltre 300 poliziotti depositano l’uniforme e si presentano alla clinica di Courbat. Per riprendersi. Per confessare le loro angosce, poiché nel loro ambiente chi lo fa pubblicamente ha solo da rimetterci. Per scacciare gli incubi. La direttrice Frédérique Yonnet ha constatato che i suoi pazienti sono sempre più giovani e che il malessere del poliziotto colpisce senza distinzioni gerarchiche: dal bricard (brigadiere) ai tenenti, ai “duri” della crim, la polizia criminale. Solo nel maggio del 2004, il suicidio di un poliziotto è stato riconosciuto come imputabile alle condizioni di lavoro.
Immersa in un remoto angolo di campagna, un po’ castello un po’ fattoria, la clinica di Courbat dispone di sperimentati laboratori terapeutici e creativi dove ci si improvvisa artigiani, pittori, scultori. Si pratica molto sport e si effettuano rilassanti passeggiate. Il tempo è scandito da ritmi tranquilli e ordinati: serve per rimettersi a nuovo. I poliziotti curano mente e corpo. Si disintossicano: l’autolesionismo targato alcolismo estremo. Alle cause note del burn-out (sovraccarico di responsabilità, molestie psicologiche, violenza) si aggiunge lo stress dei “servizi” nelle periferie, le banlieue allucinate e invivibili che sono matrice di odio e radicalismo. Il tutto, in situazioni che hanno snaturato il mestiere: carenza di organici per ragioni di bilancio (dunque orari sempre più pesanti) e competitività interna (l’introduzione dei premi, come nelle aziende). Roba da spararsi.
Leonardo Coen, il Fatto Quotidiano 24/1/2015