Tino Oldani, ItaliaOggi 24/1/2015, 24 gennaio 2015
IL QE DI DRAGHI CANCELLA DOPO 34 ANNI IL DIVORZIO TRA TESORO E BANCA D’ITALIA. UNA DECISIONE CHE POTREBBE COSTARCI CARA
Per come è stato congegnato, il quantitative easing di Mario Draghi riporta indietro di 34 anni le lancette dell’orologio. Almeno per quanto riguarda l’Italia, segna infatti la fine del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, che l’allora ministro del Tesoro, Nino Andreatta, decise nel 1981 per porre fine all’obbligo che imponeva alla Banca d’Italia di garantire in asta il collocamento integrale dei titoli emessi dal Tesoro per finanziare la spesa pubblica. Da allora, alla sottoscrizione dei titoli di Stato hanno sempre provveduto le banche e i grandi investitori finanziari, nazionali e stranieri. Ora lo scenario è destinato a cambiare: a causa della risibile mutualizzazione dei rischi imposta dalla Bundesbank sui futuri acquisti di titoli sovrani da parte della Bce, dovranno essere le banche centrali dei Paesi dell’eurozona a farsi carico, nella misura dell’80%, dei rischi eventuali di insolvenza. In Italia, nei fatti ciò comporta la cancellazione del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia.
È un bene o un male? Secondo alcune ricostruzioni, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, avrebbe fatto di tutto per evitare una simile soluzione, che, a suo avviso, prefigura uno scenario monetario dove le Banche centrali dei 19 Paesi dell’eurozona diventano «silos nazionali pieni di debito pubblico» (efficace sintesi di Federico Fubini su Repubblica). Il tutto per dare più liquidità alle banche, senza alcune certezza che la impieghino in maggiori prestiti. Dunque, per Visco, una soluzione negativa per l’Italia, che, nell’ipotesi di un futuro attacco speculativo contro i nostri titoli sovrani, si vedrebbe costretta a difendersi da sola, con le proprie riserve monetarie (oro compreso), senza poter contare (se non in minima parte, circa il 4%) sull’ombrello della Bce e dei Paesi che ne sono azionisti, come imporrebbe la comune appartenenza all’euro.
Da questo punto di vista, il quantitative easing, più che un successo di Draghi, segna una vittoria schiacciante del falco Jens Weidmann, capo della Bundesbank, da sempre contrario all’acquisto di titoli sovrani in capo alla Bce. L’egoismo tedesco ha vinto sullo spirito europeo della mutualità. Vale la pena di ricordare perché mai, nel 1981, Andreatta decise che Tesoro e Banca d’Italia dovessero divorziare. Sul momento, si disse che il ministro del Tesoro, antesignano dell’austerità, voleva tagliare l’erba sotto ai piedi degli alleati di governo (soprattutto ai socialisti e agli andreottiani) che, a suo avviso (fondato, per la verità), avevano il vizio della spesa pubblica facile. Lo stesso Andreatta, però, in un memorabile scritto del 26 luglio 1991, celebrativo dei primi dieci anni del divorzio, spiegò che il suo intendimento era diverso: affrontare «con decisioni politiche mai tentate prima» una situazione economica molto difficile, dove il secondo shock petrolifero aveva spinto l’inflazione alle stelle, la propensione al risparmio si riduceva, mentre il valore dei cespiti reali (case e azioni) si rivalutava del cento per cento all’anno.
«La soluzione classica», scrisse Andreatta, «sarebbe stata quella di una stretta al credito, accompagnata da una stretta fiscale», per provocare una momentanea recessione. Ma ciò non avrebbe risolto due problemi, che l’allora ministro del Tesoro considerava cruciali: «La Banca d’Italia aveva perduto il controllo dell’offerta monetaria, fino a quando essa non fosse stata liberata dall’obbligo di garantire il collocamento finanziario del Tesoro. Inoltre il demenziale rafforzamento della scala mobile, prodotto dall’accordo tra Confindustria e sindacati, aveva talmente irrigidito la struttura dei prezzi che, in presenza di un raddoppio del prezzo dell’energia, anche una forte stretta da sola era impotente a ristabilire un equilibrio». Così, benché prima di allora fosse considerato «sedizioso» che la Banca d’Italia non acquistasse i titoli di Stato, Andreatta sfidò l’intera compagine di governo, e in totale solitudine decise il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia». Decisione, annotò lui stesso dieci anni dopo, che «non ebbe allora il consenso politico, e non lo avrebbe avuto negli anni seguenti».
In positivo, quel divorzio provocò l’abolizione della scala mobile, raffreddò di poco l’inflazione e rafforzò l’autonomia della Banca d’Italia. Ma non giovò affatto al bilancio dello Stato. Anzi, l’avere lasciato al solo mercato il compito di sottoscrivere le emissioni del Tesoro, ne fece lievitare gli interessi in modo abnorme per rendere appetibili le emissioni, con un aggravio progressivo dell’onere degli interessi. Per questo il debito pubblico, che nel 1980 era pari al 57,7% del pil, salì al 124,3% nel 1994. Pochi dati documentano quella svolta: la spesa pubblica, al netto degli interessi, era pari al 42,1% del pil nel 1984 e dieci anni dopo (sempre al netto degli interessi) era salita appena al 42,9%, in linea con il resto d’Europa. Gli 80 punti in più accumulati in soli dieci anni (fino al 124,3% del pil), erano tutti dovuti alla maggiore spesa per interessi, che cresceva a un ritmo tra l’8 e l’11% l’anno. Dunque, come gli economisti keynesiani sostengono da tempo, il divorzio Tesoro-Bankitalia si rivelò un grave errore di politica economica, di cui continuiamo a pagare le conseguenze. E non è affatto detto che la sua cancellazione, ora, diventi un bene. Anzi.
Tino Oldani, ItaliaOggi 24/1/2015