Andrea Di Biase, MilanoFinanza 24/1/2015, 24 gennaio 2015
CACCIATORI E PREDE
Per capire quello che potrebbe accadere alle banche popolari quotate, interessate dalla riforma Renzi-Padoan, quando avranno detto addio al voto capitario, bisogna tornare al settembre del 2006. Gli spagnoli del Santander, allora primi azionisti del Sanpaolo di Torino, sono costretti a buttare giù il boccone amaro della fusione tra l’istituto piemontese e Banca Intesa, organizzata a loro insaputa da Giovanni Bazoli e Enrico Salza. Per Emilio Botin, il potente banchiere asturiano scomparso lo scorso settembre, non è solo uno smacco al proprio prestigio, ma anche una pesante battuta d’arresto al disegno di espandere il Santander in Italia. La reazione degli spagnoli non si fa dunque attendere. Di lì a poco i titoli della Banca Lombarda, l’istituto nato dalla fusione tra il Credito Agrario Bresciano e la Banca San Paolo di Brescia, che ha proprio in Bazoli il suo nume tutelare, cominciano a correre a Piazza Affari. Nelle sale operative si diffonde il rumor che dietro gli acquisti ci sia proprio il Santander, deciso a fare sua quella che già ai tempi era una delle migliori banche italiane, radicata su un territorio, quello bresciano, tra i più ricchi e produttivi del Paese. In città suona l’allarme. La Lombarda, infatti, è sì una banca di territorio, ma non è una popolare. L’istituto, allora presieduto da Gino Trombi e guidato da Corrado Faissola, è una società per azioni, il cui controllo è saldamente in mano a un sindacato azionario che raggruppa il 48,72% del capitale e al quale partecipano ben 301 soggetti. Ci sono le principali famiglie industriali bresciane, alcune importanti istituzioni cattoliche, la Tassara di Romain Zaleski, e due fondazioni (Banca Monte di Lombardia e Cr Cuneo). Il controllo è di fatto blindato. Ma se gli spagnoli decidessero di lanciare un’opa il sindacato sarebbe automaticamente sciolto e ciascuno dei soci potrebbe decidere in autonomia se aderire o meno all’offerta. Per mettere la banca ai ripari si ricorre allora a una fusione difensiva. Superando l’atavico campanilismo tra Brescia e Bergamo, la Lombarda bussa alla porta di Bpu, la popolare nata pochi anni prima dalla fusione tra la Pop. Bergamo e la Pop. Commercio e Industria. In meno di due mesi l’accordo è fatto e il merger viene ratificato dai cda ai primi di novembre. Banca Lombarda rinuncia alla sua natura di spa per essere incorporata in Bpu, una cooperativa dove vige il voto capitario, che cambia nome in Unione di banche italiane (Ubi Banca). Ed è proprio la natura cooperativa del nuovo istituto, oltre alla sua maggiore dimensione, a scagionare il rischio di un attacco dall’esterno. Chi volesse prenderne il controllo dovrebbe infatti acquistarne il 100%. La legge, oltre a imporre il voto capitario, non consente infatti di detenere partecipazioni superiori allo 0,5%. Anche se la potente lobby delle banche popolari, che conta un sostegno bipartisan in Parlamento e che in questi giorni sta affilando le armi per sabotare la riforma Renzi, riuscirà poi, a colpi di emendamenti ai vari decreti Milleproroghe, a consentire a Zaleski e alle due fondazioni azioniste di Ubi di detenere per svariati anni pacchetti azionari superiori al 2%.
Al riparo dai pericoli esterni bresciani e bergamaschi, riuniti rispettivamente nell’Associazione Banca Lombarda e Piemontese (presieduta da Bazoli) e nella Amici di Ubi Banca (fondata da Emilio Zanetti), si spartiscono la governance del nuovo istituto, facilitati dall’adozione del modello dualistico, che consente di massimizzare la rappresentanza delle due componenti negli organi sociali, e dal modello organizzativo federale, ovvero dalla presenza di più banche spa (controllate dalla holding cooperativa) ognuna con un proprio presidente e un proprio cda. Una delle tante prassi, tipica anche di altri gruppi bancari di matrice popolare (anche se qualcuno, come il Banco Popolare e la Bpm ha recentemente incorporato gran parte delle controllate), che la Banca d’Italia ha sempre cercato di arginare, e che ora con la riforma Renzi potrebbe essere definitivamente superata, lasciando spazio a una governance più market friendly.
Ma proprio questa tanto auspicata (non solo dal premier, ma anche dal governatore di Bankitalia, Ignazio Visco) apertura al mercato delle popolari porta con sé anche il rischio che i sette istituti cooperativi quotati, una volta trasformatisi in società per azioni, possano trovarsi nelle medesime condizioni in cui si era venuta a trovare la Banca Lombarda nel settembre del 2006, ovvero di essere soggetta al rischio scalata da parte di un gruppo bancario estero. Non che questo sia un male di per sé, considerando le esperienze positive seguite all’acquisizione del gruppo Cariparma da parte del Credit Agricole e di Bnl da parte di Bnp Paribas, ma è evidente che se non gestito con una moral suasion intelligente sui vertici delle banche coinvolte il processo potrebbe davvero sfociare in una colonizzazione del settore creditizio nazionale da parte dei gruppi esteri. C’è infatti chi ritiene che, in questa fase, un risiko indotto da ragioni difensive possa portare meno vantaggi di quelli attesi. In primo luogo, a fronte dei valori espressi oggi dal mercato (quasi tutte le popolari trattano a forte sconto rispetto al patrimonio netto tangibile), gli azionisti potrebbero non essere disposti a partecipare a operazioni di consolidamento tra pari a multipli bassi. «A nostro avviso», sottolineavano lunedì 19 gli analisti di Mediobanca Securities, «la banca target potrebbe non voler aggregarsi a una valutazione ben al di sotto del proprio capitale, se i suoi coefficienti patrimoniali e il suo profilo di liquidità sono sani». Proprio questo, sostengono alcuni operatori, potrebbe facilitare le banche straniere che, trattando a multipli superiori (si veda il grafico a pagina 16), potrebbero permettersi offerte più allettanti, anche carta contro carta. Anche se il periodo di 18 mesi per trasformarsi in spa potrebbe consentire alle popolari di considerare opzioni di fusioni e acquisizioni all’interno del loro campo, evitando così di diventare obiettivi per offerte ostili.
Ma quali potrebbero essere le nozze che saranno celebrate nei prossimi mesi? È presto per dirlo, ma ci si può basare sulle simulazioni degli uffici studi. Mediobanca e Ubs vedono proprio in Ubi uno dei principali poli aggreganti, grazie alla maggiore capitalizzazione (circa 5 miliardi contro i 3,5 del Banco e i circa 2,5 di Bpm e Bper) e una maggiore solidità patrimoniale. Equita non esclude aggregazioni tra più soggetti: Bpm più Bper più Creval e/o Banco, con la creazione di due poli che facciano capo rispettivamente a Ubi e Bpm. Ma il risiko interno, che potrebbe coinvolgere anche Mps e Carige, potrebbe essere solo il primo tempo della partita. Nella ripresa, come evidenziato da Kepler, potrebbero entrare in gioco le banche estere (Deutsche Bank, Credit Agricole, Bnp o Santander) che potrebbero permettersi offerte cash sicuramente più allettanti.
Andrea Di Biase, MilanoFinanza 24/1/2015