Roberto Sommella, MilanoFinanza 24/1/2015, 24 gennaio 2015
EURO, 13 ANNI DI BATOSTE
L’America è risorta, ha annunciato Barack Obama, che pochi mesi fa era dipinto come un presidente dimezzato dopo le elezioni di mid term. E gli europei? Hanno ancora qualcosa da dire o devono solo accontentarsi dei 1.000 miliardi del Quantitative easing della Bce? Trecento milioni di persone vivono aggrappate alle scelte di politica monetaria di Francoforte e Berlino. Non può bastare, anche guardando il bilancio domestico di questi primi 13 anni di euro. L’Italia del 2015 è profondamente diversa da quella del 2002, primo anno di vita della moneta unica. Telecom era totalmente italiana, come l’Alitalia e altre decine di marchi del lusso e del Made in. L’Ilva non rappresentava una questione nazionale capace di incidere sulle sorti del pil per un miliardo. Le banche non registravano nei bilanci gli attuali 180 miliardi di sofferenze. Lo sboom della new economy e la guerra al terrorismo dopo l’11 settembre 2001 causavano effetti ben diversi da quelli provocati dal crack Lehman. Il Belpaese cresceva un po’, creava lavoro, era meno indebitato, con uno spread quasi a zero. In quell’anno post Torri Gemelle il tasso di disoccupazione era all’8,6% contro l’attuale 13,4 e il deficit viaggiava poco sopra l’1% del pil (oggi è al 3,7). Certo, i tassi d’interesse erano più alti. I rendimenti dei Btp a 10 anni (5,07%) e dei Bot a 3 mesi (3,24%) nel 2012 erano infatti ben lontani da quelli attuali (rispettivamente 1,5 e 0,08%). Eppure si è registrato un boom del debito: allora, secondo anno del governo Berlusconi, il Moloch della finanza pubblica ammontava a 1.376 miliardi di euro, oggi, in piena era Renzi, è arrivato a 2.160. Il 56,9% in più, una montagna di denaro (e di interessi) da pagare, che forse troverà un po’ di sollievo dalla manovra architettata dall’Eurotower per far uscire l’Europa dalla recessione.
La bolletta insomma è salata: minore crescita, maggiore indebitamento, scarsa occupazione. E se si passa dai mercati finanziari a quelli rionali, il conto non cambia. Secondo un’elaborazione su dati Istat, dal confronto tra i prezzi di cento beni di largo consumo nel 2001 (ultimo anno di vita della lira) e il 2013 (undicesimo anno di vita dell’euro) emergono aumenti oltre il 100%. Tolta l’inflazione, un chilo di spaghetti che costava 1.680 lire, pari a 0,86 euro, oggi comporta una spesa anche superiore a 1,5 euro. Per un litro di latte fresco invece nel 2001 bastavano 2.100 lire, cioè 1,08 euro, mentre oggi ne servono 1,65. Analogo discorso per carne (+69% per un chilo di vitello), pesce (+66% per la sogliola), pizza margherita (+99%). Senza contare il boom degli affitti e dei prezzi degli immobili e gli aumenti a doppia cifra per bollettini postali (+33%) e prelievi di contante (+53%). Si tratta di variazioni deindicizzate, a fronte di un aumento del reddito da lavoro dipendente molto inferiore. Magari non spiegano appieno la crisi che sta vivendo il ceto medio e la repulsione per tutto ciò che sa di Europa che attraversa molti Paesi dell’Ue, ma queste cifre dimostrano che il dividendo dell’euro la maggioranza degli italiani non l’hanno ancora incassato. E, non l’ha fatto nemmeno lo Stato, vista l’incapacità delle varie classi politiche succedutesi in questi 13 anni di sfruttare l’abbassamento dei tassi d’interesse grazie all’adozione dell’euro.
La differenza sta nella politica economica: a Berlino, quando lo spread era a zero, i governi hanno fatto le riforme di lavoro e credito, a Roma si è aumentata la spesa. Inevitabile che oggi la Germania chieda la garanzia delle banche centrali nazionali su quasi la totalità del debito futuro che verrà acquistato dalla Bce. Anche sul fronte della politica industriale le cose non vanno meglio di un decennio fa. Per ogni fallimento in Italia hanno aperto 27 start up tra gennaio e settembre 2014. A fronte di 10.483 aziende che sono entrate in procedura nei primi 9 mesi dell’anno, sono nate 286 mila attività imprenditoriali. Dai dati sul rapporto tra cancellazioni e nuove iscrizioni emerge che, ad eccezione della Valle d’Aosta che guida la classifica con 65 nuove attività per fallimento, sono le regioni del Sud Italia a occupare le prime posizioni. La Basilicata è al secondo posto (47 iniziative innovative a fronte di una sola chiusura), seguita da Molise (41,1), Calabria (40), Sardegna (38) e Puglia (37,9). In Lombardia si contano oltre 44 mila start-up. Sulla carta sembrerebbe un dato positivo, un segnale di speranza, tipico delle economie in trasformazione, su cui fondare una ripartenza, in un contesto difficilissimo dove il piano Juncker da 300 miliardi partirà solo a giugno e sarà concretizzato in ottobre. Ma così non è. Le serrate di cancelli e vetrine a settembre 2014 hanno fatto registrare un incremento del 12% rispetto al 2013. E, cosa ancora più grave, un’impresa su tre che ha smesso di lavorare era proprio una start-up, avendo meno di quattro anni di vita. Nella foresta dell’economia italiana cadono quindi le querce come gli arbusti. Incoraggia, invece, il tasso dell’export, quasi il doppio rispetto all’andamento dell’ultimo anno di circolazione della lira. Renzi ha detto che l’Italia dovrà innestare il turbo delle riforme per agganciare la ripresa, ma il cambio di passo dovrà scattare anche nella progettualità e nella politica industriale. Altrimenti un discorso dell’Unione come di Obama non sarà mai possibile da questa parte dell’Atlantico.
Roberto Sommella, MilanoFinanza 24/1/2015