varie, 24 gennaio 2015
Verso l’elezioni di Sergio Mattarella
MARIOLINA SESTO, IL SOLE 24 ORE 23/1 -
Sette giorni all’alba della prima votazione per il nuovo inquilino del Quirinale. Al tavolo di Matteo Renzi si ragiona di nomi, profili ma soprattutto di numeri. Sono le forze parlamentari su cui il premier può fare affidamento dopo il rilancio del Patto del Nazareno. Sulla carta Pd, Ncd, centristi e Forza Italia possono contare su 750 grandi elettori, un numero teoricamente sufficiente ad eleggere il Capo dello Stato già al primo scrutinio, quando serviranno i due terzi dei voti, e cioè 673. In realtà però le fratture nei due principali partiti sconsigliano di avventurarsi in una missione così rischiosa, segnata com’è dal voto segreto e dai possibili franchi tiratori. Meglio mettersi al sicuro uscendo allo scoperto con il candidato “vero” solo alla quarta votazione, quando il quorum richiesto scenderà a 505 voti.
Come affrontare allora le prime tre votazioni? Tra i Dem prevale nettamente l’ipotesi di votare scheda bianca. Ma ieri al vertice a Palazzo Chigi con la “cabina di regia” sembra sia emerso il dubbio che questa strategia possa saldare il “fronte del no”, un rischio che potrebbe essere arginato con un candidato di bandiera da “bruciare” per poi, alla quarta o quinta votazione, presentare il vero candidato frutto dell’accordo di Pd-Fi-Ncd. Il candidato di bandiera - è il ragionamento - permetterebbe di contare gli allineati e i franchi tiratori. E, soprattutto, avrebbe il vantaggio di evitare che opposizioni e malpancisti scarichino gli strali su un candidato (ad esempio Romano Prodi) con l’effetto di mettere in difficoltà il Pd e Renzi. Senza contare il rischio Cinque Stelle: tra i Dem è diffuso il timore che i grillini possano mettere in atto mosse a sorpresa a ridosso dell’avvio delle votazioni. Anche queste pericolose per la tenuta dei gruppi che dovrebbero sostenere l’accordo per il Colle.
Questi sette giorni di fuoco serviranno però anche per definire l’identikit del Capo dello Stato e poi tirare fuori il nome giusto. La prossima settimana il Pd incontrerà i partiti per fare il punto. Nessun profilo ancora definito dunque, nonostante via Facebook il segretario del Psi Riccardo Nencini (che ieri mattina ha incontrato una delegazione Dem per parlare ufficialmente di riforme) assicuri che c’è stata condivisione sulla loro indicazione: «Forte europeismo, garante dell’unità nazionale, alto profilo». Un nuovo incontro - fa sapere ancora Nencini - «ci sarà alle soglie delle votazioni».
Amato, Mattarella, Finocchiaro sono i nomi che continuano a circolare con più insistenza mentre gli ex segretari di partito come Veltroni (che ieri è stato avvistato a Palazzo Giustiniani, sede del presidente del Senato supplente Pietro Grasso e dove ha il suo studio anche il presidente della Repubblica emerito Giorgio Napolitano) e Bersani continuano a scendere nelle quotazioni, anche in considerazione del fatto che il premier avrebbe deciso di non inserire nella rosa ministri, tecnici di area ed ex segretari di partito. A tenere banco è anche il nome del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, valida garanzia di sostenibilità dei conti pubblici agli occhi di un’Europa sempre sospettosa nei confronti dell’Italia. È questo ragionamento che fa dire ad alcuni renziani: «Se Matteo potesse scegliere da solo, è Padoan che metterebbe al Colle».
Non perde poi consistenza l’ipotesi secondo cui Renzi avrebbe un nome da svelare solo all’ultimo momento e - si ragiona in ambienti Dem - in condizione di trovare il gradimento sia del proprio partito sia di Silvio Berlusconi.
E mentre il Cavaliere mantiene come candidato di bandiera Antonio Martino, si fanno sentire anche Grillo e Casaleggio, che dal blog chiedono al presidente del Consiglio di tirare fuori i nomi in anticipo in modo da poterli far votare dalla Rete: «Toc toc Renzi batti un colpo di democrazia», scrivono sostenendo che il futuro Capo dello Stato non debba essere scelto solo dal «duo Berlusconi-Renzi».
Mariolina Sesto
MASSIMO FRANCO, CORRIERE DELLA SERA 23/1 -
L’impressione un po’ sorprendente è che a oggi il centrodestra abbia una strategia per il Quirinale, il Pd non ancora. Meglio: ce l’ha probabilmente Matteo Renzi, ma è circondato da un partito in ebollizione, che sembra incline a rendergli la vita difficile. Anche se ieri l’ex segretario Pier Luigi Bersani, considerato il vero punto di riferimento della minoranza, assicura lealtà sul Quirinale.
Ed esclude sgambetti nel segreto delle urne come quelli avvenuti nel 2013. Ma mentre Mario Draghi con la sua Bce decide l’acquisto di titoli di Stato per oltre mille miliardi per contrastare la deflazione, e la legge elettorale si avvicina al «sì», il premier è costretto di nuovo a piegarsi sul proprio partito.
Deve ricompattarlo per evitare che l’elezione del capo dello Stato si trasformi nell’ennesima coda velenosa dello scontro interno. È una situazione paradossale ma in qualche misura annunciata. La minoranza ha rotto la tregua, e chiede al segretario una mediazione prima del 29 gennaio. Altrimenti si potrebbe ricreare a Camere riunite quanto è accaduto l’altroieri sull’Italicum: che per farla passare siano necessari i voti berlusconiani, perché la maggioranza di governo non ne ha abbastanza. Eppure, dall’esterno arrivano segnali positivi. Renzi comincia a sperare in un’Europa meno rigida, almeno in via di principio; e vede in dirittura d’arrivo alcune riforme.
Insomma, può dire che le cose accennano a «cambiare verso», per usare una delle sue espressioni preferite e un po’ abusate. Eppure non riesce a evitare che la sinistra scarichi le scorie congressuali e le divergenze sul patto con Berlusconi e sulle prossime scadenze istituzionali. Così, ad una settimana dall’inizio delle votazioni, Forza Italia, Ncd e Udc hanno già indicato il candidato di bandiera per i primi tre scrutini: l’ex ministro Antonio Martino. Fanno capire così di avere ben chiari i passaggi che dovranno affrontare. Sul versante opposto, invece, il Pd sembra segnare il passo.
Ieri pomeriggio Renzi ha riunito a Palazzo Chigi i vertici del partito e del Parlamento per ribadire che sarà seguito il metodo deciso dalla Direzione: il nome per il Colle sarà fatto solo il 28 gennaio. Si tratta di una scelta comprensibile, dettata dall’esigenza di non bruciare il candidato o la candidata.
La richiesta perentoria del Movimento 5 Stelle al Pd di tirare fuori una «rosa» per poterla sottoporre alla Rete, odora di trappola. E infatti una dei vice di Renzi, Debora Serracchiani, dice no alla richiesta. Ma su uno sfondo di tensione e di confusione, il rinvio rischia di essere percepito come un elemento di debolezza. È probabile che nei prossimi giorni lo sfondo cambierà, e che l’altalena delle candidature oscilli di nuovo, avanti e indietro. Il problema di fondo, però, rimane quello dell’unità del Pd. Renzi sta studiando tuttora l’ipotesi di una candidatura a sorpresa per la prima votazione. Se non riesce, però, o ricompatta il partito, o potrebbe trovarsi nella situazione singolare di chi riesce a eleggere il capo dello Stato col contributo determinante di Berlusconi. In questo caso, cambierebbero le coordinate del governo e gli stessi confini della maggioranza, della quale la coalizione vincente sul Quirinale sarebbe l’anticipazione e il calco.
IL POST 14/1 -
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è dimesso dopo nove anni di mandato. Cosa succede ora? Le cose fondamentali sono scritte in modo chiaro nell’articolo 86 della Costituzione:
Le funzioni del Presidente della Repubblica, in ogni caso che egli non possa adempierle, sono esercitate dal Presidente del Senato.
In caso di impedimento permanente o di morte o di dimissioni del Presidente della Repubblica, il Presidente della Camera dei deputati indice la elezione del nuovo Presidente della Repubblica entro quindici giorni, salvo il maggior termine previsto se le Camere sono sciolte o manca meno di tre mesi alla loro cessazione.
Quindi: il presidente della Repubblica annuncia ai presidenti delle Camere le sue dimissioni, il presidente del Senato Pietro Grasso assume il ruolo di presidente supplente, mentre la presidenza del Senato viene assunta a turno dai suoi vice-presidenti. Dal giorno della comunicazione ufficiale delle dimissioni, il presidente della Camera ha 15 giorni per convocare il Parlamento in seduta congiunta ed iniziare le procedure per l’elezione del nuovo presidente (non c’è un limite massimo di tempo entro il quale queste elezioni devono essere concluse). La Camera ha comunicato che la prima votazione per eleggere il successore di Napolitano sarà il prossimo 29 gennaio alle 15.
Chi può votare
L’articolo 83 della Costituzione dice che il presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune, cioè dai componenti della Camera e del Senato, a cui si aggiungono alcuni delegati eletti dai consigli regionali: ogni consiglio regionale ne elegge tre, a eccezione della Valle d’Aosta che ne elegge uno.
Quindi, se è al completo, l’assemblea per l’elezione del presidente è formata da:
– 630 deputati
– 315 senatori eletti più i senatori a vita. In questo caso i 5 già nominati (Elena Cattaneo, Carlo Azeglio Ciampi, Mario Monti, Renzo Piano e Carlo Rubbia) più lo stesso Giorgio Napolitano, che torna a essere senatore a vita
– 3 delegati per 19 regioni
– 1 delegato della Valle d’Aosta
Il totale per questa elezione, sulla carta, è di 1009 persone, anche se è possibile che qualcuno non partecipi al voto. I componenti dell’assemblea – in particolare i delegati regionali – sono spesso chiamati dalla stampa “grandi elettori”: come i nobili che potevano eleggere l’imperatore del Sacro Romano Impero durante il Medioevo e i membri del collegio elettorale che elegge il presidente degli Stati Uniti.
La Costituzione prevede che i delegati regionali siano scelti in modo da assicurare “la rappresentanza delle minoranze”. Di conseguenza, i consigli regionali riservano uno dei tre delegati all’opposizione, mentre gli altri due sono scelti tra le cariche principali degli organi politici regionali: la scelta cade di solito tra il presidente della regione, il vicepresidente della giunta, il presidente del consiglio regionale o il capogruppo del partito di maggioranza in consiglio. Il delegato della Valle d’Aosta è di solito il presidente della regione.
Dove si vota
L’aula in cui si vota il presidente della Repubblica è la Camera dei deputati, a palazzo Montecitorio (c’è posto per tutti). Il presidente dell’assemblea è quello della Camera dei deputati, dunque Laura Boldrini, così come è della Camera il regolamento che si applica nelle sedute.
Come si vota
Si vota con scrutinio segreto e a chiamata nominale: ogni elettore scrive il cognome di chi desidera votare in un biglietto e lo ripone in un’urna. Nei primi tre scrutini è richiesta la maggioranza di due terzi (in questo caso 672 membri), mentre dalla quarta votazione in poi basta la maggioranza assoluta (il 50 per cento più uno, che in questo caso corrisponde a 505 membri): votano prima i senatori, poi i deputati e, per ultimi, i delegati regionali. Lo spoglio delle schede viene fatto dal presidente della Camera, che legge ad alta voce i nomi dei candidati.
Diversi presidenti della Repubblica sono stati eletti al primo scrutinio grazie ad accordi tra i partiti prima del voto: l’ultimo è stato Carlo Azeglio Ciampi nel 1999. Giorgio Napolitano è stato eletto per la prima volta al quarto scrutinio il 10 maggio 2006, quando dunque era sufficiente la maggioranza assoluta dei componenti dell’Assemblea, che allora erano mille. Napolitano ottenne 543 voti, senza quelli dell’allora opposizione di centrodestra (che votò scheda bianca). In quella votazione arrivò al secondo posto Umberto Bossi (42 voti) e poi Massimo D’Alema (10 voti). Il 10 aprile del 2013 Giorgio Napolitano è stato eletto per un secondo mandato, al sesto scrutinio e con 738 voti: più o meno quelli del centrosinistra e quelli del centrodestra, esclusi SEL e il M5S. Era la prima volta che un presidente rimaneva in carica per più di un mandato. Il presidente che fu eletto dopo il maggior numero di scrutini fu Giovanni Leone, nel 1971, che ottenne 528 voti al ventitreesimo scrutinio. Nessuna donna è stata mai eletta presidente della Repubblica italiana.
Chi può essere eletto
Secondo l’articolo 84 della Costituzione può essere eletto presidente della Repubblica «ogni cittadino che abbia compiuto cinquanta anni d’età e goda dei diritti civili e politici. L’ufficio di presidente della Repubblica è incompatibile con qualsiasi altra carica». Il presidente della repubblica più giovane è stato Francesco Cossiga, eletto a 57 anni. Il più anziano, dopo Pertini eletto a 82 anni, è stato Giorgio Napolitano.
Che aria tira
Bisogna tenere a mente che i numeri in Parlamento sono gli stessi del 2013: gli stessi che contribuirono a portare alla situazione incerta e bloccata da cui si arrivò alla straordinaria rielezione di Napolitano. Il PD è il partito di maggioranza relativa (415 tra deputati e senatori) ma non ha i numeri per eleggere il presidente da solo, nemmeno se decidesse di sostenere un candidato comune con SEL che ha 33 esponenti tra Camera e Senato (al Senato sono 7 all’interno del gruppo misto): si arriverebbe dunque a 448. Le strade per arrivare una maggioranza consistente sono quindi due: un’alleanza con il centrodestra, sul modello di quella alla base degli accordi sulla legge elettorale e le riforme costituzionali, oppure una col Movimento 5 Stelle. La prima ipotesi permetterebbe in teoria di superare il quorum già al primo scrutinio, la seconda no. I numeri, comunque, sommando deputati e senatori, sono questi:
Sinistra Ecologia e Libertà: 26 (alla Camera, i 7 membri al Senato sono nel gruppo misto)
Partito Democratico: 415 (307 alla Camera, 108 al Senato)
Scelta Civica: 32 (25 alla Camera, 7 al Senato)
Per l’Italia: 13 (13 alla Camera)
Movimento 5 Stelle: 137 (100 alla Camera, 37 al Senato)
Lega Nord e Autonomie: 35 (20 alla Camera, 15 al Senato)
Area Popolare (NcD e UdC): 70 (34 alla Camera, 36 al Senato)
Forza Italia: 130 (70 alla Camera, 60 al Senato)
Fratelli d’Italia: 9 (alla Camera)
Misto: 52 (26 alla Camera, 26 al Senato)
Grandi Autonomie e Libertà: 15 (al Senato)
Per le autonomie: 16 (al Senato)
La collocazione alla Camera (dal sito della Camera dei deputati):
*****
CLAUDIO CERASA, RIVISTASTUDIO.COM 20/1
Ok: non si capisce nulla, non c’è niente di chiaro, le informazioni arrivano condizionate dalle veline, ogni leader ha un suo candidato, ogni candidato ha un suo percorso, ogni giorno spunta un nuovo candidato, ogni partito propone un suo metodo e a pochi giorni dall’elezione decisiva del successore di Giorgio Napolitano la partita sul Quirinale è appassionante e confusa, caotica ed eccitante. Ma al di là dello spin, le cose sicure sono poche e solo all’ultimo, solo il 28 gennaio, si capirà qualcosa di più rispetto al frutto delle mediazioni tra Pd, Ncd, Forza Italia e compagnia. Alcune cose sul dossier relativo al capo dello stato si possono però cominciare a mettere in fila e per capire come orientarsi in questa fase caotica un paio di certezze e un paio di punti fermi ci sono. Sono dieci. Proviamo a elencarli.
1 — Renzi ha detto di volere “un arbitro e non un giocatore” e la frase va interpretata in un modo preciso: il candidato che Renzi proporrà ai suoi alleati e al suo partito sarà un candidato che, a prescindere dal suo essere tecnico o politico, dovrà avere la caratteristica di non avere truppe in Parlamento.
2 — Il profilo immaginato da Renzi rispetto al successore di Napolitano è più simile a quello immaginato da Berlusconi che a quello immaginato dal Pd, e anche per questo sarà molto difficile che il prossimo capo dello stato provenga dalla vecchia sinistra del Pd: un uomo di centro, o un uomo con una tradizione democristiana alle spalle, è da questo punto di vista una mediazione accettabile (ancora di più, poi, se quest’uomo è esterno al Pd) e a meno che non riesca il miracolo di Bersani (di cui però Renzi non si fida), altre soluzioni sono complicate se non impossibili.
3 — Da qualche parte, in una qualche fessura, Renzi ha bisogno che il suo candidato sia in sintonia con la narrativa del cambiamento – ci deve essere qualcosa di renziano nel nome del successore di Napolitano – e per questo è lecito aspettarci che fino all’ultimo il segretario del Pd proverà a trovare un candidato almeno sotto i settanta anni (l’età, ovviamente, è il requisito più semplice da ricercare, e considerando che Napolitano si è dimesso da novantenne per Renzi non dovrebbe essere troppo complicato proporre qualcuno che possa essere identificato nella categoria dei possibili rottamatori).
4 — Il centro, inteso come soggetto politico fumoso e confuso che gravita attorno all’universo di Alfano, degli ex Udc e di un pezzo di Forza Italia, ha un candidato forte di cui nessuno parla mai ma che ha una sua forza e che corrisponde al nome di Pier Ferdinando Casini.
5 — Una partita molto delicata per la successione di Napolitano si gioca nei primi tre turni, quando cioè sarà necessario raggiungere i due terzi e non la metà dei voti presenti nell’assemblea dei grandi elettori. La tentazione di Renzi è quella di votare scheda bianca nei primi tre turni, e giocarsi tutto tra la quarta e la quinta votazione, ma la tentazione potrebbe essere messa in discussione da un fatto preciso: la minoranza del Pd, insieme con pezzi di Forza Italia, dei 5 stelle e di Sel, potrebbe sfruttare l’occasione per presentare un candidato alternativo al patto del Nazareno per trovare una convergenza su un nome poco renzian-berlusconiano.
6 — Giuliano Amato e Sergio Mattarella sono stati effettivamente sondati entrambi da Palazzo Chigi per il Quirinale ma essendo i due nomi di cui si parla di più in queste ore, è molto probabile che non abbiano la possibilità di uscire da Papi dal conclave dei grandi elettori. Amato (di cui Renzi non ha mai parlato male in vita sua, provate a cercare su Google News) e Mattarella (il cui figlio lavora al ministero delle riforme con Maria Elena Boschi) sono entrambi candidati forti ma dalla loro hanno due problemi: il primo difficilmente potrebbe essere presentato da Renzi come il perfetto rottamatore; il secondo, oltre alla scarsa esperienza internazionale, ha 74 anni e difficilmente potrebbe essere presentato anche lui da Renzi come il perfetto rottamatore quirinalizio.
7 — Napolitano non conta molto in questa fase, se non perché il suo voto si va aggiungere alla platea dei grandi elettori come senatore a vita, ma ha offerto a Renzi un profilo preciso rispetto al suo possibile successore: un politico in continuità istituzionale con gli attuali vertici dello Stato, che non abbia avuto in passato alcun tipo di ruolo di leadership politica di primo piano. Difficile dire cosa significhi esattamente ma il profilo è questo e bisogna tenerne conto.
8 — D’Alema è misteriosamente tornato molto attivo rispetto alla sfida del Quirinale e ha deciso di puntare su due carte. La prima carta (anche da contrapporre alla candidatura di Veltroni) è quella di Piercarlo Padoan. La seconda carta è quella di Giuliano Amato (ex numero della fondazione italiani Europei, di cui D’Alema è fondatore).
9 — All’interno di Palazzo Chigi, tra i consiglieri di Renzi, ci sono molte sensibilità diverse rispetto alla partita quirinalizia. La battaglia è tra i fiorentini e i non fiorentini. I non fiorentini sognano di portare un emiliano al Quirinale (Castagnetti è solo un modo per coprire la carta vera, che è Delrio). I non fiorentini (tendenza Lotti) non vogliono Delrio e hanno pensato (ipotesi difficilissima) a una carta a sorpresa che coincide con il nome di Giovanni Legnini (idea di Lotti e Speranza).
10 — La partita del Quirinale ha fatto emergere molte dinamiche importanti che da tempo vivevano sotto la superficie del dibattito parlamentare. Una di queste riguarda gli assetti futuri del centrodestra. E considerando che Alfano (Ncd), Berlusconi (FI), un pezzo di Lega (quella tendenza Calderoli) e il centro (Casini e compagnia) si muovono come se fossero un blocco compatto, non è difficile immaginare che la scelta del capo dello stato, anche in vista delle prossime regionali, sarà un terreno di gioco importante per capire che speranze avrà il centrodestra nel prossimo futuro di vivere e resistere insieme all’armata renziana.
*****
FRANCESCO VERDERAMI, CORRIERE DELLA SERA 24/1 -
Nella lista di Berlusconi c’è (anche) il nome di Amato. Nella lista di Alfano — che è la stessa di Berlusconi — c’è (anche) il nome di Amato. Nella lista di Bersani c’è (anche) il nome di Amato. Napolitano spinge per Amato. D’Alema dice Amato. Ma Amato sta nella lista di Renzi? È questo il punto, perché in passato, con un candidato così sponsorizzato, la corsa al Colle sarebbe finita al primo giro. Invece il premier — che prima del varo dell’Italicum al Senato non scioglierà la riserva — sta trasformando la corsa al Colle in un thriller. Renzi vive il nome di Amato come un assedio ed è evidente il tentativo di trovare una via di fuga. Da settimane gli interlocutori provano a interpretarne i segnali, azzardando pronostici sul quirinabile di suo gradimento. «Il fatto è — ha raccontato Bersani dopo averlo visto — che Matteo si comporta come un pokerista. Sta lì, inizia a sciorinare una lunga lista di nomi, e intanto ti scruta per vedere quali sono le tue reazioni».
L’unica volta in cui tracciò un identikit appena articolato sul candidato ideale, Napolitano era ancora al Quirinale. «Serve una figura saggia e preparata», disse Renzi: «Perché nei prossimi anni potrebbe essere chiamato ad affrontare situazioni difficili». Sembrava una preferenza per una personalità politica. Ma non è facile decrittare un oracolo, tantomeno il leader del Pd, capace — come solo lui sa fare — di muoversi su molti fronti contemporaneamente. E infatti, mentre è atteso alla partita della vita, Renzi medita sul restyling da fare al suo governo.
In più di un’occasione si è lamentato dell’operato «a dir poco insoddisfacente» di alcuni sottosegretari che vorrebbe cambiare. Intanto ha chiuso un negoziato con il governatore della Calabria, al quale farà arrivare come «forte sostegno» per la giunta il ministro Lanzetta, che lascerebbe quindi l’esecutivo. Vorrebbe poi mettere le mani sull’Istruzione — da affidare a un ministro del Pd — prima di presentare la riforma della scuola, e intanto non fa passare riunione di governo senza leggere alla Giannini i sondaggi che danno Scelta civica allo zero virgola. C’è il sindaco di Milano, Pisapia, che gli ha rappresentato la «personale disponibilità» al ruolo di Guardasigilli, anche se Orlando non intende candidarsi in Campania. Si tiene pronto nel caso il rapporto con Poletti — che si è logorato — dovesse liberargli il dicastero del Lavoro...
Più che un restyling sarebbe un rimpasto, un vero e proprio Renzi bis, una mossa inopportuna in questa fase, dato che in primavera si tengono le Regionali. A meno che il premier non intenda incrociare la partita del Quirinale con quella del governo. Perché se riuscisse a piazzare Padoan sul Colle, sfrutterebbe l’occasione — la sedia vuota dell’Economia — per avviare il giro di valzer. E Padoan — nonostante le polemiche sulla norma «salva Berlusconi» nel decreto fiscale — ci crede e ci spera nella promozione. Lo hanno intuito a via XX settembre, visto come il ministro ha ridotto all’osso le trasferte: «Fatemi restare a Roma in questi giorni...», sorride. E gli altri gli sorridono.
Sorridono un po’ meno nel Pd, dove — per il Quirinale — non solo la minoranza ha messo una croce sul suo nome, come su quelli di Bassanini e dell’ex presidente della Consulta De Siervo, ormai ribattezzato «il capo dello Stato del giglio magico». A differenza di due anni fa, però, l’opposizione interna non compirebbe il gesto sacrificale nel segreto dell’urna. Quando Bersani spiega che «non sarò certo un franco tiratore», è perché ai suoi ha detto: «Se Renzi ci presentasse un candidato di secondo rango, dovremmo dire pubblicamente che non l’accettiamo». Ormai il leader del Pd e il suo predecessore sono sull’orlo di un divorzio, perciò non è alle viste un nuovo incontro: una separazione nel voto per il Colle equivarrebbe a una scissione.
«Amato» dice Bersani. Per evitare la rottura ci sarebbe anche Mattarella. E la Finocchiaro. Ma è Renzi che manca all’appello, e nel Palazzo basta niente per scatenare la psicosi collettiva. Ieri un accenno su Visco, durante una riunione, ha innescato una reazione a catena. E poco importa se il governatore di Bankitalia si è schermito, il punto è che il suo nome è stato pronunciato da Renzi all’incontro con Berlusconi. Rientrato a palazzo Grazioli, il Cavaliere si è sfogato con i suoi: «Ci manca solo il ministro delle tasse». «Ma no dottore, non è Vincenzo. È Ignazio Visco. L’ha nominato lei a Bankitalia». «Ah sì e non mi ha nemmeno chiamato per dirmi grazie». E tutti a fissarlo: il «dottore» sta dicendo il vero o sta bluffando? Perché di pokeristi al tavolo d’azzardo per il Colle non c’è seduto solo Renzi...
Francesco Verderami
*****
FABRIZIO D’ESPOSITO, IL FATTO QUOTIDIANO 24/1 -
Fabrizio d’Esposito
Premiata ditta Denis & Luca. Il maestro e l’allievo. Verdini e Lotti, il cuore nero del Nazareno. Dopo l’inquietante e gigantesco pizzino (una pagina intera) che il biondo fedelissimo di Matteo Renzi avrebbe rigirato via mail alla redazione amica del Foglio sui parlamentari del Pd fedeli o meno al patto renzusconiano, in vista degli scrutini per il Quirinale, adesso la paura dei ribelli antinazareni si concentra sulla futura evoluzione dei metodi del premier. Ossia, il controllo del voto nel catafalco che sarà montato a Montecitorio il 29 gennaio, quando nell’urna s’inizierà a scegliere il successore di Giorgio Napolitano. Per il Capo dello Stato, il voto deve essere segreto ma i grandi elettori possono entrare nella cabina mobile con telefonino o smartphone per fotografare eventualmente la loro scheda. È già accaduto nel 2013. Chiamato in causa per i 101 franchi tiratori che affossarono Romano Prodi, il democristiano Beppe Fioroni mostrò ai giornalisti la sua scheda immortalata con il cellulare: “Ecco qua, non posso essere sospettato, ho votato Prodi”.
La minaccia del premier e l’allarme della minoranza
I timori della minoranza del Pd vengono fuori da una conversazione tra due senatori di area bersaniana, nei giorni scorsi a Palazzo Madama. Uno noto, l’altro di meno. Dice il secondo al primo: “Vedrai che imporranno il controllo del voto. Ci chiederanno di fotografare la scheda nel catafalco per essere sicuri”. Il dialogo incrocia il pizzino lottiano in una dinamica micidiale, dal sapore verdiniano. Come spiega un deputato antirenziano del Pd: “Il premier scatenerà l’Armageddon minacciando le elezioni anticipate con il Consultellum se non votiamo il presidente del Nazareno. E a chi verrà comprato tra di noi, con la promessa di una ricandidatura, sarà chiesta la prova della fedeltà”. Cioè la foto della scheda.
Luca, il Verdini 2.0 e il metodo Razzi
Ecco perché sui divanetti del Transatlantico, Luca Lotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, è stato soprannominato “Verdini 2.0”. I metodi di “Denis” in politica sono senza scrupoli. Lo testimoniano processi e inchieste. Deputati o senatori acquisiti per compensare scissioni interne oppure per far cadere governi nemici. I metodi sono questi, da Sergio De Gregorio ad Antonio Razzi, e giova ricordare che Verdini e Lotti sono amici. Si scambiano mail, si telefonano quotidianamente. E adesso sono uniti nella madre di tutte le battaglie. L’elezione di un capo dello Stato garante del Nazareno, non della Costituzione. Così la lotta politica diviene ancora una volta la caccia all’incerto, all’opportunista o al pauroso da convincere con la fatidica frase evocata dal pizzino fogliante: “Ti farò un’offerta che non puoi rifiutare”. Tutto questo potrebbe portare al controllo del voto con il selfie nel catafalco di Montecitorio. Romanzo criminale o romanzo Quirinale?
Le regole per i cittadini non valgono a Montecitorio
Recita la legge: “Nelle consultazioni elettorali o referendarie è vietato introdurre all’interno delle cabine elettorali telefoni cellulari o altre apparecchiature in grado di fotografare o registrare immagini”. Perché i mille e passa grandi elettori del presidente della Repubblica devono votare in modo differente dagli altri italiani? Dice Pippo Civati: “Sarebbe bello votare come tutti i cittadini. Lo trovo giusto”. Il Fatto ha rigirato allo staff di Laura Boldrini, presidente della Camera, i timori che sinora serpeggiano sotterraneamente in una parte del Pd. Questa la risposta: “Per il momento nessuno ancora ha sollevato la questione. Qualora dovesse accadere, per la segretezza del voto è sufficiente il catafalco”. Tradotto, vuol dire: telefonino libero nella cabina volante.
La promessa di un seggio e i posti disponibili
Ma a quanti parlamentari della minoranza del Pd, il clan renziano può promettere la ricandidatura con un seggio certo in cambio del voto quirinalizio? Oggi i deputati e senatori democratici sono 415. Con la riforma del monocameralismo e l’Italicum in vigore dal 2016 ci saranno solamente 340 seggi alla Camera da assegnare (cento con i capilista nominati e 240 con le preferenze). Sempre che il Pd vinca le elezioni. Il rischio è che nei prossimi giorni vengano promessi posti immaginari. Il Nazareno scriverà una delle sue pagine più oscure. E per assicurare il successo alla segretezza del patto indicibile tra il Pregiudicato e lo Spregiudicati sarà forse necessario il controllo del voto segreto. È la Terza Repubblica dei costituenti renzusconiani con i metodi della ditta Lotti & Verdini. La campagna acquisti sta per iniziare.
*****
VITTORIO MACIOCE, IL GIORNALE 24/1 -
L’arte del catenaccio non passa mai di moda. Soprattutto in politica. Se qualcuno prova a chiedere a Fassina, a Civati, alla Bindi o a Vendola un candidato per il Quirinale rispondono che nomi non ne fanno. Non serve (tanto non hanno i voti). L’importante è che non sia un «nazareno». È una strana malattia, questa, di ragionare sempre in negativo. È lo spirito dell’interditore di professione, quello che per dovere deve annullare l’avversario, cancellarlo, non farlo giocare. Un po’ ricordano i mediani degli anni ’60, quelli a cui gli allenatori dicevano: se va in bagno, seguilo. È anche un’ossessione. È vedere l’altro come il male da esorcizzare a tutti i costi. È l’abitudine a non scegliere, a non governare, preferendo il ruolo di oppositore assoluto. Il no arriva prima, a prescindere. Non sanno chi sarà il «nazareno», magari è l’uomo o la donna dei loro sogni, ma il solo fatto che passi da un patto Renzi-Berlusconi è un nome maledetto. È il metodo, ti diranno. Quello che piace a loro funziona così. Prima sempre contro Berlusconi. Ora sempre contro Berlusconi e Renzi. Dove è finita allora quella storia del presidente della Repubblica più o meno condiviso? Retorica. A quel punto è più onesto guardare in faccia la realtà: chi ha i voti, vince.
La sinistra s’incarta perfino quando i voti li ha, figuriamoci quando deve andare a cercarli. Di solito preferisce litigare tra correnti e antipatie, per poi giocare ai dieci piccoli indiani. Perché alla fine è questo il grande paradosso della sinistra catenacciara. Se spunta un leader, lo ammazzano. Se bussa un candidato, lo bruciano. Il primo che alza la testa, lo spuntano. È la dura legge di chi sta sempre contro.
L’utopia è raggiungere una perfetta mediocrità. Se qualcuno ha qualche talento viene incoraggiato ad abbassare la testa e camminare lungo i muri. Mimetizzarsi. È una forma di sopravvivenza. Qualche volta funziona. C’è chi sostiene che nella gara per il Quirinale la scelta più saggia sia nascondersi in uno sgabuzzino o dietro la tenda e aspettare che gli altri si facciano fuori a vicenda, e uscire solo quando la carneficina elettorale è finita. È la speranza di tanti non nazareni. Solo che non dipende da loro.
La partita per il Colle è in mano a Renzi e il patto con Berlusconi garantisce, al momento, il successo. Matteo sostiene che ha un nome su cui non si può non essere d’accordo. È, dovrebbe essere, la sua carta a sorpresa. Berlusconi si sta fidando e presenta il suo candidato di bandiera, quello che avrebbe scelto senza la necessità di mediare. È Antonio Martino e, tra parentesi, non è un «nazareno», appunto perché non fa parte del patto. È la scelta ideale, non di compromesso. Grillo gioca alle sue «quirinarie» e aspetta di conoscere il candidato del Pd. Legittimo. Chi è invece il candidato dell’altro Pd? Non si sa. Non importa. Non serve. È un non presidente. Il «catenacciaro» non gioca. Si accontenta di distruggere.
*****
UGO DE SIERVO, LA STAMPA 24/1 -
La grande incertezza politica ed il lungo periodo che precede le votazioni per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica stanno facendo gonfiare oltremodo gli elenchi dei veri o presunti aspiranti a questo fondamentale incarico.
Così si sommano ai veri ed autorevoli possibili candidati, tante altre rispettabili persone inidonee o che magari non desiderano affatto essere così messe in mostra.
Ma il prolungarsi dei tempi e la necessità di qualche giornalista o politico di apparire sempre più informato degli altri fa apparire continuamente nuovi nomi «sicuri» su qualche agenzia di stampa o in qualche chiacchierata nel Transatlantico, con buona pace della riservatezza e molto spesso della verità.
Eppure alcuni giorni fa opportunamente il prof. Cassese ha messo in evidenza sulla stampa che tutti i nostri Presidenti della Repubblica sono sempre stati eletti, malgrado le tanto differenti contingenze politiche che hanno accompagnato i diversi momenti elettorali, fra persone che avevano in precedenza svolto importanti funzioni nelle nostre istituzioni politiche, presiedendo le assemblee parlamentari, dirigendo i governi o almeno essendo stati importanti ministri.
Ciò non deriva da norme giuridiche o da privilegi politici, ma risponde ad alcune caratteristiche da non sottovalutare del nostro sistema politico e di governo: evidentemente implicita in scelte del genere è la convinzione che un Presidente della Repubblica debba conoscere davvero ed a fondo sia il nostro ordinamento e le sue dinamiche, sia lo stesso sistema delle forze politiche rappresentate. Solo così egli può operare in modo davvero efficace, nello svolgimento delle sue importanti funzioni di equilibrio e di stimolo. Naturalmente esiste anche la seria esigenza che il Presidente non si appiattisca sulla realtà politica esistente, ma sappia esercitare le sue molteplici funzioni con sufficiente distacco dalla politica contingente, «dimenticando» la propria precedente militanza politica di parte ed aprendosi decisamente ad un vero ed intenso rapporto con la nostra società: qui però dovrebbe operare saggiamente la scelta fra i vari candidati da parte del Parlamento, appositamente integrato per l’elezione del Presidente della Repubblica.
Naturalmente tutto ciò non è giuridicamente obbligatorio, ma di certo selezionare i Presidenti della Repubblica attingendo al di fuori delle consolidate classi politiche del nostro sistema parlamentare, potrebbe introdurre un mutamento davvero forte nel nostro sistema politico, dal momento che una scelta del genere si sommerebbe alla lunga ed evidente crisi dei partiti politici, i veri, grandi protagonisti nel funzionamento delle nostre istituzioni.
Da questo punto di vista allora si capisce la superficialità con cui si è parlato di tante facili candidature di pur degnissimi esponenti culturali.
Penso inoltre di poter dire – provenendo da studi giuridici ed essendo stato impegnato nella Corte Costituzionale – che possono apparire inidonee perfino candidature di esperti solo delle nostre istituzioni, anche quando essi diano garanzie eccellenti per studi od esperienze. Ciò perché la vita nelle istituzioni repubblicane non si riduce ai pur importantissimi profili giuridici, ma coinvolge tanti profili culturali, sociali, economici (in una parola, politici), di cui il Presidente della Repubblica dovrebbe essere profondamente consapevole.
Ecco che allora la scelta del nuovo Presidente della Repubblica appare in tutta la sua serietà e complessità: ma ciò è logico, vista la sua importanza.
*****
STEFANO FOLLI, LA REPUBBLICA 24/1 -
Di ritorno dal vertice fiorentino con Angela Merkel, si suppone che il premier Renzi voglia dedicare il week-end al rebus del Quirinale. Perché il tempo stringe e — a meno di non dar credito alla teoria fantapolitica della «carta segreta», del personaggio imprevisto che emerge all’improvviso — i fili del negoziato sono ancora da annodare.
Lo sono a sinistra, cioè nel Pd, visto che finora le distanze restano immutate: nessun ponte è stato gettato verso la minoranza dei 140, il fronte frastagliato e irrequieto di cui Bersani resta il punto di riferimento. Si sono sentite dichiarazioni concilianti da parte del presidente del Consiglio, ma nulla di concreto ne è seguito. A destra invece c’è il famoso «asse» con Berlusconi, cui si aggiungono i centristi di Alfano: un rapporto essenziale per Renzi, a maggior ragione con il centrosinistra diviso, ma non tanto da garantire la scelta sicura del predestinato. Non è facile immaginare il segretario del Pd che individua il presidente in un dialogo privilegiato con Forza Italia, quando un terzo del suo partito rumoreggia perché non viene coinvolto oppure lo solo in modo formale.
Al momento, il patto con Berlusconi assomiglia a un metodo (senza sottovalutare la variabile centrista che ha il suo peso in Parlamento): un metodo destinato a produrre un volto su cui ancora non c’è intesa. Soprattutto perché il nome non potrà essere calato dall’alto nell’assemblea del Pd, ma dovrà scaturire da un’iniziativa del centrosinistra su proposta del premier. Quanto meno le forme dovranno essere rispettate. Uno dei nodi è proprio qui. Nessuno ha capito con precisione se avremo un nome individuato da Renzi con Berlusconi-Alfano e poi sottoposto al Pd, ovvero se il procedimento seguirà il percorso opposto: prima il Pd, poi l’alleato esterno. Per ora si viaggia nell’ambiguità. La sensazione è che Renzi voglia evitare per quanto è possibile una trattativa con la minoranza appena reduce dallo scontro sull’Italicum, ma che si renda conto di non poter procedere con un partito spaccato. Certo, le voci più radicali già obiettano contro «il garante del Nazareno», ossia contro qualsiasi presidente eletto con i voti del centrodestra berlusconiano. Voti che potrebbero risultare decisivi, come sulla legge elettorale, se il Pd si frantumasse e i franchi tiratori aprissero il fuoco. Ma in tal caso l’intero quadro politico ne uscirebbe sconvolto.
In definitiva il premier è di fronte al consueto bivio. Prima ipotesi: ignorare i sussulti della minoranza e andare avanti con caparbietà, magari tentando di vincere l’intero piatto con una figura dal profilo politico tenue o inesistente. Nelle ultime due settimane si è fatto a intervalli il nome del ministro dell’Economia, Padoan. Ma il rischio di esporlo a un rigetto da parte del Parlamento è abbastanza alto, considerando quanto le Camere sono sfilacciate. Renzi vede soprattutto il pericolo di uno smacco personale, dopo il quale la regìa dell’operazione Quirinale diventerebbe un’impresa proibitiva.
La seconda ipotesi conduce a una personalità di esperienza politica e istituzionale, nello schema che prevede una sorta di secondo Napolitano con la stessa autonomia del primo. Una figura che avrebbe il consenso di buona parte della minoranza. Ci sarà sempre qualcuno che dirà: «ecco il garante dell’asse Renzi-Berlusconi». Ma chissà. Ieri l’anziano socialista Rino Formica diceva al sito «Linkiesta» che Amato sarebbe «un punto di soluzione diverso dal patto del Nazareno»: ossia riserverebbe qualche sorpresa una volta eletto per sette anni. A loro volta Mattarella o Anna Finocchiaro, per fare due esempi, sarebbero presidenti non classificabili come figli di un accordo politico: la storia insegna che quasi sempre il capo dello Stato tende a svincolarsi dall’accordo parlamentare che lo ha issato sul Colle. Intanto però i giorni passano e non c’è chiarezza, tranne su un punto: le schede bianche che il Pd intende mettere nell’urna nelle prime tre votazioni.
*****
CLAUDIO CERASA, IL FOGLIO 22/1 -
C’è una lista che gira a Palazzo Chigi. Una lista importante, piena di numeri, di appunti, di calcoli, di grafici e di stime possibili su quella che sarà la partita delle partite, la sfida delle sfide: l’elezione del prossimo presidente della Repubblica. I nomi, da qualche tempo, continuano a girare con un notevole ritmo e sono molte le combinazioni che vengono studiate in queste ore rispetto alle potenzialità dei vari candidati. Giuliano Amato, che però non piace a Renzi, ma chissà. Sergio Mattarella, che però non piace a Berlusconi, ma chissà. Anna Finocchiaro, che però non piaceva a Renzi, ma piace alla Lega, e forse anche a Berlusconi, ma che non convince i renziani, ma chissà. Il Quirinale, si sa, è come un cubo magico in cui molte combinazioni sono possibili ma solo una è quella perfetta e nei prossimi giorni Renzi e Berlusconi, una volta cementato il patto scritto attorno all’Italicum (che ieri ha retto, alla grande, e Forza Italia è stata fondamentale per coprire lo spazio lasciato libero dai senatori della minoranza del Pd) continueranno a trattare e fino al prossimo 28 gennaio, giorno in cui Renzi annuncerà il nome sul quale scommetterà il Pd, ci saranno poche certezze. Sui nomi, dunque, si potrà ancora fantasticare, sui numeri meno. Ed ecco allora che la lista che gira a Palazzo Chigi, la lista che gira da qualche giorno anche tra i gruppi parlamentari del Pd, torna attuale e rappresenta un documento importante per capire, all’interno del gruppo del Pd, quali sono i rapporti di forza, dove si nascondono le insidie, chi sono i parlamentari che voteranno, senza troppe storie, ciò che verrà chiesto dalla ditta, quali sono i parlamentari per i quali votare ciò che chiede la ditta potrebbe essere complicato e quali sono i parlamentari che invece con ogni probabilità non voteranno il nome che verrà indicato dagli azionisti del patto del Nazareno. La lista è una ricostruzione del Foglio, frutto della consultazione di tre liste diverse di cui sono in possesso le principali correnti del Pd, quelle più numerose: renziani, giovani turchi (Orfini e compagnia), area dem (Fassino e Franceschini) e area riformista (Speranza, Cuperlo, bersaniani). E la lista, che pubblichiamo integralmente in questa pagina, ci offre delle informazioni importanti rispetto a quello che è il gruppo parlamentare più grande che andrà a formare l’assemblea dei grandi elettori. I numeri ci dicono questo. Ci dicono che alla Camera i voti con l’ok, quelli che con ogni probabilità dovrebbero votare a favore di ci che verrà deciso da Renzi, sono 204 su 307 totali. Di questi 307, quelli a rischio sono 84, quelli che voteranno sicuramente no saranno 19. Ci dicono che al Senato la proporzione è più o meno identica: 71 voti sicuri, 15 a rischio, 22 quasi certamente contrari. Sommando questi numeri, è il calcolo di Palazzo Chigi ed è anche il calcolo delle correnti alleate ai renziani, si arriva a 275 voti sicuri, 99 a rischio (alcuni dei quali forse recuperabili), 41 già persi in partenza. In linea di massima i parlamentari sicuri sono quelli che fanno parte di tre correnti che hanno un peso importante nel patto del Nazareno: i renziani (50 alla Camera, 21 al Senato, sono aumentati rispetto all’inizio della legislatura, quando erano soltanto 51); i giovani turchi (45 alla Camera, 14 al Senato, anche loro aumentati rispetto all’inizio della legislatura, quando erano una cinquantina); area dem (37 alla Camera, 17 al Senato). Una corrente dove il consenso e il dissenso nei confronti del patto del Nazareno è preventivabile fino a un certo punto è invece quella che mette insieme un pezzo importante degli ex bersaniani, che ieri si sono riuniti, e che arriva a contare 104 unità (83 alla Camera, 21 al Senato, di questi 40 sono riconducibili direttamente a Bersani, gli altri sono legati al capogruppo alla Camera Roberto Speranza). In questo blocco si trovano anche 14 parlamentari di area Civati, 12 bindiani, 12 veltroniani, 9 ex Sel, 6 dalemiani puri. I calcoli sono questi, i numeri che si trovano nelle mani degli uomini macchina di Renzi corrispondono a queste cifre, la quota di franchi tiratori presenti nei gruppi parlamentari è stimata da un minimo di 70 a un massimo di 130, e il blocco di voti sicuri, 275, è un blocco che va sommato agli altri voti che vivono all’interno del patto del Nazareno: i 130 voti di Forza Italia (meno una trentina di voti legati a Fitto, forse); i 32 voti di Scelta Civica; i 70 voti del blocco di centro formato da Ncd-Udc; i 52 voti del gruppo misto; i 58 delegati regionali. Tolti i parlamentari fittiani, e non considerando i possibili voti degli ex cinque stelle, ecco cerchiato un numero che indicativamente viene considerato accessibile dal patto del Nazareno per eleggere un presidente della Repubblica tra la quarta e la quinta votazione: voti minimi 506, voti potenzialmente disponibili 580. I numeri sono questi, vedremo come andrà.
Claudio Cerasa
*****
ALESSANDRO CAMPI, IL MESSAGGERO 15/1 -
Uomo o donna, laico o cattolico, di destra o di sinistra (o magari di centro), alto o basso, giovane o anziano, il prossimo Capo dello Stato si troverà dinnanzi, almeno per i primi tempi del suo mandato, un’agenda largamente fissata dal suo predecessore. Ma resa altresì ineludibile dalle difficili condizioni in cui versano il nostro sistema politico-istituzionale e più in generale l’intero Paese.
RIFORME ISTITUZIONALI
L’impegno maggiore sarà, da subito, quello sul versante delle riforme istituzionali: dall’adozione di una nuova legge elettorale al completamento del percorso di revisione costituzionale. Su questi obiettivi lo sforzo di Napolitano è stato massimo, al punto da subordinare la sua rielezione proprio al loro raggiungimento. Su di essi aveva più volte richiamato l’attenzione delle forze politiche anche durante il primo mandato. Ma i risultati raggiunti, rispetto all’urgenza dichiarata, sono stati al di sotto delle sue aspettative e delle necessità del Paese. Al nuovo Capo dello Stato toccherà perciò riprendere nelle proprie mani le fila di un processo riformatore che se lasciato alla libera determinazione politica dei partiti e alla loro dialettica spesso paralizzante rischia seriamente di arenarsi.
POLITICA ESTERA
Un altro importante fronte d’impegno sarà quello internazionale. Napolitano, nelle fasi di vuoto politico e di caduta della credibilità che l’Italia ha attraversato nel corso degli ultimi anni, ha garantito il buon nome dell’Italia all’estero grazie alla sua vasta rete di relazioni e alla considerazione di cui godeva nelle diverse cancellerie in virtù della sua biografia politica. C’è da sperare che, nell’immediato, il quadro politico interno finalmente di stabilizzi, dopo le fibrillazioni che, dalla crisi del IV governo Berlusconi in poi, hanno scandito la vita pubblica italiana. Ma la perdita di status internazionale dell’Italia e della sua classe politica è un fattore per così dire strutturale e di lungo periodo, che certo non può essere compensato dall’attivismo di Renzi nei consessi internazionali o dalle performance di una squadra di governo che all’estero guardano, nella migliore delle ipotesi, con simpatia e curiosità. Il che significa che toccherà ancora al Quirinale (e al suo nuovo inquilino) garantire la nostra affidabilità agli occhi di alleati e interlocutori internazionali.
L’ANTIPOLITICA
Napolitano, specie negli ultimi tempi, ha più volte denunciato l’antipolitica, dando anche l’impressione di valutare negativamente, cosa che il suo ruolo di garante dell’unità nazionale non gli consentiva, il voto che molti italiani hanno dato ai partiti di protesta. In realtà, stigmatizzando i pericoli del populismo, Napolitano ha colto un punto dolente della vita pubblica italiana: il divorzio sempre più radicale tra cittadini e istituzioni, sul quale poi si innestano facilmente la demagogia dei capipopolo e lo sprezzo degli elettori per la politica in ogni sua forma. Se un obiettivo politico generale dovrà avere il prossimo Capo dello Stato, sarà proprio quello di provare a ricostruire un qualche legame fiduciario tra il popolo e i suoi rappresentanti, richiamando questi ultimi alla virtù, al decoro e allo spirito di servizio. Napolitano ci ha provato, il suo successore dovrà riuscirci.
LE TOGHE
Capo della magistratura, Napolitano ha più volte espresso riserve – sebbene in modo comprensibilmente assai velato – nei confronti del protagonismo politico di certi suoi rappresentanti. E ha fatto intendere che, chiusa la partita delle riforme istituzionali, bisognerà mettere mano ad una seria e articolata revisione dell’ordinamento giudiziario, nella convinzione che il nodo (rimasto per un ventennio irrisolto) politica-giustizia è quello che ha impedito alla cosiddetta Seconda repubblica di consolidarsi dal punto di vista degli equilibri politico-istituzionali. Chi ne prenderà il posto difficilmente potrà mostrarsi indifferente rispetto ad una simile questione.
IL PATRIOTTISMO
Tutto ciò non vuol dire naturalmente che il nuovo Capo dello Stato non abbia margini di manovra e che la sua linea d’azione sia già tutta bella che delineata. Ogni nuovo inquilino del Colle, una volta presa confidenza con un ruolo tanto difficile e delicato, si è costruito una sua personale agenda politico-istituzionale. Si pensi, ad esempio, all’impegno che Ciampi decise di profondere sul tema del “patriottismo costituzionale”. O appunto all’enfasi posta da Napolitano sul tema di una radicale riforma dell’ordinamento costituzionale come necessaria premessa per rilegittimare il sistema politico agli occhi dei cittadini dopo anni di scandali e di prove all’insegna dell’inefficienza.
IL RINNOVAMENTO
Per il prossimo Presidente della Repubblica un impegno originale e interessante potrebbe essere, specie se ad occupare il Colle sarà – per così dire – un “giovane” (sempre ricordando che, Costituzione alla mano, dovrà aver raggiunto almeno i cinquant’anni), quello del rinnovamento della burocrazia quirinalizia. Tra le più tecnicamente capaci, non foss’altro per il ruolo di regia e coordinamento che essa è chiamata a svolgere su una quantità di delicati dossier politici e costituzionali (si pensi solo al vaglio della legislazione), ma anche tra le più inossidabili e gerontocratiche della nostra Repubblica. Sul sito istituzionale del Quirinale compare ancora Gaetano Gifuni nel ruolo di Segretario generale onorario della Presidenza della Repubblica: un ruolo che non si capisce cosa voglia dire esattamente. Ringiovanire e ruotare le cariche nei diversi uffici e servizi del Quirinale potrebbe essere un buon programma di lavoro per il futuro Capo dello Stato, se è vero che il processo di rinnovamento generazionale della politica – così pervicacemente perseguito da Renzi – è altrimenti destinato ad infrangersi contro l’inamovibilità di apparati burocratico-amministrativi che hanno sin qui mostrato una grande capacità a riprodursi attraverso il meccanismo della cooptazione su basi puramente tecnico-corporative. Il rinnovamento della macchina del Quirinale sarebbe un segnale importante per l’intero sistema di potere italiano.
IL PROFILO
Naturalmente, per tutte le ragioni sin qui enunciate ben si comprende come il prossimo inquilino del Colle debba avere un profilo politico-istituzionale che lo renda da subito autonomo ed autorevole nella sua azione: capace cioè di farsi ascoltare dal ceto politico, non di essere il notaio delle decisioni assunte da quest’ultimo. Nulla a che vedere dunque con i nomi spesso eccentrici che sono circolati in queste settimane. All’Italia, prima che una figura simpatica e popolare, serve un conoscitore scrupoloso della Costituzione, un uomo di vasta esperienza politica, noto e apprezzato all’estero, capace di guardare ai problemi del Paese in modo disincantato e oggettivo, magari esperto anche di questioni economiche visto il perdurare della crisi. Come si sarà capito, di uomini (e donne) con queste caratteristiche non ce ne sono poi molti in giro.
Alessandro Campi
*****
MARIA TERESA MELI, CORRIERE DELLA SERA 23/1 -
Manca solo una manciata di giorni al grande appuntamento, eppure Matteo Renzi continua a giocare a carte coperte. Difficile per il premier fare altrimenti, dal momento che ormai tutti i fucili sono puntati su di lui.
I fucili degli avversari, come i grillini, che il presidente del Consiglio è pronto a incontrare per discutere del Quirinale, a patto che «loro accettino di venire nella sede del Partito democratico, al Nazareno», senza fare sceneggiate. E anche (o soprattutto?) quelli della minoranza interna. La quale minoranza, ieri sera, ha voluto mandare al premier un altro segnale, annunciando che non voterà a Palazzo Madama un emendamento presentato da Anna Finocchiaro. Come a dire: non credere che se candidi lei al Colle noi diciamo di sì e tutto viene risolto.
Una mossa, questa, che era già stata anticipata dal senatore dissidente Corradino Mineo, nel corso della trasmissione di La7 L’aria che tira : «Io personalmente non voterei la Finocchiaro, se venisse candidata al Quirinale, e penso proprio che Bersani farà lo stesso».
Già, Pier Luigi Bersani. Un secondo incontro con l’ex segretario — dopo il primo, andato a vuoto — è stato messo in agenda ed è imminente. Ma il presidente del Consiglio non sa se sarà risolutivo, anche se assicura ai suoi che alla fine verrà proposto un candidato «a cui la minoranza non potrà dire di no», a meno che «non si voglia giocare allo sfascio, e io non lo penso».
Renzi fa mostra di credere alla buona fede dell’ex segretario che dice «non faremo i franchi tiratori». Ma la verità è che il premier non ha compreso bene dove veramente vogliano andare a parare gli esponenti della minoranza: « Non si capisce — dice ai suoi — dove vogliano andare, non hanno una strategia comune».
Sin qui la cosa non ha provocato delle difficoltà all’inquilino di Palazzo Chigi: «A me finora è andata bene così, perché abbiamo portato a casa il risultato che ci premeva, cioè quello di una legge elettorale che stabilirà chi vince senza ambiguità. Il che, grazie anche alla riforma del Senato, consentirà a chi governa di poterlo fare veramente».
Ma in un futuro nient’affatto remoto, bensì molto prossimo, Renzi dovrà fare i conti con una fetta del «suo» partito che non risponde alle direttive della segreteria. Non saranno 140, perché, come confessava Corradino Mineo, all’assemblea della minoranza, l’altro ieri, «erano forse un centinaio», però rappresentano comunque un numero che pesa. Non tanto e non solo in vista dell’elezione del presidente della Repubblica, perché, per come si sono messe le cose, il presidente del Consiglio può concedersi anche il lusso di 101 franchi tiratori. È il prosieguo della legislatura che, a questo punto, è in gioco. Sì, perché nel campo del Pd sono in molti a puntare a un ridimensionamento di Renzi.
E l’elezione dell’uomo del Colle è un tassello di questa operazione. Basta vedere i posizionamenti. Bersani, in attesa del desiderato (da lui) incontro con il premier, fa intendere a Renzi che potrebbe indossare i panni del mediatore, ma poi lascia andare avanti Miguel Gotor e gli altri al Senato. Massimo D’Alema, invece, non fa nemmeno quella parte e confida a destra e a manca di tifare per la vittoria di Alexis Tsipras in Grecia, quasi prefigurando un’altra sinistra al di là del Partito democratico.
«C’è chi spera di farmi fuori o, quanto meno, con i ricatti, di condizionarmi, ma è una speranza vana, io vado avanti perché sono convinto che questo Paese abbia bisogno di grandi cambiamenti», dice il presidente del Consiglio. Che, come si è detto, non cercherà certo la rottura sul Quirinale: «Alla quarta votazione dobbiamo avere un presidente, perché ci sono molti professionisti della politica autocandidati che sperano di entrare in gioco dalla quinta in poi». Quindi il nome su cui alla fine convergerà Renzi non sarà un nome che gli potrà portare l’ostilità dei suoi avversari interni.
Il premier si è dato come limite il 2 febbraio, anche se spera di chiudere prima la vicenda. Per il resto sa che il cammino non sarà facile, comunque si chiuda la partita del Quirinale. Non basterà una soluzione che vada più o meno bene a tutti a sanare le ferite interne. Ma Renzi è convinto che, quale che sia l’esito finale di quella vicenda, archiviata la pratica, il governo non subirà contraccolpi pesanti: «È da tempo, ormai, che mi mettono i bastoni tra le ruote e che cercano di ostacolare i nostri provvedimenti, eppure stiamo andando avanti lo stesso», spiega. E aggiunge: «Vedrete che non dureremo molto, ma moltissimo. Molleranno prima quelli che stanno cercando di ostacolarci, perché io non mollo mica».
Maria Teresa Meli
*****
EMILIA PATTA, IL SOLE 24 ORE 21/1 -
Dopo lo scontro del premier Matteo Renzi con la minoranza del Pd sull’Italicum andato in scena in Senato nelle ultime ore, si chiarisce anche meglio la partita del Quirinale: il premier la giocherà dalla stessa parte di Silvio?Berlusconi, ricevuto ieri mattina a Palazzo Chigi con tutto il rilievo mediatico del caso per un colloquio di un’ora. Al centro dell’incontro la partita della legge elettorale. Ed è il capogruppo di Forza Italia Paolo Romani a dire poco dopo come stanno le cose: «In questo momento, stante questa situazione politica in cui Renzi non ha più la maggioranza al Senato, riteniamo di sostituire i senatori che non concorrono all’approvazione della legge elettorale con i nostri». E lo schema con il quale si approverà in Aula - almeno secondo le previsioni - il maxiemendamento a firma Stefano Esposito (Pd) con tutte le modifiche volute da Renzi alla prima versione dell’Italicum sarà lo stesso con cui si eleggerà tra qualche giorno, a partire da giovedì 29, il successore di Giorgio Napolitano al Quirinale: Pd senza la minoranza (almeno quella più agguerrita), Fi senza i fittiani e i centristi di Angelino Alfano compatti. Quasi la nascita di una nuova maggioranza, che non a caso lascia «interdetti» i bersaniani, a cominciare dallo stesso Pier Luigi Bersani. Non ci sarà la sigla del novello patto con un vertice a tre Renzi-Alfano-Berlusconi come ipotizzato negli ultimi giorni, Ma il fatto politico c’è tutto. E si tratta di una “maggioranza” che può sopportare fino a 180-190 franchi tiratori.
Il percorso, intanto: Renzi e Berlusconi hanno concordato di rivedersi martedì 27 per chiudere su un nome, giusto il giorno prima della “proclamazione” pubblica all’assemblea dei grandi elettori del Pd come annunciato da Renzi. E questa volta sarà un incontro ufficiale all’interno delle consultazioni di rito previste a partire da lunedì mattina con tutti i gruppi parlamentari: il premier sarà accompagnato dalla delegazione decisa all’ultima direzione del Pd, ossia i vicesegretari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, il presidente del partito Matteo Orfini e i capigruppo di Camera e Senato Roberto?Speranza e Luigi Zanda. Dopo la proclamazione del nome - e i collaboratori di Renzi assicurano che non c’è alcun nome coperto, nessun coniglio pronto a spuntare dal cilindro - si procederà con le votazioni e il Pd darà ai suoi circa 450 grandi elettori l’indicazione di votare scheda bianca, un modo per controllare subito la disciplina dei parlamentari e dei delegati regionali (per mettere la scheda nell’urna senza scrivere il nome non occorre fermarsi). Modello Napolitano 2006, dunque. Mentre Forza Italia dovrebbe dare indicazione di votare un candidato di bandiera come Antonio Martino. Poi l’elezione alla quarta votazione, scontando i dissidenti fittiani e gli irriducibili contro del Pd. Soprattutto dopo la forzatura sull’Italicum, sono in molti tra i renziani del giro stretto a pensare che parecchie decine di parlamentari del Pd, nel segreto dell’urna, sarebbero pronti a bocciare la qualunque pur di colpire Renzi e il patto del Nazareno financo se il candidato fosse Bersani.
E qui si inserisce la questione del chi. Perché, nonostante lo strappo sull’Italicum, una buona parte dei 120 parlamentari di Area riformista - la corrente della minoranza che ha come riferimento il capogruppo?Speranza - dovrebbe comunque votare il candidato proposto da Renzi se autorevole e proveniente dell’area del Pd. Berlusconi avrebbe offerto a Renzi una rosa composta da Giuliano Amato, Anna Finocchiaro e Pier Ferdinando Casini.?Tolto quest’ultimo, che mai sarebbe votato dal pattuglione del Pd, della rosa restano gli altri due. Ieri in Transatlantico salivano le quotazioni di Anna Finocchiaro, nonostante la sua provenienza dalemiana e la bocciatura pubblica da parte di Renzi un anno e mezzo fa. La prima presidente donna sarebbe certo un colpo d’immagine per il premier. Restano stabili le quotazioni di Amato, che faceva parte della rosa di Bersani la volta scorsa e che Renzi ancora sindaco di Firenze aveva già allora approvato. Sulla carta una larghissima maggioranza che in un Parlamento non così balcanizzato come l’attuale potrebbe essere eletto alla prima votazione. Ma sono in molti, tra i renziani, a pensare che in realtà sia Sergio?Mattarella ad avere più chance. Nonostante il fatto che Berlusconi avrebbe nuovamente fatto pollice verso, come nel 2013. Certo, a Mattarella mancherebbe lo standing internazionale che ha invece Amato, si riflette. E non è ancora esclusa la carta di un outsider alla Sabino Cassese. «Tuttavia in cuor suo Renzi, se potesse, punterebbe su Pier Carlo Padoan», confida un renziano vicinissimo al premier. La carta Padoan potrebbe essere rimessa in effetti sul tavolo se dalle elezioni greche dovesse arrivare un risultato che mette a rischio la tenuta dell’euro. «C’è sicuramente un insieme di personalità tra le quali può essere operata una scelta adeguata alle esigenze del Paese e delle istituzioni» ha commentato ieri Giorgio Napolitano a Ballarò. «Auguri a chi dovrà scegliere. Non sono io».
Emilia Patta
*****
GIOVANNI SABBATUCCI, IL MESSAGGERO 19/1 -
Secondo la Costituzione italiana, il presidente della Repubblica ha, fra i suoi molti e impegnativi compiti, quello di rappresentare “l’unità nazionale”. Dovrebbe conseguirne automaticamente che un accordo ampio tra le principali forze politiche sulla scelta del capo dello Stato va considerato come una buona premessa, come un requisito auspicabile (anche se certo non necessario) per l’avvio di un nuovo mandato.
Perché l’accordo funzioni è però necessario che i contraenti siano soggetti credibili, capaci di muoversi solidalmente: una condizione che spesso è mancata nella storia repubblicana. Al contrario, è accaduto più d’una volta che le elezioni a voto segreto da parte delle Camere riunite abbiano offerto a folte pattuglie di franchi tiratori l’occasione per impallinare i candidati ufficiali e per rimettere così in discussione gli equilibri interni ai partiti. Le possibilità che scenari del genere si ripropongano di qui a dieci giorni, quando si comincerà a votare per il successore di Giorgio Napolitano, sono al momento abbastanza elevate.
E non tanto perché il nome unificante non è ancora stato indicato (altre volte candidati autorevoli sono usciti all’ultimo momento), non solo perché due dei tre partiti maggiori (Pd e Forza Italia) sono fortemente divisi al loro interno, ma soprattutto perché le divisioni riguardano, più che una concreta ipotesi di accordo, l’idea stessa di un accordo tra forze politiche schierate su fronti opposti.
Quasi che, dopo vent’anni di bipolarismo e un paio di governi di larga coalizione, la pratica delle intese trasversali in materia di scelte istituzionali susciti ancora presso alcuni settori del mondo politico quelle reazioni di rigetto che di solito si riservano ai compromessi bassi e ai patti inconfessabili.
Sulla carta, democratici e forzitalici, ovvero il primo e il terzo partito in termini di rappresentanza, disporrebbero con ampio margine dei numeri necessari a eleggere insieme un presidente a partire dal quarto scrutinio. Con l’aiuto, peraltro non scontato, degli alleati “minori” (alfaniani, popolari e centristi assortiti), i democratici potrebbero addirittura, sempre sulla carta, prescindere da contributi esterni all’area di governo. Mentre la seconda forza politica – il Movimento 5 Stelle – si è finora sottratta a ogni ragionevole ipotesi di accordo, puntando ad accentuare la sua distanza dalla “casta” e a lucrare sulla denuncia degli accordi altrui.
Ma sia nel Partito democratico sia in Forza Italia esistono gruppi dissidenti abbastanza numerosi per mettere a rischio ogni intesa. Gli anti-renziani del Pd non hanno mai apprezzato il patto del Nazareno sulle riforme: affossando una candidatura gradita a Berlusconi – e proponendone magari una alternativa, capace di riaggregare la sinistra – potrebbero far saltare, assieme al patto, anche la leadership del segretario. Dal canto loro, i dissidenti di Forza Italia, da Fitto a Brunetta, avrebbero l’occasione adatta per punire l’asserita subalternità di Berlusconi nei confronti di Renzi e per rilanciare un’identità partitica oggi alquanto sbiadita.
Nell’uno come nell’altro caso, si tratterebbe di operazioni di corto respiro. Il Pd ripiomberebbe in un caos peggiore di quello seguìto alle presidenziali dell’aprile 2013 (quelle dei 101 franchi tiratori) e non avrebbe a disposizione prospettive diverse dall’appiattimento, elettoralmente poco proficuo, sulla linea della sinistra-sinistra o dalla ricerca di un impossibile dialogo con i Cinque stelle. Forza Italia, sciolta dal legame, sia pur precario e a tempo, che ancora unisce Renzi e Berlusconi, finirebbe schiacciata, e forse fagocitata, dalla Lega in versione Salvini. Insomma, a uscire a pezzi da una defatigante maratona elettorale, tanto più se sfociata in una scelta di basso profilo, sarebbero non solo le istituzioni, ma anche le forze politiche protagoniste della seconda Repubblica, che diventerebbero sempre più oggetto di sfiducia e di derisione popolare.
C’è dunque da sperare che, ove non dovesse soccorrere il senso delle istituzioni, sia l’istinto di conservazione a suggerire ai grandi elettori e ai leader che ne guideranno le scelte comportamenti adeguati alla serietà del momento. Il sistema non può permettersi una replica dell’aprile 2013, senza nemmeno la carta di riserva, da giocare in extremis, di un Napolitano-bis.
*****
FABIO MARTINI, LA STAMPA 19/1 -
Nel Transatlantico di Montecitorio, tradizionale crocevia di chiacchiere e di trame, da qualche giorno proliferano i capannelli “monoteistici”, quelli nei quali si ritrovano i deputati “fedeli” ad un unico candidato Presidente ed è proprio da questi crocchi che talora partono tam-tam avvelenati contro i concorrenti. L’espressione più usata è: «Sì, ma...». Padoan? «Sì, ma il decreto fiscale...». Veltroni? «Sì, ma Odevaine...». Mattarella? «Sì, ma all’estero chi lo conosce?». Un brodo di coltura nel quale cuociono malignità di ogni tipo, lasciate correre al solo scopo di screditare, con l’idea che qualcosa resterà. Roba che ogni tanto finisce, con grande rilievo, sui giornali: in una stagione di anti-politica “vanno” molto gli anatemi anti-casta, anche se talora attingono a notizie false. Come nel caso di due ex presidenti del Consiglio e dell’attuale ministro della Difesa.
Giuliano Amato, ad esempio, si trascina da anni la nomea di cumulatore di pensioni e la diceria è ricominciata a circolare nei giorni scorsi. Ma da oltre un anno, da quando è giudice della Corte Costituzionale, Amato percepisce unicamente lo stipendio della Consulta, senza cumuli, né con la pensione, né con altro: da anni l’ex presidente del Consiglio gira il suo vitalizio da ex parlamentare ad un istituto di beneficienza, mentre per quanto riguarda la pensione, subito dopo la nomina alla Corte Costituzionale ha fatto domanda di auto-sospensione all’Inps e vi ha rinunciato.
Anche Romano Prodi è periodicamente preso di mira, nonostante il Professore abbia detto, senza se e senza ma, di non essere interessato al Quirinale, anzi di essere amareggiato per essere coinvolto una volta ancora nel consueto tritacarne. Nei giorni scorsi è stato pubblicato, con grande rilievo da un giornale di centrodestra, che il monte-pensioni del Professore ammonterebbe a 15 mila euro al mese. In realtà la cifra denunciata (e cumulata in conseguenza di attività a suo tempo svolte) si riferiva al lordo e dunque corrispondeva al doppio di quanto effettivamente percepito. Anche il ministro della Difesa Roberta Pinotti è stata messa nel mirino “politico-mediatico” perché, di ritorno da un vertice Nato in Galles, era rientrata a Genova a bordo di un volo militare. L’accusa iniziale, dei Cinque Stelle e poi ripresa da un quotidiano, era quella di aver utilizzato un “volo di Stato” per uso privato. Quattro entità si sono occupate del caso (Procura Militare, di Roma, Tribunale dei ministri, Corte dei Conti) e per tutte e quattro il “non luogo a procedere” è stato inequivocabile.
****
ANTONIO POLITO, CORRIERE DELLA SERA 22/1 -
È nata una nuova maggioranza, con Berlusconi dentro e Bersani fuori? Se lo chiedono in molti dopo che i senatori di Forza Italia, al grido di «forza Italicum», hanno salvato il governo sostituendosi ai voti della minoranza pd. Ma è una domanda ingenua, almeno per la prima metà. Berlusconi era già di fatto nella maggioranza che sorregge il governo fin dal suo parto; ne fu anzi l’ostetrico nell’incontro del Nazareno.
S olo grazie al placet di Berlusconi sulle riforme Renzi poté presentarsi al Quirinale e chiedere l’incarico a Napolitano: era diventato in grado di fare ciò che a Letta e ad Alfano non era stato consentito.
I puristi della Costituzione formale potrebbero ora anche chiedere al capo dello Stato, se ce ne fosse uno nella pienezza dei poteri, una verifica parlamentare della nuova maggioranza. Ma la verità è che dalla nascita a oggi già più volte si è visto all’opera nelle Camere il partito del Nazareno (PdN?), o «soccorso azzurro» come lo chiamano spregiativamente gli avversari. Sulla riforma del Senato a Palazzo Madama, quando l’opposizione interna al Pd è stata resa ininfluente grazie al sostegno di Forza Italia. Ma anche per garantire il numero legale sul Jobs act. E sul decreto fiscale tanto contestato, quello della depenalizzazione dei reati sotto il 3%, si può star certi che Forza Italia sosterrà il governo quando se ne discuterà in Parlamento.
Né vale l’obiezione per cui la legge elettorale non è materia di maggioranza, perché lasciata al libero formarsi del consenso in Parlamento. Ma quando mai? La legge elettorale è la più politica delle leggi (De Gasperi mise addirittura la fiducia sulla legge-truffa). Infatti l’Italicum è stato preparato dall’esecutivo, accompagnato amorevolmente in Parlamento da un ministro plenipotenziario, ed è materia essenziale del programma di governo. La controprova sta nel fatto che se ieri fosse caduto, sarebbe caduto anche il governo (come del resto lo stesso Renzi ha fatto intendere ai suoi «ribelli»). Dunque sì, il voto di ieri configura una maggioranza politica. Solo che la novità non è questa. La novità è che, per la prima volta, i voti di Berlusconi sono determinanti: l’ex Cavaliere è diventato l’ago della bilancia di un equilibrio che finora pendeva tutto dalla parte di Renzi. In questo senso ha ragione il gianburrasca Brunetta: ora il premier non può più dire «se non ci state andiamo avanti da soli».
E qui arriviamo alla seconda domanda. Assodato che Berlusconi è in maggioranza, se ne deve dedurre che Bersani, D’Alema, Cuperlo, Fassina e tutta la schiera di dissidenti democratici sono passati all’opposizione? Gente del mestiere come loro non poteva non sapere che facendo mancare 27 voti a Renzi avrebbe innescato la clausola di mutua difesa del patto del Nazareno, producendo così l’effetto collaterale di rendere determinante Berlusconi. È possibile che l’abbiano fatto deliberatamente? Da tempo si dice che la minoranza Pd è divisa tra chi vorrebbe metter su una casa nuova e chi vuol acquartierarsi nella vecchia. D’Alema guiderebbe il primo gruppo, e a sentirlo l’altra sera da Floris mentre tifava Tsipras si era indotti a crederlo. Mentre Bersani vorrebbe restare nella Ditta, di cui del resto ha il copyright . Ma nel gruppo dei 27 oltre a Gotor, che è pur sempre un professore guidato dall’etica weberiana della convinzione, c’era anche Migliavacca, che di Bersani è invece l’uomo d’azione, rotto a ogni compromesso. Se stavolta non c’è stato, vuol dire che qualcosa di profondo è accaduto. La scelta di abbandonare l’assemblea del gruppo al Senato, presieduta dal segretario-premier, è simbolica per le liturgie di quel partito, quasi una scena da congresso di Livorno. Così come lo è la convocazione nella sala Berlinguer di 140 parlamentari fedeli. Tutto ciò autorizza il sospetto che davvero Bersani&co, più Fitto&co dall’altra parte, possano passare all’opposizione del governo, oltre che del partito del Nazareno.
Se così fosse il terreno ideale per la resa dei conti, col favore del voto segreto, è ovviamente l’elezione del nuovo capo dello Stato. Ne uscirebbe definitivamente sancito un tale rimescolamento tra sinistra e destra che perfino Giorgio Gaber non sarebbe più in grado di riconoscerle. Potrebbe diventare l’apoteosi di Renzi, l’ homo novus che libera la sinistra dai suoi rompiscatole. Ma potrebbe anche essere un cambio di pelle costoso per il giovane leader. Perché una cosa è appoggiarsi a Berlusconi, un’altra è mettersi nelle sue mani.
*****
ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, CORRIERE DELLA SERA 21/1 -
In nessun capitolo come in quello riguardante il capo dello Stato, la Costituzione materiale della Repubblica, cioè quella che vige di fatto, lungi dal forzarla o tradirla ha viceversa portato alle estreme conseguenze la Costituzione scritta.
Come si sa, la versione ufficiale è invece opposta. Si dice abitualmente, infatti, che proprio per ciò che riguarda il presidente della Repubblica vi è stato, sì, tra la lettera e la realtà uno scostamento significativo, per cui quello che avrebbe dovuto essere un disincarnato custode-garante della Legge si è trasformato sempre più spesso in padrone virtuale dell’intero meccanismo politico. Ma ciò sarebbe avvenuto – si sostiene – per effetto di contingenze particolari: prima fra tutte il vuoto politico che ha dovuto necessariamente essere riempito da chi in qualche modo poteva farlo. E con l’aiuto dei poteri provvidenzialmente «a fisarmonica» (la definizione come si sa è di Giuliano Amato) attribuitigli dalla Carta: cioè di poteri estensibili o restringibili in modo da adattarsi alle circostanze. Peccato – aggiungo io – che la misura dell’adattamento, non potendo ovviamente essere decisa dalle circostanze stesse, venga rimessa in pratica alla libera (e inoppugnabile) interpretazione che di esse dà il presidente: vale a dire a una sua decisione arbitraria. Quale fu ad esempio quella del presidente Napolitano nell’autunno 2011 di non sciogliere le Camere dopo la caduta del governo Berlusconi, bensì di affidare il governo a Mario Monti.
In realtà, disporre legittimamente di un potere d’intervento politico esercitabile a piacere come quello ora accennato, significa disporre di un potere con ogni evidenza rilevantissimo. Tali sono, peraltro, tutti i poteri del presidente, anche quelli diciamo così di routine: tutti con una forte valenza politica e rimessi alla sua esclusiva volontà. Da quelli più formali a quelli più informali: dalla nomina dei giudici della Corte costituzionale alla decisione di approvare, respingere o «consigliare», come è capitato spesso, la nomina di un ministro o la presentazione di un disegno di legge.
Ne segue che il carattere oggettivamente e spiccatamente politico del ruolo del presidente della Repubblica più che essere frutto di circostanze «particolari», è in realtà iscritto a chiare lettere nel testo stesso della Costituzione. I cui autori pensavano di scrivere la Costituzione di una democrazia parlamentare, ma in corso d’opera hanno disegnato nei fatti un capo dello Stato che per molti aspetti assomiglia più che altro al Sovrano dello Statuto Albertino. Certo, questa o quella circostanza ha potuto contribuire in modo particolare a enfatizzare e «politicizzare» il ruolo in questione (come del resto accadeva anche sotto la monarchia). Ma soprattutto, io direi, hanno contato il temperamento e la biografia di chi è stato chiamato a interpretarlo: dal modo notaril-notabilare, distaccato, di un Einaudi, un Leone, un Ciampi, siamo passati a quello intimamente politico e interventista di un Gronchi, un Pertini, un Napolitano.
Quanto detto finora sottolinea il carattere assolutamente incongruo del modo della nomina del Presidente: cioè il voto segreto. Il quale infatti, e come è del resto la regola nel parlamentarismo, lungi dal garantire la vittoria del «migliore» in quanto frutto della libertà di coscienza dei parlamentari, favorisce viceversa solo il carattere quasi sempre opaco, «contrattato» e talora volutamente «inquinante», del meccanismo di formazione della maggioranza. Non a caso l’elezione del capo dello Stato è da sempre il grande appuntamento della stagione per i «franchi tiratori». Da questo punto di vista è alquanto singolare che nella nostra Costituzione il voto palese, prescritto per il voto sulla fiducia al governo per ragioni di chiarezza e di moralità politica, non lo sia per la designazione del presidente della Repubblica.
Il risultato è in questi giorni sotto gli occhi di tutti: la persona destinata a ricoprire la carica politica divenuta la più importante del nostro sistema viene scelta nell’ombra, al di fuori di qualunque orientamento non dico dei cittadini elettori ma dell’opinione pubblica largamente intesa. Intorno alla sua elezione si annodano così trattative segrete, conversazioni riservate, giochi, inganni, depistaggi: insomma tutto il repertorio del machiavellismo da poveracci della peggiore tradizione nazionale. Che almeno, però, serve a mostrare come stanno effettivamente le cose al di là della solfa edificante sul «garante», l’«arbitro», il «super partes», e altrettali definizioni. E cioè che partiti ed esponenti politici sono così consapevoli della realtà della posta in gioco – e cioè mettere il proprio cappello sul vertice del potere, ovvero impedire che lo metta l’avversario – che brigano in ogni modo per essere nel novero degli elettori, per non restarne esclusi, cercando possibilmente di escludere i rivali.
*****
ANTONIO CALITRI, IL MESSAGGERO 15/1 –
È partita la caccia da parte di Matteo Renzi a 505 grandi elettori sicuri per l’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Con le dimissioni ufficializzate da Giorgio Napolitano e con la convocazione dei 1.009 grandi elettori per giovedì 29 gennaio, i giochi adesso si fanno seri. E di colpo nel Pd, dove fino a poche settimane fa si professavano quasi tutti renziani, iniziano i riposizionamenti e i ripensamenti.
Quel clima favorevole a Renzi, sorretto anche dal patto del Nazareno e appena scalfino dai 40 dissidenti ufficiali del Pd, è stato rotto da due fatti che rappresentano in filigrana l’apertura delle ostilità. Nella settimana che ha preceduto le dimissioni di Napolitano prima è venuta fuori la norma sulla non punibilità della frode fiscale sotto il 3%, quel Salva-Berlusconi che ha scatenato i democrat e ha costretto il premier a ritirarla. Poi è arrivato l’attacco di Pier Luigi Bersani che ha accusato il premier di essere stato il regista dei 101 che affossarono Romano Prodi. E ora possono partire i giochi.
L’elezione del presidente della Repubblica è regolata dall’articolo 83 della Costituzione che prevede un’assemblea di grandi elettori formata dai deputati (630), senatori (315), senatori a vita (6) e delegati delle regioni (58). Per un totale, a questa tornata, di 1009 votanti a scrutinio segreto, due in più rispetto all’assemblea che ha eletto Napolitano nell’aprile 2013. Per eleggere il capo dello Stato, nei primi tre scrutini è necessaria una maggioranza dei due terzi degli elettori ovvero 672 voti se tutti gli aventi diritto partecipano. Dal quarto scrutinio basta la maggioranza assoluta che è di 505 voti. Con un Pd che tra deputati, senatori e rappresentanti delle regioni vanta quasi 450 elettori, sulla carta basterebbero soltanto altri 55 elettori. E se si pensa che la maggioranza di governo da sola ne vanta 589, il gioco dovrebbe essere una passeggiata. Di fatto le cose sono diverse e grazie al voto segreto, molti schemi che sulla carta funzionano, alla prova del voto cadono. Proprio come accadde per l’elezione di Romano Prodi, affossata da 101 franchi tiratori del Pd dopo che solo poche ore prima, i grandi elettori riuniti al cinema Capranica avevano garantito a Bersani di votarlo.
In questi mesi il Pd e l’area favorevole a Renzi si è allargata mente l’opposizione si è ristretta. Il Pd ha conquistato 16 parlamentari in più, provenienti da Scelta civica e da Sel. Il Movimento 5 stelle, il più ostile ad accordi, ne ha persi 26. Sel ne ha persi 10. Il Pdl che aveva 211 grandi elettori non esiste più, al suo posto c’è Forza Italia con 143 e Ncd che si è alleato con l’Udc in Area Popolare dove se ne contano 77. Fin qui i numeri ufficiali.
Poi ci sono i franchi tiratori pronti a far saltare il banco e a rimettere tutto in gioco. Renzi sulla carta ha due opzioni, in teoria tutte e due vincenti. Dal quarto scrutinio infatti, la semplice somma della maggioranza di governo avrebbe 598 voti e potrebbe eleggere il presidente con una soglia di sicurezza di 93 voti. Anche se il Pd si accordasse solo con Forza Italia, i voti sarebbero 589 con 84 voti di sicurezza. Nel pratico queste soglie non sono affatto sufficienti.
Nel solo Pd, tra opposizione ufficiale, dalemiani e bersaniani passati con Renzi, il braccio destro del premier Luca Lotti ha contati massimo 130 franchi tiratori, troppi per reggere uno dei due schemi, maggioranza di governo o patto del Nazareno. Con l’aiuto di qualche gruppo minore e dei fuoriusciti grillini però, questi potrebbero essere sterilizzarli. I numeri che circolano, considerando anche una parte di Area Dem e i delegati delle regioni non renziani o renziani della seconda ora, parlano di una forbice di almeno 150 ma che può arrivare a 190. Una fronda che metterebbe a rischio qualsiasi patto. Anche perché, nel solito pallottoliere che tengono Lotti e Lorenzo Guerini, i renziani fedelissimi sono solo 250. A tutto questo poi, va aggiunta la fronda di Forza Italia che sta organizzando Raffaele Fitto. Anche qui i numeri ufficiali parlano di 40 voti, ma considerando il lavorio che sta facendo l’ex ministro nelle regioni e i tanti scontenti che sanno che non saranno ricandidati, a maggior ragione se passa l’Italicum, sembra si possano superare i 50. E con quasi 240 franchi tiratori, non reggerebbe nessun accordo. O meglio, soltanto quello di trovare un nome di garanzia per far confluire l’intera maggiorana e Forza Italia, che raggiungerebbero insieme i 741 voti con una soglia di sicurezza di 236 ”traditori”.
Antonio Calitri