Umberto Eco, L’Espresso 23/1/2015, 23 gennaio 2015
IL TEMPO E LA STORIA
Se non amate la tv “trash”, non è indispensabile passare la serata giocando a ramino. Basta guardare Rai Storia, che è il miglior canale della Rai, consigliabile specie ai giovani, per non perdere la memoria di cosa siamo stati. La trasmissione che seguo quasi ogni sera è “Il tempo e la Storia”, condotto da Massimo Bernardini. Se accorciassero la sigla, sarebbe meglio (tra inizio sigla e inizio reale c’è tempo di andare a far acqua), ma anche così è da non perdere.
GIORNI FA la puntata era dedicata all’educazione dell’infanzia e della gioventù perseguita dal regime fascista (Gil, figli della lupa, piccole italiane, littoriali, testi scolastici, eccetera). A un certo punto è emersa una domanda: questa educazione totalitaria di una generazione ha plasmato nel profondo il carattere degli italiani? Non si poteva non ricordare un’osservazione di Pasolini, che il carattere nazionale era stato modificato più dal neocapitalismo dal dopoguerra in avanti che dalla dittatura. Ne era seguita una conversazione tra Bernardini e la storica Alessandra Tarquini, ma ci si era intrattenuti più sull’influenza del fascismo che su quella del neocapitalismo.
Certamente (a parte gli estremisti neofascisti) qualcosa dell’eredità fascista è rimasto nel carattere nazionale, e riemerge a ogni momento: per esempio il razzismo, l’omofobia, il maschilismo strisciante, l’anticomunismo e la preferenza per le destre - ma in definitiva questi atteggiamenti erano propri anche dell’Italietta pre-fascista. Credo però avesse ragione Pasolini, il carattere nazionale è stato più influenzato a fondo dall’ideologia dei consumi, dai sogni del liberismo, dalla televisione - e non c’è affatto bisogno di scomodare Berlusconi, che caso mai è stato figlio e non padre di questa ideologia, nata forse con i cheewing-gum dei liberatori, col piano Marshall e con il boom economico degli anni cinquanta.
Che cosa chiedeva (e imponeva) il fascismo agli italiani? Di credere, obbedire e combattere, di praticare il culto della guerra, anzi l’ideale della bella morte, di saltare nei cerchi di fuoco, di fare più figli possibile, di considerare la politica il fine primario dell’esistenza, di considerare gli italiani il popolo eletto. Sono rimasti questi tratti nel carattere italiano? Nemmeno per sogno. Anzi, curiosamente si ritrovano nel fondamentalismo mussulmano - come osservava nell’”Espresso” della settimana scorsa Hamed Abdel-Samad. È lì che si ritrova il culto fanatico della tradizione, l’esaltazione dell’eroe e il “viva la muerte”, la sottomissione della donna, il senso della guerra permanente e l’ideale del Libro e del moschetto. Tutte queste idee gli italiani le hanno assorbite pochissimo (tranne i terroristi di destra e di sinistra, ma anche questi più disposti a far morire gli altri che a sacrificarsi da kamikaze), e prova ne sia il modo in cui è andata la seconda guerra mondiale. Paradossalmente l’affrontamento volontario della morte è stato presente solo in un momento, finale e tragico, tra ultime raffiche di Salò e partigiani. Una minoranza.
CHE COSA invece ha proposto il neocapitalismo, nelle sue varie declinazioni, sino al berlusconismo? Di acquisire come diritto, magari a rate, automobile, frigorifero, lavatrice e televisore, di considerare l’evasione fiscale un’umanissima esigenza, di passare le serate dedicandole al divertimento, sino alla contemplazione di ballerine seminude (e, all’estremo limite, oggi, alla pornografia “hard” a portata di clic), di non preoccuparsi troppo per la politica andando sempre meno a votare (è in fondo il modello americano), di limitare il numero dei figli per evitare problemi economici, insomma di cercare di vivere gradevolmente evitando troppi sacrifici. La maggioranza della società italiana si è adeguata con entusiasmo a questo modello. E chi si sacrifica andando ad assistere i disperati del terzo mondo, rimane una esile minoranza. Gente che - come molti dicono - se l’è andata a cercare, invece di starsene a casa davanti alla tv.