Stella Pende, Panorama 22/1/2015, 22 gennaio 2015
QUELLE BIMBE TRASFORMATE IN BOMBE
Nigeria del nord, domenica 11 gennaio. Le due bambine velate di nero arrivano nel mercato di cellulari di Potiskum alle 13,40 spaccate. Sulla stessa vecchia bicicletta, schizzano tra i banchetti come due pipistrelli atterriti. D’improvviso si fermano dove la folla è più fitta. Parlano tra loro. Ecco: quella che pedala piange. Un uomo, dalla balaustra sulla strada, nota che la più piccola delle due barcolla e fruga sotto il suo hijab. Sbarra gli occhi. Non ce la fa a morire così piccola.
È a quel punto che l’altra comincia a urlare e a strattonarla, come impazzita. Un boato orrendo fa saltare in aria quei due corpicini innocenti. Per terra e sui banchi i pezzi di tre cadaveri dilaniati si mischiano alle schegge di telefonini ridotti in carbone. Non si contano i feriti. Bambine costrette a trasformarsi in kamikaze. È l’ultima frontiera dell’orrore, la vergogna del terrore. E anche la nuova strategia di Abubakar Shekau, leader di Boko Haram, gruppo terrorista dell’Islam criminale, alleato perfetto dei tagliagola dell’Isis, lo Stato islamico di Iraq e Siria, e da anni padrone di quella terra abbandonata che è oggi la Nigeria del nord. Come i suoi amici iracheni, l’orco Shekau combatte per la gloria del Califfato. Con un particolare: come bombe usa preferibilmente bambine al tritolo, preferibilmente dai sei ai nove anni.
Sì, le bambine. Perché l’innocenza di una piccola è meno sospetta di quella dei giovanissimi «martiri» maschi. Perché la bambina costa meno, sia quando la compri come schiava, sia quando la porti via a una famiglia snaturata. A dir il vero, si dice che Shekau prediliga le orfane, perché dopo nessuno le cercherà mai più. In mancanza di quelle, si accontenta delle bambine di strada. Hanno alle spalle dolori e abbandoni così atroci che la promessa di un paradiso dopo la morte per loro diventa un sollievo.
«Ingannare bambine disperate è una laida atrocità» dice Martin Ewi, ricercatore dell’Institute for security studies, un centro di ricerche africano con sedi a Pretoria, Addis Abeba, Nairobi e Dakar. «Ma l’altra verità è che una piccola di 9 anni che si fa esplodere suscita un clamore mediatico forse superiore agli sgozzamenti dell’Isis, già carburante efficacissimo di propaganda».
In realtà questi gruppi terroristici dell’ultima era, che pescano proseliti nella fame, denigrando ricchezza e potere, sembrano ingaggiare fra di loro vere guerre di competizione mediatica. L’Isis nasce nel 2012,
quando il suo capo Abu Bakr Al Baghdadi vuole rinfrescare le strategie di Al Qaeda. Ma guadagnerà le luci della ribalta soltanto davanti ai video della decapitazione dell’americano Peter Kassing e poi del cronista James Foley. E così è anche per Boko Haram, che insanguina e tortura il paese dal 2001, ma diventa interessante per i media internazionali soltanto nell’aprile 2014 con il rapimento di 200 studentesse, ragazze di cui non si saprà quasi più nulla. Per decollare oggi nel cielo di questa paradossale Disneyland del terrore proprio con le bombe bambine.
Gli attentati della vergogna vedono già sette piccole kamikaze nigeriane (vedere la scheda in alto) e hanno seguito una cadenza temporale degna della crudeltà di Abubakar Shekau. I più gravi sono avvenuti nei primi giorni di gennaio nel mercato di Maidaguri, con l’esplosione di una piccolissima: aveva meno di otto anni. Qualche volta però anche il diavolo perde le corna. È accaduto a Kano, dove all’ultimo istante una ragazzina sui 13 anni e caricata di esplosivo si è ribellata: «Dicevano che se spingevo quel bottone sarei morta, però avrei avuto in cielo dolci e giochi» ha raccontato Nyma, ormai salva, alla tv nigeriana. «Ma poi al mercato ho avuto tanta paura e così ho detto a un vecchio: mi aiuti, io sono pericolosa».
È però un’altra immagine, un altro orrore che ha sconvoltoa metà gennaio gli occhi del mondo: il piccolo drone umano con la pistola. Un bambino pettinato e vestito come i nostri figli, che con l’arma in mano prima ascolta le istruzioni dell’uomo che l’accompagna e poi, come un replicante, spara alla testa di due prigionieri. C’è chi dice che forse si tratta di una fiction ben sceneggiata dai maestri del terrore del «centro media» del califfato Al Hayat. In quel caso sarebbe stato uno spot preventivo del terrore il video che il 22 novembre vedeva lo stesso ragazzino dichiarare: «Io voglio solo uccidere i nemici».
E come mai una madre irachena di Kobane, terra ostaggio dell’Isis, ha raccontato all’inviato di Le Monde che le hanno portato via due figli piccoli assicurando la loro salute in quanto «futuri guerrieri»? Per non parlare dei tanti filmati necrofili della Jihad, dove gruppi di ragazzini sventolano kalashnikov nemmeno fossero aquiloni di morte.
Non c’è punizione umana per questi maestri di terrore, per chi insegna a un bambino come si uccide. Perché un bambino è la vita. Dunque la piccola kamikaze sfracellata dalla sua stessa bomba, come il bambino che spara agli ostaggi, sono entrambi povere vittime ma anche il messaggio di un mondo che guarda solo a un futuro di morte. «Chi ha ucciso da piccolo è sempre pronto a uccidere, ma anche a morire» ha scritto la psicoterapeuta Rita Parsi: «Inoltre per i bambini di quell’età, allattati da giochi virtuali, la morte è sempre provvisoria. Il bambino che uccide o si uccide pensa che a quella morte seguirà una resurrezione. Dunque non è mai lui il carnefice, ma chi lo inganna».
Del resto la degenerazione dei piccoli killer non è altro che l’ultima sublimazione dei tanti adolescenti che nel passato erano stati usati dalle squadracce di Pol Pot come carnefici delle loro stesse famiglie: trasformati in spie e in torturatori. E dopo, negli ultimi anni, quanta gloria ho trovato sui muri dei territori occupati palestinesi e in Iraq, e in Afghanistan, per il «martirio» dei giovanissimi. Come dimenticare Mohammad, per esempio? Aveva una faccia da vecchio già a 14 anni. Suo padre era stato ammazzato, la madre era morente. Non fu difficile convincerlo ad andarsene da quella disperazione. «Madre, prepara il mio sudario: la morte è in terra, ma la vita mi aspetta nel cielo» le aveva detto davanti a me.
«Ogni terra dà i frutti che vi vengono seminati» diceva Riad Malki, dell’Istituto di ricerca palestinese: «Qui in Palestina i bambini respirano solo morte. Finché la morte non diventa loro alleata».
A chi crede che l’arruolamento dei bambini soldato appartenga ormai all’atrocità del passato, un grande africanista come padre Giulio Albanese cancella ogni illusione: «Migliaia di bambini soldato oggi militano in Congo, così come in Sud Sudan e in Somalia. E, purtroppo, le bambine della Nigeria possono diventare un esempio pericoloso per tutta l’Africa».
Così l’ultimo pensiero torna a quelle creature che ogni giorno Boko Haram sacrifica come schiave o come martiri. Nell’ultimo anno, dopo aver distrutto interi villaggi cristiani (Kumanza, Yaga, Dagu) e messo a ferro e fuoco indisturbati scuole e mercati, l’attacco più feroce arriva l’8 gennaio a Baka dove gli uomini dell’orco barbuto Shekau falciano a colpi di mitra vecchi, donne e bambini. Duemila morti, nel silenzio del mondo. «La Nigeria del nord è povera e difenderla non importa a nessuno, nel sud invece ecco le immense ricchezze africane. Compreso il petrolio» dice sempre padre Albanese. «E l’esercito governativo non reagisce. È sottopagato e affamato, mentre i suoi generali vendono le armi a Shekau».
Il missionario profetizza: «Nell’attesa delle elezioni del 14 febbraio, Boko Haram impedirà col sangue ai nigeriani del nord di votare. Se accadrà, il presidente Goodluck Jonathan accetterà la divisione del paese, abbandonando milioni di persone alla condanna del Califfato». Mentre scrivo, arriva un’agenzia: Nigeria del Nord. Attacco di Boko Haram in Camerum: nove morti, 80 rapimenti. E 60 sono donne e bambine.