Tino Oldani, ItaliaOggi 23/1/2015, 23 gennaio 2015
SHALE GAS ADDIO: NEGLI USA, DOVE ERA UN BUSINESS STRATEGICO, ORA È UNA BOLLA PRONTA A SCOPPIARE. IN ITALIA VA PURE PEGGIO
Shale gas, addio? Sembra proprio di sì. Sbandierato appena un anno fa negli Usa come un grande successo della politica energetica americana, tale da rendere gli Stati Uniti autosufficienti e tra i maggiori produttori al mondo, il business dello shale gas, a causa del forte calo del greggio, sta precipitando in una crisi devastante, con fallimenti a catena e migliaia di licenziamenti in molti degli Stati Usa. Uno scenario di crisi, che, in questi giorni, sta coinvolgendo anche l’Italia, sia pure per ragioni diverse da quelle americane. Da noi lo shale gas non è mai decollato, e difficilmente potrà farlo in futuro: ben sei Regioni e un plotone di associazioni ambientaliste hanno chiesto infatti alla Corte costituzionale di affondare le norme dello Sblocca Italia, con le quali il governo di Matteo Renzi, solo pochi mesi fa, aveva autorizzato le ricerche di gas e petrolio sul territorio nazionale, eliminando l’obbligo di chiedere il permesso preventivo alle Regioni, che finora le avevano sempre bloccate.
Negli Usa, il calo di circa il 50% del prezzo del greggio ha costretto la Bhp, un gigante minerario ed energetico australiano che opera a livello mondiale, ad annunciare la chiusura del 40% delle piattaforme perforanti per l’estrazione del gas di scisto che aveva impiantato in alcuni Stati americani. Sul 60% restante, ha spiegato a Business Insider Andrew Mackenzie, Ceo della società australiana, sarà mantenuta un’attenta vigilanza, per valutarne il livello di profittabilità. Ovvio che se il prezzo del greggio, e quindi del gas, non dovesse risalire, altre piattaforme saranno smantellate.
Dal business dello shale gas si stanno ritirando anche due colossi americani del settore perforazioni, la Halliburton e la Baker Hughes, che in novembre avevano deciso di fondersi in un unico gruppo. Pur avendo registrato nell’ultimo trimestre 2014 buoni profitti, in aumento rispetto agli anni precedenti, la Baker Hughes ha deciso di licenziare 7 mila dipendenti nel primo trimestre 2015, per compensare le future perdite causate dal calo del greggio. A ruota, la Halliburton ha deciso di adeguarsi alle decisioni dei concorrenti, licenziando mille dipendenti. Altrettanto ha deciso di fare il maggiore gruppo Usa per la fornitura di servizi alle raffinerie, la Schlumberger Co., che ha tagliato 9 mila posti di lavoro.
A giudicare dai risultati di un’analisi di Bloomberg, oltre ai grandi gruppi, la crisi colpirà anche le centinaia di società piccole e medie che, negli anni scorsi, si erano lanciate nel business dello shale oil e shale gas come se fosse una nuova bonanza, con profitti facili. E le colpirà ancora più duramente di quelle grandi, proprio per le loro precarie condizioni finanziarie. Da un esame sui bilanci di 60 di società di drilling, si è accertato che molte, dopo essersi indebitate, facevano fatica a pagare gli interessi quando il barile era a 100 dollari. A fine giugno 2014, le 60 società messe sotto osservazione avevano accumulato debiti per 190 miliardi di dollari, in aumento di 50 miliardi rispetto al 2011: in pratica, un debito raddoppiato in poco tempo per molte società, mentre i ricavi a fine 2014 erano aumentati appena del 5,6%, e il solo costo degli interessi sui prestiti assorbiva il 10% del fatturato.
Risultato: i prestiti bancari concessi alle piccole e medie società di perforazione sono ora classificati dalle agenzie di rating al livello «junk», spazzatura, per gli elevati rischi di insolvenza. Un rischio che, secondo Standard&Poor’s riguarda due terzi delle società Usa che operano nell’esplorazione e produzione di gas. Ormai, lo scoppio della bolla finanziaria dello shale gas Usa sembra solo una questione di tempo: secondo Barclays, il settore dell’energia, che dieci anni fa costituiva appena il 10% del mercato dei junk bonds, è salito al 15,7% a fine 2014, e potrebbe esplodere nel 2015. Con tanti saluti all’ottimismo di Barack Obama, che nel discorso sullo Stato dell’Unione ha parlato di crisi economica ormai superata. In America c’è sempre una bolla dietro l’angolo, pronta a scoppiare, e quella dello shale gas non sarebbe affatto indolore.
Quanto all’Italia, in attesa che la Consulta si pronunci sulla pretesa incostituzionalità delle norme dello Sblocca Italia relative alle perforazioni prive del consenso delle Regioni, il danno maggiore sembra quello inferto alle aspettative del governo Renzi, che contava di incassare circa 1,5 miliardi l’anno tra tasse e royalties su una maggiore produzione nazionale di idrocarburi, stimata dall’Assomineraria in 12 miliardi di tonnellate. Un tesoretto, assicurò il governo, da dividere in futuro con gli enti locali interessati, che però non ne vogliono sapere, tenaci interpreti del fattore Nimby (Not in my backyard, non nel mio giardino). Il che lascia pochi dubbi sul finale: shale gas, addio.
Tino Oldani, ItaliaOggi 23/1/2015