varie 23/1/2015, 23 gennaio 2015
ARTICOLI SUL TOTO-QUIRINALE DAI GIORNALI DI VENERDI’ 23 GENNAIO 2015
MASSIMO FRANCO, CORRIERE DELLA SERA -
L’impressione un po’ sorprendente è che a oggi il centrodestra abbia una strategia per il Quirinale, il Pd non ancora. Meglio: ce l’ha probabilmente Matteo Renzi, ma è circondato da un partito in ebollizione, che sembra incline a rendergli la vita difficile. Anche se ieri l’ex segretario Pier Luigi Bersani, considerato il vero punto di riferimento della minoranza, assicura lealtà sul Quirinale.
Ed esclude sgambetti nel segreto delle urne come quelli avvenuti nel 2013. Ma mentre Mario Draghi con la sua Bce decide l’acquisto di titoli di Stato per oltre mille miliardi per contrastare la deflazione, e la legge elettorale si avvicina al «sì», il premier è costretto di nuovo a piegarsi sul proprio partito.
Deve ricompattarlo per evitare che l’elezione del capo dello Stato si trasformi nell’ennesima coda velenosa dello scontro interno. È una situazione paradossale ma in qualche misura annunciata. La minoranza ha rotto la tregua, e chiede al segretario una mediazione prima del 29 gennaio. Altrimenti si potrebbe ricreare a Camere riunite quanto è accaduto l’altroieri sull’Italicum: che per farla passare siano necessari i voti berlusconiani, perché la maggioranza di governo non ne ha abbastanza. Eppure, dall’esterno arrivano segnali positivi. Renzi comincia a sperare in un’Europa meno rigida, almeno in via di principio; e vede in dirittura d’arrivo alcune riforme.
Insomma, può dire che le cose accennano a «cambiare verso», per usare una delle sue espressioni preferite e un po’ abusate. Eppure non riesce a evitare che la sinistra scarichi le scorie congressuali e le divergenze sul patto con Berlusconi e sulle prossime scadenze istituzionali. Così, ad una settimana dall’inizio delle votazioni, Forza Italia, Ncd e Udc hanno già indicato il candidato di bandiera per i primi tre scrutini: l’ex ministro Antonio Martino. Fanno capire così di avere ben chiari i passaggi che dovranno affrontare. Sul versante opposto, invece, il Pd sembra segnare il passo.
Ieri pomeriggio Renzi ha riunito a Palazzo Chigi i vertici del partito e del Parlamento per ribadire che sarà seguito il metodo deciso dalla Direzione: il nome per il Colle sarà fatto solo il 28 gennaio. Si tratta di una scelta comprensibile, dettata dall’esigenza di non bruciare il candidato o la candidata.
La richiesta perentoria del Movimento 5 Stelle al Pd di tirare fuori una «rosa» per poterla sottoporre alla Rete, odora di trappola. E infatti una dei vice di Renzi, Debora Serracchiani, dice no alla richiesta. Ma su uno sfondo di tensione e di confusione, il rinvio rischia di essere percepito come un elemento di debolezza. È probabile che nei prossimi giorni lo sfondo cambierà, e che l’altalena delle candidature oscilli di nuovo, avanti e indietro. Il problema di fondo, però, rimane quello dell’unità del Pd. Renzi sta studiando tuttora l’ipotesi di una candidatura a sorpresa per la prima votazione. Se non riesce, però, o ricompatta il partito, o potrebbe trovarsi nella situazione singolare di chi riesce a eleggere il capo dello Stato col contributo determinante di Berlusconi. In questo caso, cambierebbero le coordinate del governo e gli stessi confini della maggioranza, della quale la coalizione vincente sul Quirinale sarebbe l’anticipazione e il calco.
*****
MASSIMILIANO SCAFI, IL GIORNALE -
Da Re Giorgio all’Impero Romano, il passo infatti è molto lungo. Il Professore tace da qualche giorno e, ufficialmente, nessuno lo sta candidando. Ma la minoranza democratica, sconfitta sull’Italicum, vuole prendersi la rivincita, o almeno condizionare pesantemente la scelta di Matteo Renzi per il Colle. Dice Stefano Fassina: «Noi siamo persone serie, a differenza di quelli che oggi ci chiedono disciplina e che due anni fa hanno capeggiato i 101 che impallinarono Prodi». Cioè chi? «Non è un segreto, Renzi». Fassina, che vuole «mandare un segnale» contro il Patto del Nazareno, sostiene quindi che c’è una ferita da sanare con Prodi e che «la disciplina» di partito non è assicurata.
Per Rosi Bindi «al Quirinale serve un presidente della Repubblica lontano dal governo», anche se a Palazzo Chigi siede il segretario del suo partito. Se poi si aggiunge che Grillo e Casaleggio invitano il premier «a presentare una rosa di nomi», il cerchio si chiude.
La mossa tattica è sempre la stessa, votare Prodi nei primi scrutini, sperando che si accodino i grillini, i fittiani e tutti quelli contrari al Patto, per mettere Renzi di fronte al fatto compiuto: se l’ex presidente della Commissione europea raccoglie 150 voti, come farà Matteo a non convergere? E Prodi, ci starebbe? «Lui non vuole essere messo in mezzo - sostiene Sandra Zampa, deputata Pd e sua storica portavoce - Certo, se glielo chiedessero per spirito di servizio...». Sì c’è proprio una ferita da sanare. «Fassina ha ragione - dice la Zampa - nel complotto c’erano anche i renziani».
Resta da vedere quanti dei 140 parlamentari del Pd contrari alla nuova legge elettorale, in subbuglio da martedì, andranno fino in fondo. Pier Luigi Bersani sembra prendere le distanze dai più facinorosi. «Renzi capo dei 101? Ci vorrebbero i servizi segreti per scoprirlo. La situazione comunque ora e migliore rispetto al 2013 e io sono un tipo leale». Il grosso della minoranza difatti preferisce puntare le sue fiche su Giuliano Amato, uno dal profilo forte, in grado di bilanciare lo strapotere di Palazzo Chigi. Il Dottor Sottile, sostenuto energicamente da bersaniani e dalemiani, sponsorizzato da Usa, Europa, Napolitano, mandarini vari, è anche nella lista di Berlusconi insieme a Casini e alla Finocchiaro. Amato, secondo alcuni calcoli, è anche sulla carta il candidato più forte, quello che al quarto scrutinio può farcela con minori patemi, con 570-600 voti.
Però, tra i tanti fatti finora, è pure il personaggio che meno si addice a Renzi, che ha fatto del cambiamento il suo brand. Amato, noto al grande pubblico per il prelievo forzoso sui conti correnti e per la tante pensioni, situazione che sta sanando, non è in cima agli indici di gradimento. E a Davos il premier ha spiegato che cerca un capo dello Stato «popolare». Dunque, non Amato. Così Anna Finocchiaro, Pier Ferdinando Casini e Sergio Mattarella continuano a sperare.
*****
MARIA TERESA MELI, CORRIERE DELLA SERA -
Manca solo una manciata di giorni al grande appuntamento, eppure Matteo Renzi continua a giocare a carte coperte. Difficile per il premier fare altrimenti, dal momento che ormai tutti i fucili sono puntati su di lui.
I fucili degli avversari, come i grillini, che il presidente del Consiglio è pronto a incontrare per discutere del Quirinale, a patto che «loro accettino di venire nella sede del Partito democratico, al Nazareno», senza fare sceneggiate. E anche (o soprattutto?) quelli della minoranza interna. La quale minoranza, ieri sera, ha voluto mandare al premier un altro segnale, annunciando che non voterà a Palazzo Madama un emendamento presentato da Anna Finocchiaro. Come a dire: non credere che se candidi lei al Colle noi diciamo di sì e tutto viene risolto.
Una mossa, questa, che era già stata anticipata dal senatore dissidente Corradino Mineo, nel corso della trasmissione di La7 L’aria che tira : «Io personalmente non voterei la Finocchiaro, se venisse candidata al Quirinale, e penso proprio che Bersani farà lo stesso».
Già, Pier Luigi Bersani. Un secondo incontro con l’ex segretario — dopo il primo, andato a vuoto — è stato messo in agenda ed è imminente. Ma il presidente del Consiglio non sa se sarà risolutivo, anche se assicura ai suoi che alla fine verrà proposto un candidato «a cui la minoranza non potrà dire di no», a meno che «non si voglia giocare allo sfascio, e io non lo penso».
Renzi fa mostra di credere alla buona fede dell’ex segretario che dice «non faremo i franchi tiratori». Ma la verità è che il premier non ha compreso bene dove veramente vogliano andare a parare gli esponenti della minoranza: « Non si capisce — dice ai suoi — dove vogliano andare, non hanno una strategia comune».
Sin qui la cosa non ha provocato delle difficoltà all’inquilino di Palazzo Chigi: «A me finora è andata bene così, perché abbiamo portato a casa il risultato che ci premeva, cioè quello di una legge elettorale che stabilirà chi vince senza ambiguità. Il che, grazie anche alla riforma del Senato, consentirà a chi governa di poterlo fare veramente».
Ma in un futuro nient’affatto remoto, bensì molto prossimo, Renzi dovrà fare i conti con una fetta del «suo» partito che non risponde alle direttive della segreteria. Non saranno 140, perché, come confessava Corradino Mineo, all’assemblea della minoranza, l’altro ieri, «erano forse un centinaio», però rappresentano comunque un numero che pesa. Non tanto e non solo in vista dell’elezione del presidente della Repubblica, perché, per come si sono messe le cose, il presidente del Consiglio può concedersi anche il lusso di 101 franchi tiratori. È il prosieguo della legislatura che, a questo punto, è in gioco. Sì, perché nel campo del Pd sono in molti a puntare a un ridimensionamento di Renzi.
E l’elezione dell’uomo del Colle è un tassello di questa operazione. Basta vedere i posizionamenti. Bersani, in attesa del desiderato (da lui) incontro con il premier, fa intendere a Renzi che potrebbe indossare i panni del mediatore, ma poi lascia andare avanti Miguel Gotor e gli altri al Senato. Massimo D’Alema, invece, non fa nemmeno quella parte e confida a destra e a manca di tifare per la vittoria di Alexis Tsipras in Grecia, quasi prefigurando un’altra sinistra al di là del Partito democratico.
«C’è chi spera di farmi fuori o, quanto meno, con i ricatti, di condizionarmi, ma è una speranza vana, io vado avanti perché sono convinto che questo Paese abbia bisogno di grandi cambiamenti», dice il presidente del Consiglio. Che, come si è detto, non cercherà certo la rottura sul Quirinale: «Alla quarta votazione dobbiamo avere un presidente, perché ci sono molti professionisti della politica autocandidati che sperano di entrare in gioco dalla quinta in poi». Quindi il nome su cui alla fine convergerà Renzi non sarà un nome che gli potrà portare l’ostilità dei suoi avversari interni.
Il premier si è dato come limite il 2 febbraio, anche se spera di chiudere prima la vicenda. Per il resto sa che il cammino non sarà facile, comunque si chiuda la partita del Quirinale. Non basterà una soluzione che vada più o meno bene a tutti a sanare le ferite interne. Ma Renzi è convinto che, quale che sia l’esito finale di quella vicenda, archiviata la pratica, il governo non subirà contraccolpi pesanti: «È da tempo, ormai, che mi mettono i bastoni tra le ruote e che cercano di ostacolare i nostri provvedimenti, eppure stiamo andando avanti lo stesso», spiega. E aggiunge: «Vedrete che non dureremo molto, ma moltissimo. Molleranno prima quelli che stanno cercando di ostacolarci, perché io non mollo mica».
Maria Teresa Meli
*****
GOFFREDO DE MARCHIS, LA REPUBBLICA -
Sminare il campo del Pd. In sei giorni Matteo Renzi cerca l’impresa di ricucire il partito di cui è segretario, un partito spaccato e sull’orlo di una crisi di nervi ma che ha ben 450 grandi elettori decisivi per l’elezione del presidente della Repubblica. «Il nome del Quirinale lo voglio e lo devo concordare con la minoranza. Per me il metodo non cambia, anche dopo lo scontro sull’Italicum», dice il premier incontrando a Palazzo Chigi la delegazione che farà gli incontri con gli altri partiti, tra martedì e mercoledì della prossima settimana. «Com’è il clima interno?», chiede. Non buono, agitato, la premessa di un bis del 2013 quando Napolitano fu richiamato in servizio, rispondono tutti. Roberto Speranza perciò propone: «Riuniamo prima i gruppi parlamentari nostri, poi vediamo gli altri gruppi». Così il candidato sarà targato Pd, in modo chiaro. Non patto del Nazareno, come sospettano in tanti. Renzi condivide e si prepara a partecipare agli appuntamenti preliminari. «Guiderò la delegazione. Vedrò anche i grillini».
Basta un’agenda di date a sanare la ferita? Renzi dice che «l’avvicinamento dev’essere bilaterale. Lo faccio io ma lo devono fare anche loro». Loro sono i dissidenti. Nel gruppone Fassina, Civati, Bindi spingono per la battaglia finale. Le dichiarazione di Bersani raffreddano invece il clima, anche se l’ex segretario resta su posizioni di grandissima critica. Per questo Renzi ripete: «Vedrò Pier Luigi, voglio trovare un nome condiviso con lui». Non è però il momento più adatto per un faccia a faccia, non subito. L’aria è cattiva.
Anche il premier non ha ancora smaltito la rabbia per il «comportamento assurdo» dei dissidenti al Senato. «Quelli della minoranza pensano di spingermi a indicare per il Colle uno di loro. Ma non hanno capito niente, se pensano di usare questa tattica con me si sbagliano». Manca ancora la fiducia tra le parti, al di là delle offese di questi giorni. Bersani e i suoi dicono che la legge elettorale e il capo dello Stato rimangono terreni separati. Lo precisa anche Francesco Boccia. Come dire che la vendetta non è nei programmi. Ma basta poco per appiccare l’incendio. Un parola, una mossa falsa. In poche parole, il nome del candidato che Renzi tirerà fuori all’ultimo minuto ovvero nell’assemblea dei grandi elettori del Pd mercoledì sera o giovedì mattina (si comincia a votare nel pomeriggio). Quel nome, sussurrato nelle ore precedenti, può far capire da che parte pende il segretario: se per una riconciliazione nel Pd o per la tutela dell’asse con Berlusconi. E scatenare il fuoco.
Renzi racconta ai suoi collaboratori che il Cavaliere gli ha fatto due nomi: Casini e Amato. «Se scegli uno dei due chiudiamo in 24 ore», sono state le pa- role del leader di Forza Italia. «Già - commenta il premier -. Ma io non mi faccio imporre da lui sia il nome di un candidato del Ppe (Casini) sia di quello del Pse (Amato)». Questo ragionamento sembra escludere il giudice costituzionale (che ha il suo pacchetto di voti nel Pd, a differenza del capo Udc), eppure quella soluzione è ancora in piedi. Come lo è la candidatura di Sergio Mattarella. Con loro reggono, nel valzer dei nomi, i nomi dei politici puri: Anna Finocchiaro, Piero Fassino, Walter Veltroni che stanno recuperando terreno. Un amico personale di Renzi spiega la strategia: «A Matteo interessa il risultato, più del nome. Non vuole rimanere impantanato in una serie infinita di votazioni». È uno schema che esclude il solo Prodi a causa del veto insormontabile di Berlusconi. Ma tiene in pista praticamente tutti gli altri (numerosi) “papabili”.
Il calendario è stato fissato. Oggi Renzi riunisce la segreteria allargata ai membri della delegazione: Serracchiani, Orfini, Guerini, Speranza e Zanda. Si parlerà di metodo, insomma si rimarrà ben lontano dal nome che Palazzo Chigi tiene coperto. Lunedì verranno convocati i gruppi di Camera e Senato e in molti chiederanno un identikit più preciso. Il tentativo di stanare il premier andrà in scena, immaginando di poter usare anche il “forno” dei 5stelle. Tra martedì e mercoledì Renzi e la delegazione Pd cercherà un accordo largo con gli altri gruppi. Si può fare senza il nome giusto in campo? Difficile. Ma il sondaggio aiuterà il premier a capire i numeri su cui può fare affidamento, quelli utili a raggiungere il «risultato». Mercoledì sera, più probabilmente giovedì Renzi dovrà scoprire le carte davanti ai grandi elettori. A quel punto dovrà avere già in tasca il “sì” di Berlusconi e il via libera della minoranza Pd. O della maggior parte di essa.
*****
CARLO BERTINI, LA STAMPA -
In quel campo minato che è ormai il Pd, il premier comincia ad accarezzare l’idea di indicare un candidato di bandiera per le prime tre votazioni in modo da poter contare i lealisti e i franchi tiratori da subito. Un modo per porre anche un argine a eventuali trappole ordite da dissidenti interni e opposizioni grilline che potrebbero saldarsi segnando sulla scheda un nome diverso. Tanto più che ormai basta una fiammella per scatenare incendi.
L’ultima grana esplode di buon mattino, quando in aula tutti sono alle prese con le votazioni sulla riforma costituzionale. Una delegazione dei socialisti di Nencini viene ricevuta al Nazareno dai vicesegretari Guerini e Serracchiani e alla fine esce fuori un lancio dell’agenzia Dire che oltre a spiegare l’iter con cui procederà il premier - una rosa di tre nomi sottoposta ai grandi elettori del Pd dopo la consultazione con le altre forze politiche - specifica che di questa rosa non dovrebbero far parte gli ex segretari di partito. Una voce che gira da giorni, ma tra i banchi della sinistra, dove il clima è pessino, l’equazione che allora verrebbero tagliati fuori nomi come Veltroni, Francheschini e Bersani (magari pure Fassino che guidò i Ds) mette tutti in agitazione. Anche perché non è un mistero che il centrodestra non gradirebbe tecnici, ministri di area ed ex segretari. Insomma non certo un buon viatico per ricucire l’unità del Pd andata in pezzi sull’Italicum. «Sono entrati tutti in fibrillazione», ammette un dirigente Pd vicino al premier.
A poco serve una smentita dalla segreteria che bolla come illazioni queste ricostruzioni, seguita a ruota da una smentita degli stessi socialisti. Su facebook Nencini assicura solo che c’è stata condivisione sulla loro indicazione, «forte europeismo, garante dell’unità nazionale, alto profilo». Ma nulla più. Fatto sta che i malumori lievitano.
In un corridoio della Camera, Pierluigi Bersani fa mostra di superiorità. Gli ex segretari del Pd sarebbero esclusi dalla corsa? «Non so per gli altri, per me certo non è un problema. Punto». Sorride e si allontana. Due ore dopo prima di uscire dalla Camera, prova a lanciare segnali di pace, pur ammettendo di non essere stato convocato dal premier per un incontro. «Noi siamo gente seria, non è che il dissenso sull’Italicum può influire sul nostro comportamento per il Colle». Tradotto, Bersani vuol trattare da una posizione di forza. «Renzi dovrà tenere conto del fatto che siamo 140», dice un colonnello dell’ex segretario. Ma tra lui e il premier è gelo, «non è aria di incontri a due, ha fatto una cosa pesante e ci ha messo la firma», spiegano gli uomini di Renzi: che come segnale di distensione vedrà i gruppi Pd di Camera e Senato lunedì 26 prima dell’incontro con Berlusconi di martedì.
Il premier quindi dà il via alle danze in un clima infuocato: riunisce il comitato già ribattezzato «i big five», Orfini, Speranza, Zanda, Guerini e la Serracchiani, con i quali esamina appunto l’ipotesi di partire con un candidato di bandiera nelle prime tre votazioni per scoraggiare giochetti. «Noi un candidato del patto del Nazareno non lo vogliamo. Ma Renzi di sicuro ci proporrà un nome su cui non potremmo dir nulla», prevede uno dei bersaniani più realisti. Mentre i più combattivi affilano le armi: «Basta poco a raccogliere le firme per una mozione che obblighi il premier a una verifica della maggioranza di governo in aula per capire se il patto del Nazareno si allarga all’esecutivo. Magari lo faremo chiusa la partita del Quirinale». Minacce che rientrano nel movimento carsico di avvisi ai naviganti: perfino il voto contrario al Senato della minoranza bersaniana su un emendamento a prima firma Finocchiaro che recepisce gli accordi della maggioranza sull’Italicum viene recepito come un segnale. E intanto le truppe si posizionano: martedì sera pure una settantina di renziani si sono ritrovati a cena in una trattoria trasteverina, presenti la Boschi, Bonifazi, Ermini e Alessia Rotta della segreteria, decine di parlamentari della prima e seconda ora, «per fare spogliatoio» in vista delle grandi manovre.
*****
SEBASTIANO MESSINA, LA REPUBBLICA –
C’è, in questo Parlamento, un osservatore super partes, nelle grandi manovre per il Quirinale? Se ce n’è uno, si chiama Pino Pisicchio. Non è né renziano né berlusconiano. Abita questo palazzo da quasi trent’anni, ed è stato democristiano, diniano, rutelliano, dipietrista e tabacciano, ma oggi non è iscritto a nessun partito: è presidente del gruppo misto. Dunque come Francesco Crispi, che quando il barone Petruccelli della Gattina gli chiese se fosse mazziniano o garibaldino rispose secco «Io sono Crispi!», lui potrebbe dire: «Io sono Pisicchio!».
Questo sessantenne di Corato ha il dono della simpatia: tutti parlano con lui, e lui parla con tutti. Perciò oggi forse è proprio Pisicchio l’uomo giusto per capire l’aria che tira, a sette giorni dal voto per il nuovo Presidente. Chi è, gli domando, il vero candidato di Renzi? Lui comincia con una lunga premessa: «Il giovanotto non si rivolge al mondo della politica. Lui ha come unico obiettivo il mondo che sta fuori dal Palazzo. Il primo criterio è la novità: non può essere un nome del passato. Quindi Amato e Prodi non si facciano illusioni». Neanche Mattarella? «Ma se lei va a domandare lì dentro - e indica l’aula - chi è Mattarella, le rispondono: chi, il cugino dell’onorevole Mattarellum?». Siamo davanti alla buvette, improvvisamente presa d’assalto da un corteo di deputati che puntano a conquistare almeno un supplì nella velocissima pausa pranzo. Pisicchio non si scompone, e continua: «Secondo: non può essere una persona dotata di autonomia, uno che domani gli dica: no, questo schifo di decreto non te lo firmo. Deve essere uno collaborativo. Terzo, dev’essere uno dotato di una decenza istituzionale. Allora, togliamo quelli come Gentiloni o come la Pinotti, che qui dentro sarebbero vissuti come delle appendici di Renzi. Togliamo quelli che rimarrebbero vittime delle faide antiche. Resta una sola possibilità: uno che viene da fuori».
Siamo arrivati al punto sul quale quasi tutti gli altri si fermano: quello del nome. Pisicchio però non si tira indietro. «Padoan o Visco. Basta. Finito. Non ci sono altri nomi». Un collega obietta: e un ex presidente della Consulta, non potrebbe andar bene? Lui sbotta: «Ma chi cavolo lo conosce, un ex presidente della Corte? Lo conosco io che insegno diritto costituzionale. E poi? Ve l’ho detto, i nomi sono quei due. Padoan è uno che fa parte dei circuiti internazionali che contano. È una via di fuga che può piacere a Renzi. Stesso discorso per Visco. Tutti dicono Draghi, Draghi, Draghi. Ma quello fino al 2019 sta lì, a Francoforte, e non lo smuove nessuno. Ora, in natura, il nome più vicino a Draghi è quello del governatore della Banca d’Italia. Visco è il Draghi morganatico».
Obietto: ma non aveva detto che Renzi vuole un nome che piaccia fuori del Palazzo? «Guardi – risponde lui - non è necessario che il presidente abbia già il consenso dell’opinione pubblica. L’importante è che non ce l’abbia contro. Che la gente non dica: guarda chi hanno mandato al Quirinale!». Detto questo, Pisicchio si aggiusta alla cravatta e si dirige anche lui verso la buvette.
*****
WANDA MARRA, IL FATTO QUOTIDIANO -
Io sono in segreteria. E riformista poi...”. Alessia Rotta, responsabile Comunicazione del Pd, a pieno titolo renzianissima, nella “Lista del Nazareno”, viene classificata come “area riformista, rischio”. In Parlamento non si parla d’altro. Ma di cosa si tratta? Il Foglio ieri pubblica un elenco di tutti i parlamentari democratici, schedati per corrente, ma soprattutto etichettati con un “ok”, un “no”, un “a rischio”. Rispetto a cosa? Al voto per il candidato al Quirinale che verrà. “Una lista che gira a Palazzo Chigi”, la presenta il quotidiano, che a Matteo Renzi e ai suoi fedelissimi è molto vicino. Basti pensare che durante i mondiali Luca Lotti ci teneva una rubrica di calcio.
“È il pallottoliere di Lotti”, “è un pizzino”, “è piena di errori”, i commenti che ieri andavano per la maggiore. Ma soprattutto: “Gliel’hanno data”. Ecco, chi? E perché? Tutti gli indizi portano proprio al Sottosegretario, amico fraterno del presidente del Consiglio, che da settimane ormai conta e controlla. E allora, sì: è una via di mezzo tra lista di proscrizione, “avvertimenti” e depistaggi. Ci sono alcuni “riconoscimenti”: Anna Ascani, per dire, è definita “lettiana”, ma “ok”. Ormai in realtà è decisamente renziana. O Francesco Russo, “renzian-lettiano ok”: in Senato ha lavorato per l’approvazione delle riforme. Poi c’è Pier Luigi Bersani “a rischio”. Da notare “a rischio” pure la Finocchiaro: come dire, tutto è possibile se la sua candidatura decade. “Io indipendente? Ma se sono bersaniano”, si schernisce un altro “a rischio”, come Andrea Giorgis. “Antonio Misiani non è area riformista è un giovane turco”, corregge qualcuno. E Lorenzo Guerini: “È tutto sbagliato. Mauro Guerra, area riformista, a rischio? Ma se vive con me. E Andrea Rigoni, area dem? È un gueriniano...”. Fatto sta che ieri i parlamentari hanno passato la giornata a leggere, commentare, mandare rettifiche e correzioni al Foglio. Chi si è trovato incasellato tra “i nemici” lavorando da “amico” si sente attenzionato, minacciato, messo sul chi va là. Un passo falso sul Colle o su altro, ed ecco che il malcapitato esce dai giochi. D’altra parte, Renzi non perdona.
La lista di proscrizione fa il paio con le accuse dirette di ieri. Ecco Stefano Fassina: “Non è un segreto” che Renzi abbia guidato i 101 che bocciarono Romano Prodi. “A differenza di quelli che oggi chiedono disciplina e due anni fa hanno capeggiato i 101, noi siamo persone serie”. Lo riprende Guerini: “Una sciocchezza incredibile”. Pronto arriva il distinguo di Bersani, che pure nei mesi qualche accusa, seppur velata, magari per interposta persona l’ha lanciata: “È la sua opinione”, così commenta l’affermazione di Fassina. “L’ho già detto, allora c’era chi non voleva Prodi, chi non voleva Bersani. Si sono saldati. Ora andiamo avanti, l’importante è che quella cosa non la facciamo più”. “Bersani ha detto una cosa giustissima”, commenta un renzianissimo. Corteggiamenti.
Tira una brutta aria tra i dem: anche ieri alla Camera e al Senato in 35 (da Bindi a Bersani e Cuperlo) non votano l’articolo 2 della riforma costituzionale, mentre continua la battaglia della minoranza contro l’Italicum al Senato, in particolare contro l’emendamento Finocchiaro. Ma la strategia che sta cercando di mettere in campo il segretario-premier è chiarissima: “Ma no che non è tutto deciso con Berlusconi. Matteo coinvolgerà Bersani. E tutto andrà per il meglio”, dicono i suoi. Più che convinzioni, sembrano depistaggi. Anche se dal canto loro, Alfano e Berlusconi dubitano della parola di Matteo. È il giorno della fuffa, perché, con il riavvicinamento di Ncd e Forza Italia, le larghe intese sono già nei fatti, con tanto di ministri del centrodestra. E il partito della nazione è un processo inarrestabile, che Renzi ha già teorizzato. Però, c’è un però. Il premier non può far passare il fatto che Amato sia un candidato imposto da Berlusconi. Ecco “salire” la Finocchiaro: offerta ai bersaniani, che non potrebbero non votarla, contro il volere dello stesso Bersani. Ed ecco far girare ad arte il nome di Delrio: un modo per coprire l’asse del Nazareno (o per chiarire a B. che Matteo si tiene le mani libere).
Ieri Renzi ha riunito al Pd il coordinamento per l’elezione al Colle: i vicesegretari Guerini e Serracchiani, il Presidente Orfini, i capigruppo Zanda e Speranza. Carte coperte, da parte di tutti. Si è parlato di metodo, che prevede segreteria oggi, assemblea dei gruppi di Camera e Senato lunedì e incontri con gli altri partiti. Renzi sa che provare a far passare un candidato al primo colpo è molto pericoloso. Ma che lo è anche farlo al quarto: le fronde potrebbero coalizzarsi su un nome, che poi diventerebbe vero. Si ipotizza di andare per i primi scrutini su un candidato di bandiera. E poi? Le soluzioni che ha in mente il premier sono 5 o 6. Lui lavora sulle soluzioni “win-win”. E dunque, si sta preparando a più schemi di gioco.
*****
MARCO CONTI, IL MESSAGGERO -
La sponda della Merkel e della comunità internazionale, che ieri al summit di Davos ha riconosciuto gli sforzi che sta facendo l’Italia sul piano delle riforme, è sufficientemente in grado di consolare Matteo Renzi dalle accuse di Fassina e della minoranza del Pd. L’incontro con la Cancelliera, tra l’approvazione dell’Italicum e il Quirinale, servirà oggi a Renzi per ribadire il percorso di stabilità e riforme atteso da Berlino così come da Bruxelles e Francoforte. L’elezione rapida del Capo dello Stato, evitando il disastro del 2013, è un altro segnale che il presidente del Consiglio intende dare alla comunità internazionale già positivamente sorpresa per il varo del Jobs act. Metà giornata con la Merkel e poi alle quattro di nuovo a Roma per mettere a punto gli incontri con le delegazioni degli altri partiti in vista della convocazione dei grandi elettori. Ieri pomeriggio Renzi ha fatto già un primo giro con i componenti la delegazione che dovrà incontrare da martedì gli altri partiti. A Zanda e Speranza - impegnati ieri nelle votazioni in aula - ha chiesto di lavorare ad un calendario che non metta in difficoltà l’approvazione dell’Italicum al Senato e delle riforme costituzionali alla Camera. Prima di incontrare gli altri partiti, lunedì sera il premier riunirà deputati e senatori ma il fine settimana sarà dedicato a cercare di recuperare un dialogo con la sinistra del partito.
ARIA PESANTE
Il clima nel Pd resta infatti pessimo. Ieri Renzi si è morso la lingua per non replicare all’accusa di Fassina, ma con i suoi non ce l’ha fatta: «È tutta invidia, perché loro hanno trattato per anni con Berlusconi più o meno sotto banco, tra patti delle crostate e telefonate di Migliavacca a Verdini, e sono rimasti fregati. Io ho fatto tutto alla luce del sole e mi attaccano, a prescindere».
Malgrado la tensione, Renzi resta ottimista e convinto di riuscire a tirare fuori il nome del presidente alla quarta votazione. Resta il problema di come affrontare le prime tre votazioni e arrivare a quella che prevede la maggioranza assoluta. Forza Italia ha già pronto il nome di bandiera. Non fidandosi della scheda bianca, Silvio Berlusconi farà convergere i suoi voti sull’ex ministro Antonio Martino. Renzi potrebbe fare altrettanto con altro candidato di bandiera per evitare che la scheda bianca permetta di convogliare voti su un nome proposto dall’ampio schieramento che si oppone al Patto del Nazareno.Tra sinistra Pd e dissenzienti azzurri è in corso da giorni un fitto rapporto. Nei democrat frondisti cresce la spinta sul nome di Giuliano Amato in modo da spingere anche Forza Italia a votare per quello che Berlusconi ha indicato sin dal primo giorno come suo candidato nella rosa per la corsa al Colle. In questo modo, ragionano, Renzi sarebbe costretto a convergere su un candidato forte già nei primi tre scrutini e pronto per essere eletto alla quarta votazione.
LA BATTAGLIA
Lo schema della sinistra del Pd ripete un po’ la battaglia fatta, e poi persa, per le preferenze, argomento sempre contestato dalla sinistra ma buono per mettere in crisi il Patto del Nazareno. Stavolta ad ingoiare il rospo dovrebbe essere lo stesso Renzi che, sondaggi alla mano, vorrebbe evitare di eleggere un ex premier che non gode di popolarità. Per evitare la trappola Renzi è pronto a condividere con il partito la regola dell’ "ex no grazie" che riguarderebbe gli ex premier e gli ex segretari democrat. Principio che verrebbe contemperato dal ”no” ai tecnici di area democrat. In un colpo solo, e senza entrare nel merito, verrebbero fatte fuori le candidature di Prodi, Amato, Fassino e Bersani.
Restano tra i papabili circolati in questi giorni, i nomi di Casini e Mattarella: in calo la Finocchiaro appena impallinata dalla sinistra pd. Ma il problema principale del premier resta quello del metodo che dovrebbe essere condiviso dal suo partito per evitare che si ripeta il Vietnam del 2013. Da registrare infine che ieri Walter Veltroni è stato visto entrare a Palazzo Giustiniani, dove si trovano gli uffici dei senatori a vita fra i quali Napolitano e del presidente del Senato, Grasso, che in questi giorni svolge le funzioni di supplente del Capo dello Stato.
Marco Conti
*****
MARIOLINA SESTO, IL SOLE 24 ORE -
Sette giorni all’alba della prima votazione per il nuovo inquilino del Quirinale. Al tavolo di Matteo Renzi si ragiona di nomi, profili ma soprattutto di numeri. Sono le forze parlamentari su cui il premier può fare affidamento dopo il rilancio del Patto del Nazareno. Sulla carta Pd, Ncd, centristi e Forza Italia possono contare su 750 grandi elettori, un numero teoricamente sufficiente ad eleggere il Capo dello Stato già al primo scrutinio, quando serviranno i due terzi dei voti, e cioè 673. In realtà però le fratture nei due principali partiti sconsigliano di avventurarsi in una missione così rischiosa, segnata com’è dal voto segreto e dai possibili franchi tiratori. Meglio mettersi al sicuro uscendo allo scoperto con il candidato “vero” solo alla quarta votazione, quando il quorum richiesto scenderà a 505 voti.
Come affrontare allora le prime tre votazioni? Tra i Dem prevale nettamente l’ipotesi di votare scheda bianca. Ma ieri al vertice a Palazzo Chigi con la “cabina di regia” sembra sia emerso il dubbio che questa strategia possa saldare il “fronte del no”, un rischio che potrebbe essere arginato con un candidato di bandiera da “bruciare” per poi, alla quarta o quinta votazione, presentare il vero candidato frutto dell’accordo di Pd-Fi-Ncd. Il candidato di bandiera - è il ragionamento - permetterebbe di contare gli allineati e i franchi tiratori. E, soprattutto, avrebbe il vantaggio di evitare che opposizioni e malpancisti scarichino gli strali su un candidato (ad esempio Romano Prodi) con l’effetto di mettere in difficoltà il Pd e Renzi. Senza contare il rischio Cinque Stelle: tra i Dem è diffuso il timore che i grillini possano mettere in atto mosse a sorpresa a ridosso dell’avvio delle votazioni. Anche queste pericolose per la tenuta dei gruppi che dovrebbero sostenere l’accordo per il Colle.
Questi sette giorni di fuoco serviranno però anche per definire l’identikit del Capo dello Stato e poi tirare fuori il nome giusto. La prossima settimana il Pd incontrerà i partiti per fare il punto. Nessun profilo ancora definito dunque, nonostante via Facebook il segretario del Psi Riccardo Nencini (che ieri mattina ha incontrato una delegazione Dem per parlare ufficialmente di riforme) assicuri che c’è stata condivisione sulla loro indicazione: «Forte europeismo, garante dell’unità nazionale, alto profilo». Un nuovo incontro - fa sapere ancora Nencini - «ci sarà alle soglie delle votazioni».
Amato, Mattarella, Finocchiaro sono i nomi che continuano a circolare con più insistenza mentre gli ex segretari di partito come Veltroni (che ieri è stato avvistato a Palazzo Giustiniani, sede del presidente del Senato supplente Pietro Grasso e dove ha il suo studio anche il presidente della Repubblica emerito Giorgio Napolitano) e Bersani continuano a scendere nelle quotazioni, anche in considerazione del fatto che il premier avrebbe deciso di non inserire nella rosa ministri, tecnici di area ed ex segretari di partito. A tenere banco è anche il nome del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, valida garanzia di sostenibilità dei conti pubblici agli occhi di un’Europa sempre sospettosa nei confronti dell’Italia. È questo ragionamento che fa dire ad alcuni renziani: «Se Matteo potesse scegliere da solo, è Padoan che metterebbe al Colle».
Non perde poi consistenza l’ipotesi secondo cui Renzi avrebbe un nome da svelare solo all’ultimo momento e - si ragiona in ambienti Dem - in condizione di trovare il gradimento sia del proprio partito sia di Silvio Berlusconi.
E mentre il Cavaliere mantiene come candidato di bandiera Antonio Martino, si fanno sentire anche Grillo e Casaleggio, che dal blog chiedono al presidente del Consiglio di tirare fuori i nomi in anticipo in modo da poterli far votare dalla Rete: «Toc toc Renzi batti un colpo di democrazia», scrivono sostenendo che il futuro Capo dello Stato non debba essere scelto solo dal «duo Berlusconi-Renzi».
Mariolina Sesto