Luca Dini, Vanity Fair 21/1/2015, 21 gennaio 2015
«C’è
ancora un margine
per cominciare a vivere
con gli sguardi che si incrociano a metà
nello spazio della DIGNITÀ:
l’alba è già qua»
Metà dicembre 2014
DENTRO E FUORI
Io non ho mai fatto parte di un club, ma non perché non ami i recinti: non amo me dentro il recinto, mi ci sento a disagio. Quando ero bambino a Roma ero il toscano, a Cortona ero il romano. Se parlo con un ateo divento cattolico, se parlo con un cattolico divento ateo. È una cosa che mi dà gusto».
Mi dà gusto sentire Lorenzo dire «mi dà gusto». Mi dà gusto sentirgli pronunciare, e cantare, frasi che solo allo snobismo d’accatto dei veri superficiali possono sembrare banalità. O meglio: le banalità di Jovanotti sono banalità nel senso profondo e migliore del termine, talmente lampanti che tutti dovremmo condividerle, in un mondo normale.
Per esempio, L’alba, che abbiamo appena finito di ascoltare. Il brano che apre il nuovo album Lorenzo 2015 CC. è un po’ un manifesto per questo momento nella vita di noi italiani, dell’urgenza di afferrare al volo l’occasione di cambiamento, di non lasciar passare invano un’altra alba, perché «Non si può tornare indietro/ nemmeno di un minuto/ è la regola di questo gioco/ puoi tentare di salire di livello/ o restare dove sei/ come carne da macello/ nelle mani del tecnocrate di turno».
Ci incontriamo nel suo studio alla semiperiferia di Milano pochi giorni prima delle vacanze di Natale. Lorenzo è in partenza: passerà le feste a Cortona – terra d’origine della sua famiglia – con la figlia Teresa e la moglie Francesca. Francesca che saluta, ci dà appuntamento per cena e aspetta paziente in un’altra stanza: sarà quasi mezzanotte quando ci siederemo in una trattoria senza fronzoli a mangiare (noi) e firmare autografi (lui) per gli ultimi avventori.
Mancano, quella sera, due mesi al 24 febbraio, data di uscita dell’album, e manca un mese al 20 gennaio, giorno in cui L’alba debutta in anteprima. In compenso è appena uscito, il 16 dicembre, il singolo Sabato, che dominerà incontrastato in radio a cavallo di Capodanno, e che genererà un numero record – oltre duecento – di versioni remixate.
Vanity Fair raccontò mesi fa l’intenzione di Jovanotti di fare di questo album «il mio Born In the USA». E proprio come quel disco-leggenda fu anticipato dal singolo Dancing In the Dark, che per Bruce Springsteen era il debutto nella dance, ma che in musica leggera raccontava la pesante frustrazione di un giovane stanco di vivere ai margini, Sabato è allo stesso modo un ibrido strano. Un video affidato ai talenti più contemporanei del panorama italiano – il rapper Salmo e un gruppo di giovani registi – per raccontare una storia piena di riferimenti vintage – dal luna park alla Cadillac, da King Kong a Heroes, dal Michael Jackson di Thriller al ragazzo-ragazza di Boys Don’t Cry. Contagiosa dance su un testo che dà voce alla stanchezza delle periferie e della provincia («Quando non si lavora è sempre sabato/ vorrei che ritornasse presto un altro lunedì») però anche alla speranza («Come in un sabato sera italiano/ che sembra tutto perduto, poi ci rialziamo»). Un pezzo da far uscire a Natale, con la gente in giro per i centri commerciali, perché muove le gambe ma anche il cervello.
Iniziamo così a parlare di «dentro e fuori».
«Ho voluto tenere questo pezzo su un crinale», dice Lorenzo, «in cui non diventasse mai veramente dance e non diventasse mai una canzone da cantautore, ma rimanesse in equilibrio, in una zona scomoda, quella dove mi piace stare. Il pop più riuscito è quello che si nutre di altro, di cose anche difficili che però non obblighi il pubblico a vedere e ascoltare: quella bella fatica gliela risparmi, la fai tu. Celentano mi ha detto una volta che non bisogna dare al pubblico quello che vuole e si aspetta, ma quello che vuole e non sa di volere. Non disorientarlo, ma spiazzarlo rompendo i vecchi linguaggi. E se un po’ si divide, benissimo, altrimenti diventiamo una chiesa dove si recita sempre la stessa predica. Io ho bisogno di quel punto lì, un po’ fuori ma dentro. Adoro Tom Waits, ma se mi ci avvicino troppo sento le fiamme, mi scotto, dico: io qui non ci posso stare, non ho il vissuto per scrivere questa musica. Se no mi vengono fuori i complessi che mi nutrono, ma che sono anche pericolosi: il complesso dell’ignorante, del miracolato, di quello che deve sempre dimostrare che è diventato bravo».
La storia di quei complessi inizia molti anni fa in una casa in affitto a Roma, dove suo padre, con un solo stipendio e qualche sacrificio – il mare a casa della zia, la Coca solo a pranzo la domenica, e niente Girella perché le merendine di marca costano –, mantiene quattro figli.
«Nella prima adolescenza cerchi omologazione. Ma io ero cicciottello, goffo, inetto negli sport. Se poi non hai i soldi per comprarti le scarpe giuste e la cintura giusta, soffri un po’ e ti butti sulle cose dove puoi emergere. Allora facevo l’originale. Ero bravo a disegnare: le mie caricature facevano ridere tutti. Finché è arrivata la meraviglia delle meraviglie, la radio, dove sei da solo dietro un microfono, nessuno ti vede. Mi ha dato coraggio, sicurezza, gioia».
Per anni è stato quello che doveva farsi scusare l’essere stato dj. Quello che andava da Fazio in Tv ma era difficilmente omologabile al recinto degli «impegnati». Il tempo gli ha dato ragione: «Guardo Teresa, guardo la sua generazione, i famosi millennial, ragazzi che non conosciamo anche se siamo loro genitori, loro fratelli. Le barriere del nostro mondo musicale, da una parte “gli autentici” e dall’altra “i commerciali che si sono venduti”, per loro non hanno senso. Per loro non conta quello che ti fa sentire parte del club giusto, conta quello che ti parla perché ha qualcosa da dirti. E in generale non li interessa la tifoseria, l’ideologia a tutti i costi. Mia figlia mi fa domande su quello che succede nel mondo, anche su Renzi, ma il Patto del Nazareno neppure sa che cosa sia».
Gli chiederanno se in questo disco c’è l’erede di A te, la sua più conosciuta canzone d’amore. La risposta è no: una canzone che c’è non ha senso rifarla. Però ci sono canzoni romantiche. Proprio in un’intervista a Vanity Fair, Francesca ha detto che dentro quelle canzoni «c’è sempre un po’ di mestiere e un po’ di verità», ed è naturale pensare, ogni volta, che Lorenzo parli di loro due.
«Questa è la mia storia, non ne conosco un’altra», dice lui. «Non conosco un altro modo di amare, di litigare. Però sono un ritrattista. Modigliani ha sempre e solo dipinto la sua Jeanne, Picasso ha dedicato centinaia di quadri a ognuna delle sue compagne, ma quando io guardo quei ritratti non penso a loro, penso alla mia, di donna: credo che lo stesso accada al pubblico. Certo questo mettersi a nudo mette in difficoltà, ma è anche l’unico modo di arrivare al cuore. E siccome una canzone è forse la mia cosa più intima che c’è, con Francesca non ne parliamo mai. Io credo molto alla coppia, la coppia per me è una forza molto importante rispetto al gruppo, perché è un equilibrio, e in questo equilibrio ci sono zone di pudore».
Dentro la propria quotidianità, insomma, anche se non del tutto. Che poi è il motivo per cui le canzoni di Lorenzo tendono a finire bene. «Perché quello sono io. Quando De André canta “non resta che qualche svogliata carezza e un po’ di tenerezza”, è tragicamente bellissimo, ma io non sono strutturato per quel tipo di narrazione. Le mie sono più canzoni da gita scolastica. La chiamo allegria triste. Quella di Azzurro, o L’estate sta finendo».
Dentro e fuori descrive anche il suo rapporto con l’Italia. Da un paio d’anni fa avanti e indietro con New York, dove collabora (lo ha fatto in quattro brani di questo album) con artisti di tutto il mondo.
«Ma sono stato fuori anche quando ero dentro, perché non sono mai stato attaccato alla visione locale delle cose. E sono dentro quando sono fuori, perché l’Italia è la mia casa. Però voglio vedere il mondo, voglio sapere. A partire dal mio mestiere. Chi è il migliore a suonare la batteria? Non è italiano? Non importa: vieni a suonare con me. In Italia si tende a far famiglia, sempre le stesse persone: comodo, ma così non cresci. Allo stesso modo, abbiamo tutti davanti agli occhi i sistemi che funzionano meglio o peggio del nostro, e non possiamo più permetterci di ignorarli. Se in un Paese riescono a passare in poco tempo dal 15 al 5% di disoccupazione, vogliamo chiederci come hanno fatto?».
Guardare fuori serve anche a rafforzare la propria italianità. «Vai al ristorante e pensi: cavolo, siamo proprio italiani, senti che urliamo solo noi? E il tuo status di animale esotico ti fa capire la bellezza di certi nostri vizi – non i peggiori, quelli che vanno sui giornali –, certi tic che in realtà sono cultura: il caffè al bancone del bar, l’ossessionarsi su un piatto di spaghetti. Il luogo comune è vero: gli italiani all’estero funzionano nelle università, nell’economia, nel design, nei ristoranti. Siamo importanti per le cose che gli altri non sanno fare, ma questa unicità va promossa e protetta, non data per scontata, perché quando ti senti figo è il momento in cui inizi a non esserlo più, pensi di essere il più bravo a fare maglioni ma se non evolvi, se non investi, arriva il cinese che li sa già fare come e meglio di te».
Andare fuori e tornare dentro. Non a Roma, dove è nato e cresciuto. Non a Milano, che gli ha dato tanto. A Cortona, dove il babbo Mario è nato 80 anni fa, dove ha preso moglie, dove si sta godendo la vecchiaia. Dove anche Lorenzo ha trovato Francesca, e dove torna sempre più spesso. «Perché c’è il babbo, perché ci sono i miei morti (il fratello Umberto e la mamma Viola, ndr), e lo dico senza voler essere struggente. Perché più lontano getti i rami, più hai bisogno di radici profonde».
Teresa si fa raccontare sempre la storia di quando Lorenzo era bambino e per la festa dei Morti la nonna veniva da Cortona a Roma e si tiravano fuori le foto dei familiari defunti, «il poro zio» e «la pora bisnonna», e si recitava il rosario, e lui e il fratello si divertivano a storpiare le parole. «Ma anch’io ho le foto della mamma e di Umberto. A casa mia la morte non è un tabù, è una cosa normale e buona, perché vivere vuol dire lasciar andare ogni giorno qualcosa, l’importante è che le perdite non prevalgano sugli incontri. E poi, siccome sono un po’ cattolico, conservo dentro quell’angolino di speranza che un giorno, da qualche parte, ci ritroveremo tutti».
Metà gennaio 2015
NUOVO PRESEPE
Quando ci risentiamo via Skype l’anno nuovo è iniziato, e non sotto i migliori auspici. A Parigi c’è stato il sangue, in Italia una parte della politica ha trasformato una legittima polemica sulla liberazione di Vanessa e Greta in una becera, personalizzata aggressione alle due ragazze rapite in Siria. Pare difficile credere alla speranza che Jovanotti canta.
«Triste prevedibilità: è passato il concetto che mostrare un nemico al tuo elettorato sia più efficace che mostrargli delle idee», dice Lorenzo in collegamento da New York. «La tifoseria fa volare basso: porta voti, ma non migliora la vita delle persone. Il conflitto mi mette a disagio, da piccolo scappavo quando i miei litigavano. Ricordo la volta che commisi l’errore di andare da Vespa a criticare la guerra in Afghanistan e lui mi fece trovare sotto un fuoco incrociato: Sgarbi mi dava del fascista, la Annunziata del sessista (per aver messo nel testo di Salvami un riferimento a Oriana Fallaci, “giornalista che ama la guerra perché le ricorda quando era giovane e bella”, ndr). Fortunatamente le nuove generazioni sono meno ideologiche, abboccano meno a questa logica del distruggi a prescindere, una logica cinica e vecchia».
Vecchia non tanto, a guardare Twitter, di cui Jovanotti è il recordman italiano: due milioni e mezzo di follower. «L’uso polemico del mezzo non fa per me: in 140 caratteri non riesci a dire qualunque cosa, a meno che tu non sia Ungaretti. L’anonimato istiga il sarcasmo, l’ironia come misura di tutto, che rischia di diventare un antidolorifico, di farci dimenticare che il dolore c’è. Ma non sopravvaluterei l’impatto dell’odio sui social media. In gran parte c’è quella goliardia che, da ragazzi, ci spingeva a fare gli scherzi telefonici, o a suonare i citofoni. Non voglio fare il bacchettone, quello che legge libri importanti e guarda documentari sulle gazzelle».
Il problema è che i politici in Parlamento si comportano come su Twitter. Renzi ha dedicato un pensiero ai 145 ragazzini uccisi in una scuola in Pakistan a dicembre. «Pensa ai bambini italiani», gli hanno gridato a Montecitorio. «Brutto è quando questo succede in un contesto in cui, invece, chiedi la serietà, la pretendi perché la paghi con le tasse. Ma neanche Renzi deve perdere tempo a parlare dei “gufi”. Noi tutti siamo più di questa cosa qui, del “chi è il nemico del giorno”».
Ha creduto molto a Renzi. «Un premier che ha otto anni meno di me: figata. Credo davvero che abbia in mano un’occasione unica per cambiare le cose. Questa occasione però non durerà in eterno. Il Paese riparte se la gente ha la sensazione che possa ripartire, ma per dare questa sensazione non si può solamente dirle le cose, bisogna farle, con il coraggio di mettere in moto cambiamenti scomodi, drastici. La persona è intelligente e credo davvero che voglia cambiare le cose. Mi ha inquietato la faccenda della “manina” (il decreto che avrebbe l’effetto di annullare la condanna di Berlusconi per frode fiscale, ndr), perché non è la mia sinistra quella che pensa di poter fare quello che vuole, e il problema in Italia è proprio che il potere ti fa credere di poter fare quello che vuoi: è allora che rischi di non fare niente. Non fare niente ti può garantire di rimanere lì vent’anni, e mi fa paura pensare che chiunque possa restare lì vent’anni semplicemente perché non c’è alternativa. Non è bello che non ci sia alternativa, ma l’alternativa non può essere la xenofobia, il far leva sulla paura, il distruggere, perché quelle non sono visioni, sono solo pulsioni».
Lorenzo, nonostante tutto, ha fiducia. «Ci devo credere, ci voglio credere. C’è in atto un passaggio di consegne, una guerra di visioni del mondo, una generazione che deve cedere il passo alla giovane, e non è detto che la giovane sia migliore in assoluto, ma lo è per il fatto di portare novità. Finalmente nel presepe abbiamo comprato le statuine nuove, non c’è più quel pastore che era lì da quarant’anni. Ora speriamo che cambi anche la storia».
Jovanotti, che ha realizzato un brano dell’album con il nigerino Bombino, conosce bene l’Africa musulmana, il Pakistan, l’Iran. «Se guardo mia figlia, che a sedici anni sarebbe in età da velo, ripenso alle ragazze di Teheran, che con coraggio conquistano mezzi centimetri di capelli, che non possono ascoltare il rock, che non possono prendere per mano un ragazzo, e mi torna quel miscuglio di tenerezza e incazzatura. Detto questo, le donne in Italia hanno iniziato a votare nel ’46. Le cose stanno cambiando, ma con infinite differenze. Il mondo, per quanto piccolo sia dal punto di vista della comunicazione, rimane un luogo di distanze temporali enormi. Non viaggia tutto nel 2015: c’è chi è fermo al 1715, c’è chi è già nel 2315. Ma non abbiamo alternative alla società multiculturale, e chi dice di sì è in cattiva fede. Come si può pensare a un mondo dove i musulmani se ne stiano a casa loro e gli ebrei separati da qualche parte? Casa loro è il mondo, come del resto è casa mia».
Gli chiedo dell’orrore di Charlie Hebdo. «Sono toscano, da noi si smadonna in continuazione. Io non lo faccio, perché mi dà un disagio fisico, anche se non ho mai detto a nessuno “Non bestemmiare in mia presenza”. A me quelle vignette non fanno ridere, ma difendo il diritto di pubblicarle, o di non pubblicarle, o di criticarle. Le vignette non sono la bandiera, la bandiera è la libertà. Pensiamo di vivere in un continente anziano ma l’Europa è più giovane degli Stati Uniti, ci siamo fatti la guerra fino a pochi decenni fa. Si è tanto parlato di Europa delle banche: la manifestazione di Parigi – con il suo rifiuto di farsi strumentalizzare dai politici che vivono di odio, che vogliono una guerra santa contro un’altra guerra santa – è secondo me il primo atto di un’Europa delle persone. Diranno che sono naïf, ma io credo perché ho motivi per credere. Perché la maggioranza silenziosa ha fatto rumore, ha risposto che i nostri valori sono questi, e su questi valori possiamo costruire una società dove tutte le religioni possano essere professate. Dicevano: l’Europa si fonda sui valori cristiani. No, facciamo un salto, fondiamola sul vero valore in cui ci possiamo riconoscere tutti. Fondiamola sulla libertà».
ancora un margine
per cominciare a vivere
con gli sguardi che si incrociano a metà
nello spazio della LIBERTÀ:
l’alba è già qua»