Enrica Brocardo, Vanity Fair 21/1/2015, 21 gennaio 2015
GIOVANNI ALLEVI
Giovanni Allevi ordina una cioccolata calda. La prima che si concede da mesi, giura.
Magro com’è, si è messo a dieta? Non risponde né sì né no: «Allora: 7 chilometri al giorno di corsa sul tapis roulant e, quando posso, fuori. Se fai molta attività fisica, qualche strappo alla regola ci sta».
Il suo nuovo album, 13 brani al pianoforte, si intitola Love. Se non bastasse, tra le dediche del disco ce n’è una anche all’amore, «l’unica salvezza in questo presente incerto».
Spiega: «Percepisco fra i giovani una grande insicurezza rispetto al futuro, la sensazione che nulla di bello accadrà».
Dice che di questi argomenti parla spesso con «i miei ascoltatori» (la parola fan non gli piace), che definisce «fulminati».
In senso buono, chiarisce: persone che non si arrendono all’omologazione, vanno in una direzione diversa rispetto al resto del mondo. «Mi sono detto: andiamo al sodo, cominciamo a riflettere sulla felicità. Se sia possibile essere felici indipendentemente dal benessere e dalla sicurezza che ormai sono appannaggio di pochi. Io sono convinto che si possa e che per riuscirci si debba assecondare la propria inclinazione profonda».
Il problema è che molti non sanno neppure se ne hanno una.
«Tanti ragazzi mi dicono che non sanno bene che cosa vorrebbero diventare. Ma ci vuole tempo per capirlo».
Lei quando lo ha scoperto?
«A 28 anni. Tardi. Fino ad allora sentivo una spinta prepotente a scrivere musica, la mia musica, ma pensavo anche che fosse una follia. Tenevo tutto chiuso in un cassetto. Mio padre, quando mi sentiva suonare le mie composizioni, mi diceva: “Non perdere tempo. Studia Bach”».
Prima ancora, da bambino, le aveva addirittura vietato di suonare.
«È stato il mio più grande detrattore. Ma, col tempo, si è trasformato nel mio più fervente ammiratore. E finalmente ha compreso tutte le difficoltà che ho dovuto affrontare. Da bambino, e poi come musicista. Per esempio, che cosa abbia significato trovarmi da solo alla ricerca di audizioni a New York senza conoscere bene l’inglese, vivere per anni senza avere abbastanza soldi per una pizza, affrontare i primi concerti in Paesi che non conoscevo come Cina e Giappone».
Quanti anni ha adesso?
«73? Non so neppure la mia età. Ho scoperto di avere compiuto 45 anni pochi giorni fa. Io me ne davo di meno».
Perché suo padre era così severo nei suoi confronti?
«Da giovane aveva dovuto rinunciare al suo sogno, essere un concertista, per “ripiegare” sull’insegnamento. La cosa lo aveva fatto soffrire così tanto da spingerlo a cercare di proteggermi dalla musica. Per quello, quando ero piccolo, mi chiudeva il pianoforte a chiave. D’altra parte, se non lo avesse fatto non sarei qui. Ha scatenato in me il desiderio di “profanare” una regola che mi veniva imposta».
Allevi ribelle?
«Credo che all’origine di tutto ci sia un episodio accaduto quando ero in quinta elementare. Ero sempre stato il primo della classe, adorato da tutti. Finché, un giorno, mi presi una sospensione di una settimana. C’era stata una zuffa fra bambini, uno si era rotto i denti, e i due responsabili incolparono me. Quello che era stato un paradiso all’improvviso si trasformò in un inferno: la maestra ce l’aveva con me e gli altri genitori mi additavano come “quello che era stato sospeso”. Un evento traumatico».
Quindi?
«Da allora convivo con un piccolo ribelle dentro di me. Se non fosse successo, probabilmente non sarei diventato un compositore. Scrivere musica vuol dire rompere le regole, contrapporsi alla tradizione sterminata che abbiamo alle spalle».
Così quasi vent’anni dopo ha deciso di fare di testa sua.
«Ho mollato il lavoro di insegnante di musica e mi sono trasferito a Milano, vivevo in un monolocale, per mantenermi facevo il cameriere per le aziende di catering. Nel frattempo, avevo cominciato a fare piccoli concerti e una volta, mentre servivo gli ospiti di una convention, alcuni ragazzi che mi avevano sentito suonare pochi giorni prima mi riconobbero. “Ma come? Fai il cameriere?”. Dopo lo sgomento iniziale, mi sentii profondamente orgoglioso di avere quel vassoio in mano».
Era bravo?
«Abbastanza. Non sapevo sporzionare bene, che è la cosa più difficile».
E come insegnante?
«No, non ho mai sopportato di dire agli altri che cosa devono fare. A Milano, però, ho fatto anche l’insegnante di sostegno per qualche anno. Lì mi sono reso conto di chi sono i veri eroi di oggi: i genitori con figli disabili. È incredibile l’energia che hanno, l’amore che riescono a dare».
I suoi figli come li educa?
«Con l’esempio. I bambini ci guardano e ci analizzano continuamente. E cerco di offrire un ventaglio più ampio possibile di strade. Saranno loro a scegliere che cosa vogliono fare. Per il momento vogliono giocare e basta».
La prima dedica del disco è a sua moglie.
«Sì. È anche la mia manager».
Quale dei due «ruoli» è arrivato per primo?
«Insieme, più o meno».
E come vi siete conosciuti?
Allevi si agita. Poi decide di «distrarmi» tirando fuori dalla borsa mostri di carta che ha ritagliato da alcuni spartiti.
Li tiene lì apposta per non rispondere alle domande che non le piacciono?
«Le spiego. Ho passato un po’ di tempo a Londra, al ritorno mio figlio era arrabbiato con me per l’assenza. Per un po’ abbiamo giocato alla lotta, poi mi è venuta un’idea: perché, invece di combattere noi, non facciamo una battaglia con i mostri? Ha funzionato, sono stato orgoglioso di me. Ho capito che tutto sommato non sono un padre degenere».
Credeva di esserlo?
«Il senso di colpa dilaniante c’è. L’impressione di trascurare i miei figli per il pianoforte, i tour».
Il primo singolo dell’album si intitola My Family.
«È nato un giorno che avevamo un pranzo nel nostro bilocale, con tutti i parenti e mio figlio che continuava a tirare una pallina contro il vetro della finestra. Io non sopporto i rumori forti, così ho preferito andare nell’altra stanza e dal vociare che si affievoliva è nata questa melodia, che è molto dolce, affettuosa».
Vivete ancora in un bilocale? In quattro?
«Il fatto è che io sono spesso in giro, e i bimbi stanno dai nonni fuori Milano. Da lì i sensi di colpa di cui parlavo prima».
Mi dice qual è la sua idea dell’amore di coppia?
«Credo che la cosa più importante in una relazione sia non giudicare l’altro. Anche perché non lo conosciamo davvero. Non sappiamo neppure come siamo fatti noi. E dobbiamo avere chiaro in mente che nessuno è proprietà di qualcun altro. Penso ai femminicidi: spesso alla base c’è l’idea che una donna ci appartenga».
Scusi, ma se non conosciamo l’altro e neppure noi stessi, com’è che scegliamo una persona invece di un’altra?
«Non lo so, credo sia un destino magico».