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 2015  gennaio 21 Mercoledì calendario

FIGLIA D’ITALIA


«A Melò, tè prego, daje ’n cardo in culo a tutti quanti e vatte a pijà ’sta città». Nella terra di mezzo della politica romana, lontana da inchieste, cupole, procure, cecati, pompe di benzina, bande di criminali e piccoli, soporiferi scazzi di partito, c’è una ragazza di 38 anni. È molto popolare, in ascesa e corteggiata dalle televisioni, e ha scoperto che nel Google Translate della politica italiana la traduzione simultanea del nome Marine Le Pen, leader della destra oltranzista francese, non coincide con quello di Matteo Salvini ma con il suo: Giorgia Meloni.
Pensateci. Stessa idea di Stato. Stessa idea di nazionalismo. Stesse idee sull’euro e sull’immigrazione. Stesso rapporto con le periferie. Giorgia “Le Melén”, come la chiamano oggi ironicamente gli amici, è considerata da molti sondaggi uno dei leader politici con il gradimento più alto d’Italia. Secondo una rilevazione Ipsos dell’inizio di dicembre, ha addirittura il 28%: cioè più di Berlusconi, che è fermo al 25, più di Alfano, al 22, e di Beppe Grillo inchiodato al 17.
Oggi il suo nome viene associato a molte sfide future. Fra queste, ce n’è una abbastanza complicata: le primarie del centrodestra – quando e se ci saranno – per il Campidoglio. Se tutto dovesse davvero crollare (il sindaco Marino non regge, la giunta cade, l’inchiesta su Mafia Capitale decolla e le elezioni diventano quindi una soluzione inevitabile) lei ha già detto, a modo suo: «Appena il Pd manderà a casa “Kung Fu Panda” Marino, non ci tireremo indietro. Io sarò in prima fila se sarà necessario».
Incontriamo Giorgia Meloni giovedì 4 dicembre – nei giorni in cui le periferie ribollivano di disagio e disobbedienza – in una borgata, il Nuovo Salario, al mercato di via Virgilio Talli. Lei stessa, del resto, ex ministro della Gioventù del governo Berlusconi, è nata e cresciuta nel quartiere della Garbatella, e al mercato sembra proprio a suo agio. Oggi capo del partito Fratelli d’Italia, è stata la candidata più votata alle Europee (348.700 preferenze, che non sono bastate però a far superare al suo partito il quorum del 4%).
Prima donna presidente di un’organizzazione giovanile di destra (nel 2004 con Azione Giovani, ai tempi di Gianfranco Fini); prima iscrizione in una sezione di partito nel 1992, il giorno dopo la strage di Capaci – il tutto, dopo aver passato parecchi anni a lavorare come promoter al Piper di Roma e come baby-sitter anche per la figlia di Fiorello –, la Meloni confessa che, al fondo, il problema non sarebbe quello di diventare sindaco, che i voti ci sarebbero, ma, più semplicemente, fare il sindaco.
«Per immaginare la politica e capire come si muovono i voti», dice, «dovete pensare a com’è fatto un uovo. Nel tuorlo ci sono i partiti di centro, moderati, di sinistra e di destra, che si contendono un piccolo ma vitale bacino di voti. Nella parte esterna, l’albume, ci sono tutti gli altri: quelli non allineati, anche più radicali ed estremi. Questi partiti si contendono una platea di voti più grande e trasversale della prima. Noi stiamo nel secondo cerchio ed è per questo che oggi, almeno così dicono i sondaggi, un profilo come il mio può attrarre voti non solo di estrema destra ma anche di estrema sinistra».
Occhio azzurro inquadrato in un leggero tocco di matita nera, capello vaporoso, giubbotto di pelle, fisico asciutto, gambe scolpite – dice lei – da una notevole attività fisica (corre dieci chilometri quattro giorni a settimana, un’altra volta va in palestra a esercitarsi con il CrossFit, qualsiasi cosa esso significhi); ha passioni (sinistre) per le canzoni di Francesco Guccini («Lo adoro») e per i libri di Andrea Camilleri («Solo quelli, però, perché quando parla di politica mi scende il latte alle ginocchia»).
Giorgia Meloni sostiene che Matteo Salvini, con cui il suo partito ha una liaison politica (per quanto riguarda i sentimenti veri, invece, questa per lei è una fase complicata), è un leader «gagliardo e tenace»: al punto che, dovendo scegliere tra lui e Berlusconi, preferirebbe tutta la vita il primo. Ammette, però, che «Matteo non potrà mai essere il leader del centrodestra perché rappresenta una parte dell’Italia, e l’Italia va invece rappresentata nella sua interezza». Riconosce che il «centrodestra non tornerà mai a vincere fino a che in televisione manderà vecchie cariatidi di partito che promettono di fare cose che non sono riuscite a fare quando erano al governo». E dice che per poter essere credibili, oggi, bisogna fare tanti sforzi, studiare molto, mostrare di essere in sintonia con la modernità, parlare alla pancia ma anche al cervello degli elettori.
Lei, per questo, si considera una secchiona: per correggere l’accento un po’ borgataro e un po’ coatto, che ogni tanto ricompare nei suoi discorsi tra le bancarelle al Nuovo Salario, ha preso corsi di dizione ed è tornata a studiare lingue: francese, inglese e tedesco. «Alcune di queste le parlo anche meglio dell’italiano...», confessa, prendendosi in giro.
Durante la mattinata in borgata, stringe mani («Ne stringerò un migliaio al giorno»). Scatta selfie («A Melò, sei bbona pure senza photoshop», «Te vojo bene, te posso chiama’ tutte le mattine per iniziare meglio la giornata?»). Prende appunti sul bloc-notes del telefonino. Ascolta una decina di richieste d’aiuto: «A Melò, qui nun funziona un cazzo, paghiamo troppe tasse, non vendiamo nulla, ce so’ troppi stranieri, ce rubano il lavoro. ’St’euri c’hanno rovinato. ’Sto sindaco è ’no schifo. Renzi nun ce piace, ma se nun ce date ’na prospettiva ce toccherà pure votallo». Si muove come un parroco nel confessionale. Ascolta. Mette insieme i peccati. E, quando può, prova persino a consolare: «Una Leopolda in meno e un mercato in più, l’Italia starebbe meglio».
Appunti, spunti, critiche, abbracci, ancora selfie. Intanto, ragionando sul futuro, dice di non avere precisi piani a breve termine. «Se rinascessi, farei l’interprete o condurrei un programma radiofonico. Non televisivo, perché io odio la tv. E le confesso che ho già in mente da tempo un format con il mio amico Roberto Giachetti, vicepresidente della Camera, del Pd: prima o poi, lo presenteremo».
Alla fine, però, sta al gioco e spiega cosa farebbe se oggi fosse lei sindaco di Roma o presidente del Consiglio.
«Se fossi a Palazzo Chigi, rivedrei completamente le politiche della sinistra sull’immigrazione: reintrodurrei il reato di immigrazione clandestina, pretenderei dall’Europa una distribuzione equa dei profughi in tutti i Paesi dell’Unione, fermerei i flussi migratori fino a quando la disoccupazione italiana non sarà scesa sotto il 7%: se non c’è lavoro per gli italiani, non ce n’è neanche per gli immigrati. Poi, detasserei i nuovi contratti di lavoro. E fisserei il salario minimo netto a mille euro».
E se invece fosse sindaco?
«Chiuderei subito i campi nomadi e farei delle aree di sosta temporanea attrezzate e a pagamento per i nomadi veri, come accade in tutta Europa; proverei a vincere la sfida di migliorare la qualità della vita nelle periferie. Perché lì le persone vivono in condizioni drammatiche, sono trattate come fossero polli in batteria: demolirei e ricostruirei i casermoni, porterei qui i pezzi di patrimonio artistico e culturale che sono abbandonati in modo scandaloso negli scantinati delle soprintendenze, che ovviamente abolirei».
Sul presente, invece, Meloni dice che il destino di questa legislatura e dei suoi partiti, ma soprattutto il destino di Renzi e la sua capacità di essere qualcosa in più rispetto al “tutto chiacchiere e distintivo” alla De Niro, passa dalla capacità di «rompere le ossa» (sì, proprio così: rompere le ossa) ai campioni dell’austerità in Europa. Una missione che però sembra impossibile, perché per rompere le ossa bisogna rompere l’euro e perché c’è anche un’altra partita centrale: quella del Quirinale. Lei avrebbe molti nomi da suggerire, ma ne sceglie uno – «realmente possibile, però, non solo un’idea» – in grado di mettere insieme le diverse anime del Parlamento. «Vorrei un presidente della Repubblica con il profilo di Brunello Cucinelli, patron dell’azienda d’eccellenza del cachemire, che senza aiuti di Stato e senza pressioni decide di destinare 5 milioni di utile ai suoi 800 dipendenti, per premiarli e condividere con loro i successi conseguiti. Uno che sa che la partecipazione agli utili può essere la risposta giusta di questi tempi».
Tuorlo e albume. Centro e periferia. Salvini e Berlusconi. Destra di ieri e di domani. Il futuro della Meloni non è ancora definito: tutto può succedere, tutto può cambiare. Ma che lo scenario sia romano o extraromano, chissà che quello del centrodestra non passi anche per l’uovo (di Colombo) di Giorgia Le Melén.