Enric González, GQ 1/2015, 21 gennaio 2015
UN UOMO TRANQUILLO
[Carlo Ancelotti]
Carlo Ancelotti è fumatore e riflessivo. Lui stesso lo ammette, gli manca un po’ di spontaneità. Ha imparato la pazienza lavorando la terra; parla bene di tutti ed è abituato a comportarsi da perfetto manager.
Un allenatore, dice, deve adattarsi alle circostanze: in questo caso, l’ufficio nella sede del Real Madrid.
Prima di iniziare a giocare a calcio lavoravi nei campi?
«Sono cresciuto in una famiglia di contadini: mio padre aveva un terreno e d’estate gli davo una mano. Mi ha insegnato tanto. Ricchi non lo eravamo; uniti e sereni sì. Producevamo il Parmigiano Reggiano, un lavoro che richiede pazienza, perché la stagionatura dura almeno 15 mesi: lavori oggi e guadagni tra un anno. Devi organizzarti bene per arrivarci senza problemi».
Volevi già diventare un calciatore?
«Il calcio mi è sempre piaciuto. In un paesino come Reggiolo, dove sono cresciuto, si giocava all’oratorio. Uscivo da scuola e andavo dritto lì. Per otto, dieci ore. Poi ho fatto un provino con le giovanili del Parma, m’hanno preso. Avevo 16 anni, sono andato a vivere in un collegio di Salesiani».
Dev’essere stata dura, per te, lasciare tutto.
«Difficilissimo. Tornavo a casa al sabato, ma stare lontano da casa tutta la settimana... Ricordo il dolore del lunedì mattina, quando dovevo andare a Parma. I frati erano severi, ma mi hanno insegnato cose importanti, come rispettare gli orari, essere disciplinato e indipendente. La camera era grande tre metri per tre, un letto e un armadio: dovevo per forza essere ordinato».
Com’è andata con il Parma?
«Due anni con le giovanili, poi sono passato in prima squadra, in serie C. Nel 1979 sono andato alla Roma. Vivevo a Porta Cavalleggeri, vicino al Vaticano. Lì ho cominciato a fare sul serio».
Nonostante l’età sono iniziati i problemi alle ginocchia.
«Primo infortunio a 22 anni: rottura del legamento crociato destro. A 24, il sinistro. Due anni fuori. All’epoca recuperare era dura, e non c’era garanzia di tornare come prima. Ma non ho mollato; forse non mi rendevo conto della gravità della situazione. Prima pensi di tornare a camminare, poi di correre, infine di tornare a giocare. Ogni tappa è un obiettivo».
Perché Arrigo Sacchi ti ha voluto a Milano?
«Voleva inserirmi nel meccanismo che stava costruendo. Non so, forse a Parma gli avevano parlato bene di me. Credo che gli piacesse il mio carattere, visto che per quanto riguarda il gioco mi ha cambiato: a Roma correvo molto, ero un centrocampista dinamico e di contatto fisico; al Milan sono diventato una specie di Xabi Alonso, meno corsa e più senso della posizione. Ha dovuto convincere anche Berlusconi, che non mi voleva».
Per te è stato l’allenatore più importante?
«Sì. Ho avuto Liedholm, Capello ed Eriksson, ma dal punto di vista tattico il mio punto di riferimento è Sacchi. Cura tantissimo i dettagli: lo chiamavamo “Il Martello” perché non ti mollava mai, però in campo sapevi cosa fare e cosa avrebbero fatto gli avversari».
Sei tranquillo come sembri o fai finta?
«Sono fatto così. Essendo dei Gemelli, ho una specie di personalità multipla. Fuori dal campo sono tranquillo, quando gioco divento aggressivo; faccio il mio lavoro con passione ma sono una persona pacata. Detesto discutere, preferisco dialogare e cercare una soluzione. Difetti: non sono una persona diretta, tanto meno spontanea. Penso molto prima di dire o fare qualcosa. Diciamo che tra istinto e ragione prevale sempre la ragione».
Sapevi che un giorno saresti diventato allenatore?
«L’ultimo anno nel Milan ho giocato poco. Era anche il primo di Fabio Capello come allenatore; nel mio ruolo aveva preso un giovane, che poi era Demetrio Albertini. Sacchi intanto è andato ad allenare la Nazionale e mi ha detto: “Quando smetti vieni a lavorare con me”. Nel 1992, a 33 anni, finalmente ho deciso di lasciare».
Da allora è passato più di un ventennio ma qui le famiglie hanno ancora paura ad andare a vedere le partite.
«L’Italia è l’unico Paese dove ci sono ancora gruppi organizzati di ultras. In Inghilterra la situazione era molto più grave, ma è stato fatto uno sforzo enorme per eliminare il problema con leggi severissime. Ci sono anche in Italia, però nessuno le rispetta».
Già, la Premier. Sembravi il candidato ideale per sostituire Ferguson sulla panchina del Manchester United.
«Non lo so. Sono stato bene al Chelsea per due anni e mi piace lo stile di vita inglese. Ne apprezzo la serietà, la fermezza e la compostezza. Se dovessi andare in guerra preferirei avere al mio fianco un esercito di inglesi, non di italiani». (ride)
Ci tornerai, prima o poi?
«Mi piacerebbe. Lì è diverso. Detesto la mancanza di rispetto. Sopporto la pressione della stampa o dei dirigenti, ma mi disturbano la violenza allo stadio, gli insulti a tua madre... In Spagna c’è una rivalità enorme tra Real Madrid e Atletico, ma alla finale di Champions a Lisbona tutti si sono comportati bene: due tifoserie hanno viaggiato in un Paese straniero, hanno rispettato le regole e sono tornate a casa. Una felice, l’altra triste. È l’essenza dello sport».
Prima hai allenato anche il Paris Saint-Germain.
«Sono rimasto a Parigi un anno e mezzo, e verso la fine della seconda stagione ho capito che qualcosa non funzionava. Eravamo primi in classifica ma non ero convinto. Poi, non mi trovavo bene con la dirigenza e ho deciso di andarmene: il 1° marzo del 2013 ho comunicato la decisione di lasciare il PSG».
Il Real non era un’oasi di tranquillità quando sei arrivato. La gestione di Mourinho era stata tempestosa.
«Sapevo che c’erano state tensioni fra alcuni giocatori e Mourinho, anche nello spogliatoio; ma era tornata la calma, non c’erano questioni in sospeso. Del resto io e José Mourinho abbiamo un metodo di lavoro simile. Quando sono arrivato al Chelsea, al suo posto, avevo notato delle differenze, ma ho evitato di imporre i miei metodi a una rosa già abituata a un sistema di gioco. A Madrid non ho dovuto cambiare granché, i giocatori erano abituati a lavorare più con il pallone e meno sulla preparazione. La vita di un allenatore è sempre piena di problemi, ma qui ne ho trovati meno di altrove. L’ambiente è tranquillo, lavoro con gente motivata che ha sempre rispettato le mie decisioni».
Anche quella di schierare fra i pali Diego López in campionato e Iker Casillas nelle Coppe?
«Già. Nessuno dei due era contento dell’alternanza, ovvio, ma alla fine l’hanno capita e accettata senza cali di rendimento».
Da giocatore eri la voce di Sacchi in campo. Chi è la tua da quando sei l’entrenador del Real Madrid?
«Gente che ha le mie stesse caratteristiche fisiche e tecniche. Prima Xabi Alonso: non è veloce, ma neanch’io lo ero, è intelligente. Ora, in prospettiva, Asier Illarramendi. Forse».
Come si fa a gestire un gruppo di ragazzi famosi, milionari ed egocentrici?
(ride) «Non l’ho ancora capito. Cerco di essere una persona che sta loro vicino e li rispetta, ma non un papà. Vogliono parlare di tutto e sapere tutto: devi instaurare un rapporto e convincerli che il lavoro individuale è importante per il gruppo. Poi c’è il campione, quello con doti fuori dal comune, che si mette al servizio degli altri. Tutto qui».
Ce n’è qualcuno nel Real?
«Cristiano Ronaldo. Uno che aiuta gli altri... Ma se fai 50 gol a stagione, una bella mano a compagni e allenatore comunque la dai (ride). In più non è egoista, anche se gioca in una posizione in cui esserlo è normale».
Per definizione, una punta dev’essere un po’ egoista.
«Esatto. Però lui è un giocatore generoso, capace di sacrificarsi per il bene della squadra. Come Ibrahimovic, forse il giocatore più altruista che abbia mai visto».
Vallo a dire a Guardiola, però...
«Ma lì c’era un problema tattico, Pep voleva che facesse la punta fissa, mentre lui ama giocare a tutto campo. E poi a Barcellona tutto gira intorno a Messi».
A proposito di Illaramendi: nella famosa finale di Lisbona doveva giocare al posto di Xabi Alonso, poi...
«Alla fine ho pensato di coprirmi sulle giocate da fermo. Alonso è uno dei migliori al mondo nel gioco aereo e, senza di lui, avremmo avuto problemi su calci d’angolo e punizioni, in cui l’Atletico è davvero micidiale. Servivano un po’ di centimetri e ho messo Khedira».
Come si fa a dire a uno che deve andare in panchina?
«Gli spieghi perché e gli dici la verità. Illarramendi non era contento, chiaro, dopotutto era la finale di Champions League e lui è un giocatore di carattere. Però ha capito».