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 2015  gennaio 21 Mercoledì calendario

UNO, NESSUNO E CENTOMILA


[Fabrizio Gifuni]

A un dato punto, ammette, riflettere fu necessario: «Le conseguenze del gioco erano imprevedibili e le mie imitazioni avevano assunto risvolti inquietanti. Gli amici mi chiedevano favori estemporanei, io mi prestavo a camuffare i timbri più disparati. La mia voce era uno strumento utile a creare altri mondi, a dare una nuova piega agli eventi. Il confine tra gioco e inganno diventava sempre più labile. Capii di averlo superato quando chiamai un’allieva del vecchio professor Serrao, Diritto romano, un’istituzione: “Lei è la migliore studentessa che abbia mai avuto, vorrei venisse in università per discutere di prospettive e futuro prossimo”. Avvertii la gioia. L’emozione. L’incredulità. Attaccai la cornetta e mi sentii male. Così ritelefonai subito alla ragazza, mi scusai e non lo feci più». Nella precedente esistenza di Fabrizio Gifuni il talento di indossare le vite degli altri (statisti, economisti, papi, parricidi, bancarottieri) non era ancora un mestiere: «L’ho affinato per portarlo fuori da me e poterlo condividere».
Poi continua: «A casa si rideva molto, ho avuto un’infanzia felice. Il più grande privilegio del mio lavoro è poter tornare a quel tempo scatenato. Riappropriarmi di una sfrenatezza. Di un gioco che nessuno dovrebbe poter interrompere».
E che nessuno si immaginerebbe...
«So cosa sta per dirmi. Che in una famiglia apparentemente austera, con un padre di stanza per decenni nelle Istituzioni, avrei dovuto corrispondere a un altro profilo».
È vero, stavo per dirglielo.
«Ecco, allora leviamoci subito il pensiero. Ricordi lieti, invece, un clima sempre rilassato in casa. Vacanze in un mare non bello, ma pratico, non lontano da Roma, che si sobbarcava mia madre, pur non amando la spiaggia, in modo che mio padre potesse raggiungerci nei weekend, e tanta montagna. Mio fratello maggiore, cinque anni più di me, portava a casa la politica delle assemblee del suo liceo e amava la musica. Metteva sul piatto Francesco Guccini, Fabrizio De André, Francesco De Gregori, Pino Gaetano, Ivan Graziani, Led Zeppelin o Pink Floyd e poi usciva. Io, più piccolo, guardavo i telegiornali e vedevo passare le manifestazioni sporgendomi dalla finestra. Altra politica arrivava a pranzo con i racconti di mio padre, un formidabile affabulatore in grado di farti vedere e sentire le cose».
Della famiglia non parla volentieri.
«Di quella di origine non ne ho parlato perché, soprattutto nei primi anni, è stata spesso, oggettivamente, uno zaino piuttosto ingombrante da portare. Se indugio poco anche sulla mia è perché sono convinto che un artista possa parlare di se stesso molto più attraverso un gesto creativo. Le storie sui giornali, anche le più distanti, alla fine si assomigliano tutte: cibi, gusti, amicizie, aspirazioni. Un gesto creativo autentico non assomiglia a nulla».
Si è laureato in Giurisprudenza?
«No, mi mancavano pochi esami. Per anni, strenuamente, ho continuato a pagare le tasse. Poi l’ho lasciata andare, la laurea, e adesso francamente non ci penso più».
Non le dispiace?
«Stefano Rodotà, quest’anno, mi ha invitato al Festival del Diritto a leggere un mio testo su teatro e processo penale. Ho scoperto poi che la partecipazione valeva come credito formativo per gli avvocati. Ecco, si può arrivare allo stesso punto da mille traiettorie diverse e forse quelle meno prevedibili sono le più interessanti».
Potrebbe essere vero.
«Di vero e profondo c’è il rapporto tra teatro e giustizia. Sul processo, il palcoscenico che la comunità si è data per condannare o assolvere l’attore in scena, ci sto lavorando da un po’ di tempo in vista di uno spettacolo. Più dell’artificio retorico o degli aspetti teatrali di superficie, mi interessa quello che c’è sotto. Il rito. Il legame comune. E i meccanismi psichici primari: menzogna, verità, colpa, senso di colpa, sacrificio e, naturalmente, il capro espiatorio».
Drammaturgicamente il capro espiatorio indigna, scuote, anima i sentimenti.
«C’è un piccolo folgorante film di Bergman, Il rito, in cui un giudice indaga sulla presunta oscenità di un numero teatrale interpretato da tre attori. L’indagine è un espediente per sapere come vivono, nel caos, i tre protagonisti. C’è tutto dentro».
È il caos endemico di ogni attore? La condizione inestricabile del guitto?
«Io non so come funziona per gli altri, so però che qui dentro, senza nessuna retorica, siamo tanti. Ma proprio tanti. Che certi giorni ci vorrebbe un vigile a dirigere il traffico. E nella varietà di generi, c’è sempre l’incognita di chi prenderà la parola, di chi si sveglierà per primo: vecchi, bambini, uomini, donne, primi violini e triangoli sul fondo. Diciamo che, se non avessi fatto l’attore, dando a tutti una voce, forse qualche problemino di gestione degli orchestrali l’avrei avuto. Anche per questo le interviste mi imbarazzano. Mi dicono: “Parlaci di te” e io mi chiedo: “Di me chi?”. Poi alla fine, come dice quel genio di Cortázar, che di queste cose se ne intendeva, nel racconto Un certo Lucas: sempre che ci sia la salute».
Nel 1980 lei aveva 14 anni.
«Era un’epoca in cui fino al giorno prima dovevi stare per forza da una parte, senza magari averne alcuna voglia. Gaber cantava “Chiedo scusa se parlo di Maria”. Negli Anni 70, se si affacciava una minima esigenza personale, eri bollato come qualunquista. La mia generazione, per converso, si trovò tutta smarrita nel disimpegno. Anche quello diventò un obbligo. Il clima restava cupo, gli elenchi della P2, le Alfetta verdi dei Carabinieri sulla pista d’atletica dello stadio Olimpico all’epoca del primo Calcioscommesse, ma bisognava divertirsi. La musica era orribile, la discomusic mi ripugnava, meno male che c’era Battiato».
Oggi riesce a sentirla ancora un’appartenenza politica?
«Le parole che porto in teatro sono già un segno di appartenenza. Le peso e le scelgo a una a una. Negli anni passati, spinto da un senso di disgusto, mi sono espresso pubblicamente, perché tacere sarebbe stato insopportabile e in troppi stavano zitti perché era più comodo. Oggi preferisco lasciar spazio alla scena. Se hai Camus, gli Scritti corsari o il Pasticciaccio basta ascoltare. Non c’è bisogno di aggiungere».
Gadda, l’audiolibro pasoliniano, Ragazzi di vita, il cinema con Virzì, l’epopea di Lehman Brothers al Piccolo Teatro con Ronconi a stretto giro.
«Lavoro molto, perché non abbandono mai i miei spettacoli e negli anni si moltiplicano. E un repertorio moderno di cui non so fare a meno e che, in termini fisici, mi restituisce la misura della resistenza e del tempo che passa. Significa mettersi nelle gambe e nei polmoni ore di allenamento e risvegliare migliaia di parole che da qualche parte aspettano di essere riutilizzate».
Esercizio fisico. E mnemonico.
«Non è solo un fatto tecnico, anche con la memoria. Avere nella testa e nel corpo tre ore di parole, come ho fatto con Gadda e Pasolini, fanno di me una persona inevitabilmente diversa da quella che ero prima».
La Lehman Trilogy copre 150 anni di storia.
«Dalla Baviera di metà ’800 all’approdo in America per commerciare cotone, fino al crollo del 2008. Una magnifica parabola, diretta dal più grande direttore d’orchestra, con un cast notevole. Due spettacoli, una bella vertigine, con molta ironia dentro.».
Quando trova tempo per sé e per il padre che è al di fuori delle scene?
«Sono ciò che faccio e faccio quel che sono, ma se lo spazio fisico per prepararmi è sempre difficile da trovare e le figlie iniziano ad abituarsi ai ritmi dei genitori, io quando sono a Roma trotto e quando sono fuori per lavoro, paradossalmente, riposo di più. Se posso produrre i miei spettacoli, organizzarmi e non dipendere dagli altri, come faccio da tempo, anche per ragioni di libertà, poi, tanto meglio».
Lei parla un italiano antico. Letterario.
«La mia lingua mi piace, è una parte centrale del mio lavoro. Non sono stato un lettore precocissimo, i libri importanti li ho presi in mano tra i venti e i trent’anni e le parole hanno iniziato ad assumere valore proprio con il teatro. Dopo l’Accademia, appassionato di tragedie greche, ho avuto la fortuna di fare due lunghe stagioni in una compagnia italo-greca. Atene, Cina, Giappone, Corea. Un’esperienza decisiva».
Con eleganza.
«Ora, questa storia... Dopo aver interpretato Il capitale umano, questa cosa dell’eleganza è diventata un altro tema ricorrente. Mi è piaciuto stare in quei panni per un paio di mesi, mi sono divertito. Poi l’eleganza è un sentimento interno, una faccenda più interessante credo».
Non ha voglia di raccontare una storia in prima persona? Di girare un film?
«Ho dato il via a dei primi tentativi di scrittura, ma non è detto che diventeranno un film. Forse accadrà, ma può anche darsi di no. Per ora mi piace contribuire alla “scrittura scenica” di un personaggio. Quando ero sul set di Virzì, Paolo mi provocava spesso».
In che modo?
«“Oh Gifu’: Bentivoglio, la Bruni Tedeschi, Lo Cascio e Gelino hanno fatto tutti almeno un film. Manchi solo tu. Quando lo giri un film? Eddai...!”».
Ma lo sa che lei fa un’ottima imitazione di Virzì?
«E non ha sentito quella del mio capitano ai tempi della naja. Era l’incubo della caserma. Quando si spegnevano le luci, dopo il contrappello, mi divertivo a imitarlo in camerata. Lo venne a sapere e un giorno, durante la prova generale del giuramento, passò in rassegna le truppe in puro stile Full Metal Jacket “Lei mi imita?”. “No, signore”. “Lei mi imita?”. “No, signore”. Anche io negai. A quel punto si incazzò: “Allora qui c’è un solo buffone, ma questo buffone deve sapere che questo capitano è unico e inimitabile. Perché dopo averlo fatto, hanno buttato lo stampo”. Mi convocò in ufficio. “Ha capito benissimo: sentiamo, mi faccia sentire come parlo”. Perso per perso, chiamai un soldato che stava dietro alla porta, con la sua voce. Urlai con quanto fiato avevo. Quando quello schizzò dentro iniziai a interrogarlo con la voce del terrore: “Mi parli dell’organizzazione addestrativa dell’arma”. Il commilitone balbettava, sconvolto».
Come finì?
«Il capitano fece uscire il soldato tramortito e nella maldestra posa di un Marlon Brando-Kurtz in pieno delirio egolatrico, si aprì in un sorriso storto e mi consegnò il suo berretto e la sua sciabola: “Da domani io starò in ufficio, con la finestra aperta. Di portare in giro i plotoni si occuperà lei e io sentirò la mia voce rimbombare in cortile”. Passai un mese da padrone della caserma e, in modo pagliaccesco e tipicamente italiano, la leva si trasformò in farsa. Non so se ne farò davvero un film, ma questa storia, presto o tardi, la giro».