Riccardo Ruggeri, ItaliaOggi 21/1/2015, 21 gennaio 2015
FCA (FIAT PIÙ CHRYSLER) CAPITALIZZA SOLO 13,3 MILIARDI. CHRYLSER FU VALUTATA 10 MLD AL TEMPO DELL’ACQUISIZIONE DELL’ULTIMO PACCHETTO
Molti lettori mi hanno sollecitato a scrivere su Fca e su Marchionne. Non lo faccio da ottobre (quotazione a Ny) perché nulla di rilevante è successo. Giusto farlo ora, ma solo a mò di «tagliando trimestrale».
Il periodo epico di Fca e di Marchionne ormai è passato, la società è quotata a Wall Street, le sue azioni valgono circa 10 (- $). Il focus ora dobbiamo metterlo sulla sua strategia, soprattutto sulla sua capitalizzazione di borsa: Fca oggi vale 13,3 miliardi. Poniamoci una sola domanda: ha margini di crescita?
La Chrysler, da sola, era stata valutata 10 miliardi nel momento dell’acquisizione dell’ultimo pacchetto (gennaio 2014), possibile che Ferrari e Fiat ne valgano solo 3? Ogni analista o investitore può dare a ciascun oggetto dei tre che compongono Fca la valutazione che crede, purché sappia che la somma deve fare 13,3.
Se si vuole «personalizzare» meriti e demeriti (aspetto che molti lettori curiosamente mi chiedono) a Marchionne competono quelli circa Chrysler e Fiat, a Montezemolo quelli di Ferrari (si parla di auto, non di F1). Il rating (S&P), altro dato incontrovertibile, è tuttora «BB-», come nel 2009 per Fiat Group, prima dell’arrivo di Chrysler. Tutto qua, il resto è gossip manageriale. Non nego che mi sarei atteso una capitalizzazione di ben altre dimensioni.
Giusto commentare un recente pezzo di «The Times Engineering», intitolato «Makers must share costs, say Fiat boss». La prima impressione è: nulla di nuovo sotto il cielo dell’auto mondiale. Il «joint development» è un vecchio arnese, da oltre 30 anni nei car guy non provoca alcuna forma di eccitazione, men che meno di erezione: è stato sperimentato in tutte le sue possibili varianti, con chiari insuccessi e rari modesti successi. È riferibile a modelli di auto caratterizzati da bassi volumi, che poi vengono vestiti con livree differenti.
Se si toglie il velo di cipria da cui sono avvolte certe dichiarazioni manageriali, emerge il fatto che il problema resta quello dei bassi ritorni, non solo nei prodotti di nicchia, ma anche in quelli ad alti volumi. È chiaro come ormai siano irrilevanti, e l’outsourcing da Paesi a costi ridotti (sussurro da anni che il costo del lavoro è variabile strategicamente secondaria), e le mitiche centrali di acquisto (anche la componentistica è in ginocchio, in parte proprio per queste strategie radicalizzate).
Lo stesso dicasi per l’obiettivo di massa critica su cui si basava il Piano Strategico Fca del maggio 2014, propedeutico per la quotazione a Wall Street: 7 milioni di pezzi.
Verrà rivisto? Quando si prenderà atto che nessuno di quegli idioti dei Competitor, pur sapendo singolarmente di essere complessivamente troppi, accetta di suicidarsi?
Quando si capirà che quegli altri idioti dei Clienti non intendono buttare quattrini per sostituire l’auto se non costretti, o comprarne di nuove se non quando non ne possono più fare a meno?
Quando si prenderà atto del fallimento della strategia dei volumi, e tornare al processo di ristrutturazione old fashion di costruttori e marchi? Ciò significherà fare le solite cose, che nessuno vuole più fare: chiudere centri produttivi, licenziare personale, ottimizzare le reti di dealer (cioè ridurre personale e strutture), certificando così l’incapacità strategico-manageriale di questa generazione di supermanager. La ristrutturazione e il riposizionamento strategico le si fanno una volta sola, semmai eccedendo nella «crudeltà» mai nel compromesso.
Sullo sfondo c’è un caso storico di riferimento che incombe: il mercato dei trattori, macchine agricole, movimento terra, e la dozzina d’anni (’80, primi ’90) duranti i quali una cinquantina di aziende del comparto ingaggiarono un conflitto totale e mortale.
Per sopravvivere le tentarono tutte, alleanze, acquisizioni, vendite, fusioni, joint-venture, ci furono morti, feriti, dispersi, paragonabili solo alle guerre napoleoniche. In pratica, sopravvissero in pochi, due divennero Big, le altre ancelle. Nell’Auto i due Big (Toyota-VW) ci sono già, la partita è chi fra i follower farà le ancelle (non c’è certo spazio per tutta l’attuale pletora di Competitor, molti palesemente ridicoli).
Gli investitori degli attuali follower si accorgeranno presto che buttare quattrini per galleggiare (guadagnare cioè tempo) è suicida, i quattrini occorre metterli negli investimenti strategici, che però nel business dell’auto hanno una sgradevole caratteristica: un ritorno solo nel medio-lungo (l’elettronica ce l’ha insegnato). E allora? I più birbanti di costoro (quasi tutti), sapendo che il business dell’auto, checché ne dicano i colti, è industria «socialmente strategica», torneranno a bussare a Mamma Stato. I supermanager si convertiranno a una ideologia mixata: liberisti per linguaggio e compensi-bonus (loro), statalisti per far pagare ai cittadini le ristrutturazioni e gli investimenti.
Nel frattempo, ruffianarsi con il potere politico e con la stampa non guasta (e ci riescono pure bene). Che tristezza, tutto déjà vu.
Riccardo Ruggeri, ItaliaOggi 21/1/2015